La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione quinta/Capitolo sesto

Sezione quinta - Capitolo sesto - Siegue la politica degli eroi

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[CAPITOLO SESTO]

siegue la politica degli eroi

634Ma tutti gli storici danno il principio al secolo eroico coi corseggi di Minosse e con la spedizione navale che fece Giasone in Ponto, il prosieguimento con la guerra troiana, il fine con gli error degli eroi, che vanno a terminare nel ritorno d’Ulisse in Itaca. Laonde in tali tempi dovette nascere l’ultima delle maggiori divinitá, la qual fu Nettunno, per questa autoritá degli storici, la qual noi avvaloriamo con una ragion filosofica, assistita da piú luoghi d’oro d’Omero. La ragion filosofica è che l’arti navale e nautica sono gli ultimi ritruovati delle nazioni, perché vi bisognò fior d’ingegno per ritruovarle; tanto che Dedalo, che funne il ritruovatore, restò a significar esso ingegno, e da Lucrezio ne fu detta «daedala tellus» per «ingegnosa ». I luoghi d’Omero sono nell’Odissea, ch’ovunque Ulisse o approda o è da tempesta portato, monta alcun poggio per veder entro terra fummo, che gli significhi ivi abitare degli uomini. Questi luoghi d’Omero sono avvalorati da quel luogo d’oro di Platone, ch’udimmo riferirsici da Strabone sopra nelle Degnitá, del lungo orrore ch’ebbero del mare le prime nazioni; e la ragione fu avvertita da Tucidide: che per lo timor de’ corseggi le nazioni greche tardi scescero ad abitare sulle marine. Perciò Nettunno ci si narra aver armato il tridente col quale faceva tremar la terra, che dovett’esser un grande uncino da afferrar navi, detto con bella metafora «dente», e col superlativo del «tre», com’abbiam sopra detto, col quale faceva tremare le terre degli uomini col terrore de’ suoi corseggi. Che poi, giá a’ tempi d’Omero, fu creduto far tremare le terre della natura, nella qual oppenione Omero fu seguito poi da Platone col suo abisso dell’acque, che pose nelle viscere della terra, ma con quanto accorgimento, appresso sará dimostro. [p. 305 modifica]

635Questi deon essere stati il toro con cui Giove rapisce Europa, il minotauro o toro di Minosse, con cui rapisce garzoni e fanciulle dalle marine dell’Attica (come restarono le vele dette «corna delle navi», ch’usò poi Virgilio); e i terrazzani spiegavano con tutta veritá divorarglisi il minotauro, ché vedevano con ispavento e dolore la nave ingoiarglisi. Cosi l’orca vuol divorare Andromeda incatenata alla rupe, per lo spavento divenuta di sasso (come restò a’ latini «terrore defixus», «divenuto immobile per lo spavento»); e ’l cavallo alato, con cui Perseo la libera, dev’essere stata altra nave da corso, siccome le vele restaron dette «ali delle navi». E Virgilio, con iscienza di quest’eroiche antichitá, parlando di Dedalo, che fu il ritruovator della nave, dice che vola con la macchina che chiama «alarum remigium»; e Dedalo pur ci fu narrato esser fratello di Teseo. Talché Teseo dee esser carattere di garzoni ateniesi, che, per la legge della forza fatta lor da Minosse, sono divorati dal di lui toro o nave da corso; al qual Arianna (l’arte marinaresca) insegna col filo (della navigazione) uscire dal labirinto di Dedalo (che, prima di questi, che sono ricercate delizie delle ville reali, dovett’esser il mar Egeo, per lo gran numero dell’isole che bagna e circonda), e, appresa l’arte da’ cretesi, abbandona Arianna e si torna con Fedra, di lei sorella (cioè con un’arte somigliante), e si uccide il minotauro e libera Atene della taglia crudele che l’aveva imposto Minosse (col darsi a far essi ateniesi i corsali). E cosí, qual Fedra sorella fu d’Arianna, tale Teseo fu fratello di Dedalo.

636Con l’occasione di queste cose, Plutarco nel Teseo dice che gli eroi si recavano a grande onore e si riputavano in pregio d’armi con l’esser chiamati «ladroni», siccome, a’ tempi barbari ritornati, quello di «corsale» era titolo riputato di signoria. D’intorno a’ quali tempi, venuto Solone, si dice aver permesso nelle sue leggi le societá per cagion di prede: tanto Solone ben intese questa nostra compiuta umanitá, nella quale costoro non godono del diritto natural delle genti! Ma quel che fa piú maraviglia è che Platone ed Aristotile posero il ladroneccio fralle spezie della caccia; e con tali e tanti filosofi d’una gente [p. 306 modifica] umanissima convengono, con la loro barbarie, i Germani antichi, appo i quali, al riferire di Cesare, i ladronecci non solo non eran infami, ma si tenevano tra gli esercizi della virtú, siccome tra quelli che, per costume non applicando ad arte alcuna, cosí fuggivano l’ozio. Cotal barbaro costume durò tant’oltre appo luminosissime nazioni, ch’ai narrar di Polibio si diede la pace da’ romani a’ cartaginesi, tra l’altre leggi con questa: che non potessero passare il capo di Peloro in Sicilia per cagion di prede o di traffichi. Ma egli è meno de’ cartaginesi e romani, i quali essi medesimi si professavano d’esser barbari in tali tempi, come si può osservare appresso Plauto, in piú luoghi, ove dice aver esso vòlte le greche commedie in «lingua barbara», per dir «latina». Quello è piú che dagli umanissimi greci, ne’ tempi della loro piú colta umanitá, si celebrava cotal costume barbaro, onde sono tratti quasi tutti gli argomenti delle loro commedie; dal qual costume questa costa d’Affrica a noi opposta, perché tuttavia l’esercita contro de’ cristiani, forse dicesi Barbaria.

637Principio di cotal antichissimo diritto di guerra fu l’inospitalitá de’ popoli eroici che sopra abbiam ragionato, i quali guardarono gli stranieri con l’aspetto di perpetui nimici e riponevano la riputazione de’ lor imperi in tenergli quanto si potesse lontani da’ lor confini (come il narra Tacito degli svevi, la nazione piú riputata dell’antica Germania); e si guardavano gli stranieri come ladroni, quali abbiamo ragionato poc’anzi. Di che vi ha un luogo d’oro appresso Tucidide: che, fin al suo tempo, ove s’incontrassero viandanti per terra o passaggieri per mare, si domandava scambievolmente tra loro se fusser essi ladroni, in significazion di «stranieri». Ma, troppo avacciandosi la Grecia all’umanitá, prestamente si spogliò di tal costume barbaro, e chiamarono «barbare» tutte l’altre nazioni che ’l conservavano; nel qual significato restò ad essi detta Βαρβαρία la Troglodizia, che doveva uccidere tal sorta d’ospiti ch’entravano ne’ suoi confini, siccome ancor oggi vi sono nazioni barbare che ’l costumano. Certamente le nazioni umane non ammettono stranieri senza che n’abbiano da esse riportato licenza. [p. 307 modifica]

638Tra queste per tal costume da’ greci dette «barbare nazioni», una fu la romana per due luoghi d’oro della legge delle XII Tavole. Uno: «Adversus hostem aeterna auctoritas esto». L’altro è rapportato da Cicerone: «Si status dies sit, cum hoste venito». E qui prendono la voce «hostis», indovinando con termini generali, come per metafora cosí detto l’«avversario che litiga»; ma sullo stesso luogo Cicerone riflette, troppo al nostro proposito, che «hostis», appresso gli antichi si disse quello che fu detto poi «peregrinus». I quali due luoghi, composti insieme, danno ad intendere ch’i romani da principio tennero gli stranieri per eterni nimici di guerra. Ma i detti due luoghi si deon intendere di quelli che furono i primi «hostes» del mondo, che, come sopra si è detto, furono gli stranieri ricevuti agli asili, i quali poi vennero in qualitá di plebei nel formarsi dell’eroiche cittá, come si sono dimostrati piú sopra. Talché il luogo appresso Cicerone significa che, nel giorno stabilito, «venga il nobile col plebeo a vendicargli il podere», come anco si è sopra detto. Perciò l’«eterna autoritá», che si dice dalla medesima legge, dev’essere stata contro i plebei, contro i quali ci disse Aristotile nelle Degnitá che gli eroi giuravano esser eterni nimici. Per lo quale diritto eroico i plebei, con quantunque corso di tempo, non potevan usucapere niuno fondo romano, perché tai fondi erano nel commerzio de’soli nobili; ch’è buona parte della ragione perché la legge delle XII Tavole non riconobbe nude possessioni. Onde poi, incominciando a disusarsi il diritto eroico e invigorendo l’umano, i pretori assistevan essi alle nude possessioni fuori d’ordine, perché né apertamente né per alcuna interpetrazione aveano da essa legge alcun motivo di costituirne giudizi ordinari né diretti né utili; e tutto ciò, perché la medesima legge teneva le nude possessioni de’ plebei esser tutte precarie de’ nobili. Altronde non s’impacciava delle furtive o violente de’ nobili medesimi, per quell’altra propietá delle prime repubbliche (che lo stesso Aristotile nelle Degnitá pur ci disse), che non avevano leggi d’intorno a’ privati torti ed offese, delle quali essi privati la si dovevano vedere con la forza [p. 308 modifica] dell’armi, com’appieno dimostreremo nel libro quarto; dalla qual vera forza restò poi per solennitá nelle revindicazioni quella forza finta ch’Aulo Gellio dice «di paglia». Si conferma tutto ciò con l’interdetto «Unde vi», che si dava dal pretore, e fuori d’ordine, perché la legge delle XII Tavole non aveva inteso nulla, nonché parlato, delle violenze private; e con l’azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», le quali vennero tardi e furon anco pretorie.

639Ora cotal costume eroico d’avere gli stranieri per eterni nimici, osservato privatamente da ciascun popolo in pace, portatosi fuori, si riconobbe comune a tutte le genti eroiche di esercitare tra loro le guerre eterne con continove rube e corseggi. Cosi, dalle cittá, che Platon dice nate sulla pianta dell’armi, come sopra abbiam veduto, e incominciate a governarsi a modo di guerra innanzi di venir esse guerre, le quali si fanno delle cittá, provenne che da πόλις, «cittá», fusse πόλεμος essa guerra appellata.

640Ove, in pruova del detto, è da farsi questa importante osservazione: che i romani stesero le conquiste e spiegarono le vittorie, che riportaron del mondo, sopra quattro leggi, ch’avevano co’ plebei praticate dentro di Roma. Perché con le provincie feroci praticarono le clientele di Romolo, con mandarvi le colonie romane, ch’i padroni de’ campi cangiavano in giornalieri; con le provincie mansuete praticarono la legge agraria di Servio Tullio, col permetter loro il dominio bonitario de’ campi; con l’Italia praticarono l’agraria della legge delle XII Tavole, col permetterle il dominio quiritario, che godevano i fondi detti «soli italici»; co’ municipi o cittá benemerite praticarono le leggi del connubio e del consolato comunicato alla plebe.

641Tal nimicizia eterna tralle prime cittá non richiedeva che fussero le guerre intimate, e sí tali ladronecci si riputarono giusti; come, per lo contrario, disavvezzate poi di barbaro costume sí fatto le nazioni, avvenne che le guerre non intimate son ladronecci, non conosciuti ora dal diritto natural delle genti che da Ulpiano son dette «umane». Questa stessa eterna inimicizia de’ primi popoli dee spiegarci che’l lungo tempo ch’i romani [p. 309 modifica] avevano guerreggiato con gli albani fu egli tutto il tempo innanzi, ch’entrambi avevano esercitato gli uni contro degli altri a vicenda i ladronecci che qui diciamo. Ond’è piú ragionevole che Orazio uccida la sorella perché piagne il suo Curiazio che l’aveva rapita, che essergli stata sposata; quando esso Romolo non potè aver moglie da essi albani, nulla giovandogli l’essere uno de’ reali di Alba, né ’l gran beneficio che, discacciatone il tiranno Amulio, aveva loro renduto il legittimo re Numitore. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria sulla fortuna dell’abbattimento di essi, che principalmente erano interessati; qual, dell’albana, fu quello degli tre Orazi e degli tre Curiazi, e, della troiana, quello di Paride e Menelao, ch’essendo rimasto indiciso, i greci e troiani poi seguitarono a terminarla: siccome, a’ tempi barbari ultimi, similmente essi principi con gli abbattimenti delle loro persone terminavano le loro controversie de’ regni, alla fortuna de’ quali si assoggettivano i popoli. Ed ecco che Alba fu la Troia latina, e l’Elena romana fu Orazia (di che vi ha un’istoria affatto la stessa tra’ greci, ch’è rapportata da Gerardo Giovanni Vossio nella Rettorica ), e i diece anni dell’assedio di Troia a’ greci devon essere i diece anni dell’assedio di Vei a’ latini, cioè un numero finito per un infinito di tutto il tempo innanzi, che le cittá avevano esercitato l’ostilitá eterne tra loro.

642Perché la ragione de’numeri, perciocch’è astrattissima, fu l’ultima ad intendersi dalle nazioni (come in questi libri se ne ragiona ad altro proposito): di che, spiegandosi piú la ragione, restò a’ latini «sexcenta» (e cosí appresso gl’italiani prima si disse «cento» e poi «cento e mille») per dir un numero innumerabile, perché l’idea d’infinito può cader in mente sol de’ filosofi. Quindi è forse che, per dire un gran numero, le prime genti dissero «dodeci»: come dodeci gli dèi delle genti maggiori, che Varrone e i greci numerarono trentamila; anco dodeci le fatighe d’Ercole, che dovetter essere innumerabili; e i latini dissero dodeci le parti dell’asse, che si può in infinite parti dividere; della qual sorta dovetter essere state dette le XII Tavole, per l’infinito numero delle leggi che furono in tavole, di tempo in tempo, appresso intagliate. [p. 310 modifica]

643Però ne’ tempi della guerra troiana bisogna che, in quella parte di Grecia dove fu fatta, i greci si dicessero «achivi» (ch’innanzi si erano detti «pelasgi», da Pelasgo, uno degli piú antichi eroi della Grecia, del quale sopra si è ragionato), e che poi tal nome d’«achivi» si fusse andato per tutta Grecia spandendo (che durò fin a’ tempi di Lucio Mummio, all’osservare di Plinio), come indi per tutto il tempo appresso restarono detti «elleni». E sí la propagazione del nome «achivi» vi fece truovare a’ tempi di Omero in quella guerra essersi alleata tutta la Grecia, appunto come il nome di «Germania», al riferire di Tacito, egli ultimamente si sparse per tutta quella gran parte di Europa, la quale cosí rimase appellata dal nome di coloro che, passato il Reno, indi cacciarono i Galli e s’incominciarono a dir «Germani»; e cosí la gloria di tai popoli diffuse tal nome per la Germania, come il romore della guerra troiana sparse il nome d’«achivi» per tutta Grecia. Perché tanto i popoli nella loro prima barbarie intesero leghe, che nemmeno i popoli d’essi re offesi si curavano prender l’armi per vendicargli, come si è osservato del principio della guerra troiana.

644Dalla qual natura di cose umane civili, e non altronde, si può solvere questo maraviglioso problema: come la Spagna, che fu madre di tante che Cicerone acclama fortissime e bellicosíssime nazioni (e Cesare le sperimentò, che ’n tutte l’altre parti del mondo, che tutte vinse, esso combattè per l’imperio: solamente in Ispagna combattè per la sua salvezza); come, diciamo, al fragor di Sagunto (il quale per otto mesi continui fece sudar Annibale, con tutte le fresche intiere forze dell’Affrica, con le quali poi — di quanto scemate e stanche! — poco mancò che, dopo la rotta di Canne, non trionfasse di Roma sopra il di lei medesimo Campidoglio) ed allo strepito di Numanzia (la qual fece tremare la romana gloria, ch’aveva giá di Cartagine trionfato, e pose la mente a partito alla stessa virtú e sapienza di Scipione, trionfatore dell’Affrica), come non uní tutti i suoi popoli in lega per istabilire sulle rive del Tago l’imperio dell’universo, e diede luogo all’infelice elogio che le fa Lucio Floro: che s’accorse delle sue forze dopo esser [p. 311 modifica] stata tutta per parti vinta? (E Tacito nella Vita d’Agricola, avvertendo lo stesso costume negl’inghilesi, a’ tempi di quello ferocissimi ritruovati, riflette con quest’altra ben intesa espressione: «dum singuli pugnant, universi vincuntur»). Perché, non tócchi, se ne stavano come fiere dentro le tane de’ lor confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia e solitaria de’ polifemi. la qual sopra si è dimostrata.

645Però gli storici, tutti desti dal rumore della bellica eroica navale e da quello tutti storditi, non avvertirono alla bellica eroica terrestre, molto meno alla politica eroica, con la qual i greci in tali tempi si dovevano governare. Ma Tucidide, acutissimo e sappientissimo scrittore, ce ne lasciò un grande avviso ove narra che le cittá eroiche furono tutte smurate, come restò Sparta in Grecia e Numanzia, che fu la Sparta di Spagna; e, posta la lor orgogliosa e violenta natura, gli eroi tuttodí si cacciavano di sedia l’un l’altro, come Amulio cacciò Numitore, e Romolo cacciò Amulio e rimise Numitore nel regno d’Alba. Tanto le discendenze delle case reali eroiche di Grecia ed una continuata di quattordici re latini assicurano a’ cronologi la lor ragione de’ tempi! Perché nella barbarie ricorsa, quando ella fu piú cruda in Europa, non si legge cosa piú incostante e piú varia che la fortuna de’ regni, come si avvertí sopra nelle Annotazioni alla Tavola cronologica. E invero Tacito, avvedutissimo, lo ci avvisò in quel primo motto degli Annali: «Urbem Romani principio reges habuere», usando il verbo che significa la piú debole spezie delle tre che della possessione fanno i giureconsulti, che sono «habere», «tenere», «possidere».

646Le cose simili celebrate sotto sí fatti regni ci sono narrate dalla storia poetica con le tante favole le quali contengono contesa di canto (presa la voce «canto» di quel «canere» o «cantare» che significa «predire»), e ’n conseguenza contese eroiche d’intorno agli auspici.

647Cosi Marsia satiro (il quale, «secum ipse discors», è ’l mostro che dice Livio), vinto da Apollo in una contesa di canto, egli vivo è dallo dio scorticato (si veda fierezza di pene eroiche!); Lino, che dee essere carattere de’ plebei (perché certamente [p. 312 modifica] l’altro Lino fu egli poeta eroe, ch’è noverato con Anfione, Orfeo, Museo ed altri), in una simil contesa di canto, è da Apollo ucciso. Ed in entrambe tali favole le contese sono con Apollo, dio della divinitá o sia della scienza della divinazione, ovvero scienza d’auspici; e noi il truovammo sopra esser anco dio della nobiltá, perché la scienza degli auspici, come a tante pruove si è dimostrato, era de’ soli nobili.

648Le sirene, ch’addormentano i passaggieri col canto e dipoi gli scannano; la Sfinge, che propone a’ viandanti gli enimmi, che non sappiendo quelli sciogliere, uccide; Circe, che con gl’incantesimi cangia in porci i compagni d’Ulisse (talché «cantare » fu poi preso per «fare delle stregonerie», com’è quello;

... cantando rumpitur anguis:

onde la magia, che ’n Persia dovett’essere dapprima sapienza in divinitá d’auspici, restò a significare l’arte degli stregoni, ed esse stregonerie restaron dette «incantesimi»): sí fatti passaggieri, viandanti, vagabondi sono gli stranieri delle cittá eroiche ch’abbiam sopra detto, i plebei che contendono con gli eroi per riportarne comunicati gli auspici, e sono in tali mosse vinti e ne sono crudelmente puniti.

649Della stessa fatta, Pane satiro vuol afferrare Siringa, ninfa, com’abbiam sopra detto, valorosa nel canto, e si truova aver abbracciato le canne; e, come Pane di Siringa, cosí Issione, innamorato di Giunone, dea delle nozze solenni, invece di lei abbraccia una nube. Talché significano le canne la leggerezza, la nube la vanitá de’ matrimoni naturali; onde da tal nube si dissero nati i centauri, cioè a dire i plebei, i quali sono i mostri di discordanti nature che dice Livio, i quali a’ Iafiti, mentre celebrano tra loro le nozze, rapiscono loro le spose. Cosí Mida (il quale qui sopra abbiam truovato plebeo) porta nascoste l’orecchie d’asino, e le canne ch’afferra Pane (cioè i matrimoni naturali) le scuoprono; appunto come i patrizi romani appruovano a’ lor plebei ciascun di loro esser mostro, perché essi «agitabant connubio more ferarum». [p. 313 modifica]

650Vulcano (che pur dee essere qui plebeo) si vuol frapporre in una contesa tra Giove e Giunone, e con un calcio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo. Questa dev’esser una contesa ch’avesser fatto i plebei per riportarne dagli eroi comunicati gli auspíci di Giove e i connubi di Giunone, nella qual vinti, ne restarono zoppi, in senso d’«umiliati».

651Cosí Fetonte, della famiglia d’Apollo, e quindi creduto figliuol del Sole, vuol reggere il carro d’oro del padre (il carro dell’oro poetico, del frumento), e divertisce oltre le solite vie che menavano al granaio del padre di sua famiglia (fa la pretensione del dominio de’ campi), ed è precipitato dal cielo.

652Ma sopra tutto cade dal cielo il pomo della Discordia (cioè il pomo ch’abbiamo sopra dimostro significare il dominio de’ terreni, perché la prima discordia nacque per la cagione de’ campi che volevano per sé coltivar i plebei), e Venere (che dev’essere qui plebea) contende con Giunone (de’ connubi) e con Minerva (degl’imperi). Perché, d’intorno al giudizio di Paride, per buona fortuna, Plutarco nel suo Omero avvertisce che que’ due versi verso il fin dell’Ilíade, che ne fan motto, non son d’Omero, ma di mano che venne appresso.

653Atalanta, col gittare le poma d’oro, vince i proci nel corso, appunto com’Ercole lutta con Anteo e, innalzandolo in cielo, il vince, come si è sopra spiegato. Atalanta rillascia a’ plebei prima il dominio bonitario, dappoi il quiritario de’ campi, e si riserba i connubi; appunto come i patrizi romani, con la prima agraria di Servio Tullio e con la seconda della legge delle XII Tavole, serbaron ancor i connubi dentro il lor ordine, in quel capo: «Connubio incommunicata plebi sunto», ch’era primaria conseguenza di quell’altro: «Auspicio incommunicata plebi sunto»; onde, di lá a tre anni, la plebe ne incominciò a far la pretensione e, dopo tre anni di contesa eroica, gli riportò.

654I proci di Penelope invadono la reggia d’Ulisse (per dire il regno degli eroi) e se n’appellano re, se ne divorano le regie sostanze (s’hanno appropiato il dominio de’ campi), pretendono Penelope in moglie (fanno la pretension de’ connubi). In altre [p. 314 modifica] parti Penelope si mantien casta e Ulisse appicca i proci, come tordi, alla rete, di quella spezie con la quale Vulcano eroico trasse Vener e Marte plebei (gli annoda a coltivar i campi da giornalieri d’Achille, come Coriolano i plebei romani, non contenti dell’agraria di Servio Tullio, voleva ridurre a’ giornalieri di Romolo, come sopra si è detto). Quivi ancor Ulisse combattè con Iro, povero, e l’ammazzò (che dev’essere stata contesa agraria, nella qual i plebei si divoravano le sostanze d’Ulisse). In altre parti Penelope si prostituisce a’ proci (communica i connubi alla plebe), e ne nasce Pane, mostro di due discordanti nature, umana e bestiale: ch’è appunto il «secum ipse discors» appresso Livio, qual dicevano i patrizi romani a’ plebei che nascerebbe chiunque fusse provenuto da essi plebei, comunicati lor i connubi de’ nobili, simigliante a Pane, mostro di due discordanti nature, che partorí Penelope prostituita a’ plebei.

655Da Pasife, la qual si giace col toro, nasce il minotauro, mostro di due nature diverse. Che dev’esser un’istoria che dagli eroi cretesi si communicarono i connubi a stranieri che dovettero venir in Creta con la nave la quale fu detta «toro», con cui noi sopra spiegammo che Minosse rapiva garzoni e donzelle dall’Attica, e Giove innanzi aveva rapito Europa.

656A questo genere d’istorie civili è da richiamarsi la favola d’Io. Giove se n’innamora (l’è favorevole con gli auspici); Giunone n’è gelosa (con la gelosia civile, che noi sopra spiegammo, di serbare tra gli eroi le nozze solenni) e la dá a guardare ad Argo con cento occhi (a’ padri argivi, ognuno col suo occhio, col suo luco, con la sua terra colta, come sopra l’interpetrammo); Mercurio (che qui dev’essere carattere de’ plebei mercenari), col suono del piffero, o piuttosto col canto, addormenta Argo (vince i padri argivi in contesa d’auspici, da’ quali si cantavan le sorti nelle nozze solenni), ed Io quivi si cangia in vacca, che si giace col toro col quale s’era giaciuta Pasife, e va errando in Egitto (cioè tra quelli egizi stranieri, co’ quali Danao aveva cacciato gl’Inachidi dal regno d’Argo).

657Ma Ercole, a capo di etá, si effemmina e fila sotto i comandi [p. 315 modifica] di Iole ed Onfale: va ad assoggettire il diritto eroico de’ campi a’ plebei, a petto de’ quali gli eroi si dicevano «viri». Ché tanto a’ latini suona «viri» quanto a’ greci significa «eroi», come Virgilio incomincia l’Eneide, con peso usando tal voce:

Arma virumque cano,

ed Orazio trasporta il primo verso dell’Odissea:

Dic mihi. Musa, virum;

e «viri» restaron a’ romani per significare mariti solenni, maestrali, sacerdoti e giudici, perché, nelle aristocrazie poetiche, e nozze ed imperi e sacerdozi e giudizi erano tutti chiusi dentro gli ordini eroici. E cosí fu accomunato il diritto de’ campi eroico a’ plebei della Grecia, come fu da’ patrizi romani a’ plebei comunicato il diritto quiritario per la seconda agraria, combattuta e riportata con la legge delle XII Tavole, qual si è sopra dimostro. Appunto come, ne’ tempi barbari ritornati, i beni feudali si dicevano «beni della lancia» e i burgensatici si chiamavano «beni del fuso», come si ha nelle leggi inghilesi; onde l’arme reale di Francia (per significare la legge salica, ch’esclude dalla successione di quel regno le donne) è sostenuta da due angioli vestiti di dalmatiche e armati d’aste, e si adorna di questo motto eroico: «Lilia non nent». Talché, come Baldo, per nostra bella ventura, la legge salica chiamò «ius gentium Gallorum», cosí noi la legge delle XII Tavole (per quanto serbava, nel suo rigore, le successioni ab intestato dentro i suoi, gli agnati e finalmente i gentili) possiam chiamare «ius gentium romanorum»; perché appresso si mostrerá quanto sia vero che ne’ primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de’ loro padri, e che poi fusse passata in legge nelle XII Tavole.

658Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del sangue di Nesso centauro — appunto il mostro delle plebi di due discordi nature che dice Livio, — cioè tra’ furori civili communica i [p. 316 modifica] connubi alla plebe e si contamina del sangue plebeo, e ’n tal guisa si muore: qual muore per la legge petelia, detta De nexu, l’Ercole romano, il dio Fidio. Con la qual legge «vinculum fidei victum est», quantunque Livio il rapporti con l’occasione d’un fatto da un diece anni avvenuto dopo, il qual in sostanza è lo stesso che quello il quale aveva dato la cagione alla legge petelia, nel quale si dovette eseguire, non ordinare, ciò ch’è contenuto in tal motto, che dee essere stato di alcuno antico scrittor d’annali, che Livio, con quanta fede con altrettanta ignorazione, rapporta. Perché, col liberarsi i plebei del carcere privato de’ nobili creditori, si costrinsero pur i debitori con le leggi giudiziarie a pagar i debiti; ma fu sciolto il diritto feudale, il diritto del nodo erculeo, nato dentro i primi asili del mondo, col quale Romolo dentro il suo aveva Roma fondato. Perciò è forte congettura che dall’autor degli annali fusse stato scritto «vinculum Fidii», «del dio Fidio», che Varrone dice essere stato l’Ercole de’ romani; il qual motto gli altri, che vennero appresso, non intendendo, per errore credettero scritto «fidei». Il qual diritto natural eroico si è truovato lo stesso tra gli americani, e tuttavia dura nel mondo nostro tra gli abissini nell’Affrica e tra’ moscoviti e tartari nell’Europa e nell’Asia; ma fu praticato con piú mansuetudine tra gli ebrei, appo i quali i debitori non servivano piú che sette anni.

659E, per finirla, cosí Orfeo, finalmente, il fondatore della Grecia, con la sua lira o corda o forza, che significano la stessa cosa che ’l nodo d’Ercole (il nodo della legge petelia), egli è morto ucciso dalle baccanti (dalle plebi infuriate), le quali gliene fecero andar in pezzi la lira (che, a tante pruove fatte sopra, significava la legge): ond’a’ tempi d’Omero giá gli eroi menavano in mogli donne straniere e i bastardi venivano alle successioni reali; lo che dimostra che giá la Grecia aveva incominciato a celebrare la libertá popolare.

660Per tutto ciò hassi a conchiudere che queste contese eroiche fecero il nome all’etá degli eroi; e che in esse molti capi, vinti e premuti, con quelli delle lor fazioni si fussero dati ad andar errando in mare per ritruovar altre terre; e che altri [p. 317 modifica] fussero finalmente ritornati alle loro patrie, come Menelao ed Ulisse; altri si fussero fermati in terre straniere, come Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope (perocché tali contese eroiche eran avvenute da molti secoli innanzi nella Fenicia, nell’Egitto, nella Frigia, siccome in tali luoghi aveva prima incominciato l’umanitá), i quali si fermarono nella Grecia. Come una d’essi dev’essere stata Didone, che, da Fenicia fuggendo la fazione del cognato, dal qual era perseguitata, si fermò in Cartagine, che fu detta «Punica», quasi «Phoenica»; e, di tutt’i troiani, distrutta Troia, Capi si fermò in Capova, Enea approdò nel Lazio, Antenore penetrò in Padova.

661In cotal guisa finí la sapienza de’ poeti teologi, o sia de’ sappienti o politici dell’etá poetica de’ greci, quali furono Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri; i quali, col cantare alle plebi greche la forza degli dèi negli auspíci (ch’erano le lodi che tali poeti dovettero cantar degli dèi, cioè quelle della provvedeva divina, ch’apparteneva lor di cantare), tennero esse plebi in ossequio de’ lor ordini eroici. Appunto come Appio, nipote del decemviro, circa il trecento di Roma, com’altra volta si è detto, cantando a’ plebei romani la forza degli dèi negli auspici, de’ quali i nobili dicevano aver la scienza, gli mantiene nell’ubbidienza de’ nobili. Appunto come Anfione, cantando sulla lira, de’ sassi semoventi innalza le mura di Tebe, che trecento anni innanzi aveva Cadmo fondato, cioè vi conferma lo stato eroico.