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bernatis, ingenuamente sedotto, consuma quindici pagine del suo volume su Goldoni per offrirci il riassunto e copiose citazioni, concludendo: “Se il metro martelliano non desse spesso al verso un atteggiamento più comico che drammatico, se, invece che in martelliani, la Sposa Persiana fosse stata scritta in endecasillabi, potremmo perciò avere l’illusione di trovarci col merito di non aver turbato l’andamento del dialogo con le ariette, innanzi ad uno de’ più caldi ed interessanti drammi metastasiani”. No, proprio no. E nemmeno questo è vero: “Gli effetti che vi si muovono in contrasto, l’intreccio interessante e l’animazione di alcuni caratteri sollevati a dignità eroica ci obbligano perciò a riconoscere nel nuovo drammaturgo, non solo un seguace, ma un emulo non infelice del Metastasio” (C. Goldoni, Firenze, 1911, p. 226). Goldoni e Metastasio! ecco due nomi che non si accordano: l’arte dell’uno è una cosa ben diversa, e sempre diversa, dall’arte dell’altro.
Fin dal 1882 Ferdinando Galanti era costretto a confessare: “Oggi i nomi stessi degli interlocultori non sarebbero più tollerabili. Chi potrebbe seriamente prestar attenzione a Machmut, Tamas, Curcuma... che recitano versi martelliani? I costumi, l’intreccio e la decorazione possono stuzzicare la curiosità del pubblico, ma nell’assieme son cosa fatua, artifiziata; vi è lo sforzo per ottenere l’effetto... Carlo Goldoni, il semplice Goldoni, in codesti drammi col viso truce, con un gran turbante, colla spada impugnata, mi pare un Otello da strapazzo” (C. Goldoni, Padova, pp. 228-229). Nel 1905 la signorina Maria Ortiz fece oggetto di studio diligente le Commedie esotiche del Goldoni, non con l’intento di risvegliarne la fama, bensì di illustrare un episodio della storia del teatro veneziano del Settecento. Dall’esame sereno della commedia, e delle cause che provocarono il suo trionfo in quel secolo, la Sposa Persiana esce spoglia d’arte e di vita, misera macchina d’orpello orientale, esposta alla semplice curiosità dei posteri.
Il Goldoni dedicò la stampa della Sposa Persiana, che preparò nel 1755 ma uscì soltanto nel ’57, a donna Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, nata nel 1721 a Roma da don Marco duca di Fiano, e sposa nel 1741 al maturo duca Gabrio Serbelloni di Milano. Brutta di volto ma intelligente e colta, già trentenne e madre di quattro figli maschi, di lei s’innamorò il giovane conte Pietro Verri (nato nel 1728) e per lei sostenne lunghe e aspre lotte coi genitori. Credo che proprio alla Serbelloni alluda il Verri nella lettera dei 9 ottobre 1767 al fratello Alessandro: “Io ho amato per la prima volta una donna, che aveva almeno dieci anni più di me, brutta come tu la conosci; per lei ho sofferto l’ira de’ parenti, solo ho saputo mancar di tutto ed espormi a tutto... Ho veduto tradita la mia buona fede, da un giorno all’altro scoppiò la mina, che clandestinamente s’era preparata; io rimasi abbandonato improvvisamente soppiantato da un cugino, che piantò poi lei” (Carteggio di P. e Al. Verri, Milano, Cogliatid, vol. I, parte 2’. p. 80. Vedi anche vol. I, parte I., pp. 16 e 424; vol. II, p. 267; vol. III, p. 176; vol. V, p. 100). Ma il Verri, come suol accadere, dimentica forse i torti suoi. Il salotto della Duchessa era “l’asilo de’ Poeti e de’ Filosofi, tanto nazionali come forestieri” dice enfaticamente l’abate Isidoro Bianchi nell’Elogio storico di P. Verri (Cremona, 1803, pp. 44-45). “Fu donna di animo fermo e buono” scriveva in età avanzata il Verri stesso, dopo sbollita ogni antica passione, “e aveva lo spirito corredato