La scapigliatura e il 6 febbrajo/XIV

XIV. Rivelazione

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XIII XV


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CAPITOLO QUATTORDICESIMO.



Rivelazione.

Ecco che cosa accadeva intanto in casa di Cristina Firmiani.

Il Dal Poggio, uscito la sera prima dalla camera di Noemi, colle furie della gelosia e dell’orgoglio offeso nel petto, era andato meditando strani progetti per giungere a scoprire fino a che punto sua moglie fosse colpevole. Dopo averne accettati e rifiutati parecchi, uno più assurdo dell’altro, aveva stabilito di ritornare all’indomani da Cristina, la quale nel congedarlo poco prima gli aveva lasciato accortamente travedere la possibilità di aver dalla Gigia informazioni in proposito. Cristina infatti aspettava verso mezzogiorno sì l’uno che l’altra; da quell’incontro, che doveva parere fortuito ad entrambi, ella si aspettava lo scioglimento della trama infernale che aveva con tanta cura or[p. 248 modifica]dita a danno di Noemi; e per trovarsi sola con essi, aveva mandato fuori di casa suo marito Girolamino, con un pretesto.


Quando le fu annunciato il Dal Poggio, finse di ricordarsi allora allora che egli veniva per parlare d’affari con Girolamino, e volgendosi a lui che entrava, colla mano aperta sulla fronte:

— Ah la stordita ch’io sono! — sclamò — Mi sono scordata che tu dovevi tornar oggi per quella faccenda con mio marito, e l’ho mandato fuori di casa. Questa volta sono proprio imperdonabile;... la colpa è tutta mia.

— Non monta; — rispose il Dal Poggio — l’affare non è poi così pressante che non si possa rimetterlo a più tardi.

— Se è così tanto meglio! Temevo d’aver fatto un danno; del resto se hai tempo di aspettar qui un pochino, egli non deve star molto a ritornare.

— Bene, allora lo aspetterò; — rispose volentieri il Dal Poggio, sedendosi accanto alla toeletta dell’attempata elegante.

— E Noemi come sta?

— Sta bene; anzi ti dirò francamente, giacchè sono qui, che ho bisogno di continuare il discorso di ieri, giacchè sarebbe inutile dissimularti che è per me d’una certa importanza. Ieri sera io ho parlato a Noemi, e sfortunatamente ho dovuto convincermi che i miei sospetti non sono infondati! Eh già tu ridi, come il solito, ma io son d’avviso che non ci sia nulla da ridere. [p. 249 modifica]

— Scusami; non rido nè di te, nè di lei... Mi pare soltanto che tu voglia dare alle cose maggior importanza di quello che meritano realmente...

— Lasciami continuare. Siccome ella è incapace di mentire, così non volle rispondere categoricamente alle mie domande, e mi lasciò come puoi immaginarti, molto inquieto. Allora io credetti di mio dovere il proporle un mezzo assai giovevole alla sua guarigione morale, e le suggerii di sospendere per qualche tempo le sue visite in casa tua. Ho voluto perciò venire ad avvisartene, perchè tu, non dubito, come parente, e come donna di una certa esperienza, vorrai approvare la nostra risoluzione.

— So bene che tu mi burli, caro Emanuele! — sclamò Cristina un po’ piccata della certa esperienza — Come parente, forse, potrei trovare molto prudente questa risoluzione, ma come donna è un po’ difficile. Sarebbe bella, — soggiunse ridendo — che una donna trovasse giusta e lodevole la tirannia di un marito!

— Non si tratta di tirannia; — rispose il Dal Poggio un po’ sconcertato — Ma già tu scherzi e non c’è modo di ragionare...

— Ebbene, scherzi a parte; lodo se vuoi la tua franchezza nel dirmi sul viso che trovi pericolosa per Noemi la mia casa; ma capirai che sarebbe strano che io l’applaudissi anche.

— Non pretendo che tu l’applaudisca; mi basta che tu la trovi giusta e necessaria.

— Non so... potrà essere... ma io non la trovo neppur necessaria. [p. 250 modifica]

— Ma insomma, è vero o non è vero che il pericolo di cui parliamo esiste per Noemi in casa tua?

— Caro Emanuele, io non capisco in verità... Il male c’è o non c’è? Se c’è, in casa mia o non in casa mia, fa lo stesso; se non c’è... la cosa è inutile. E ti dirò anzi che io, come donna di esperienza, temerei, che... se Noemi non fosse la brava donna che conosciamo... temerei, dico, che questo ostacolo l’avesse ad invogliare ad affrontare il pericolo... altrove;... non so... fuori di casa...

L’infame insinuazione non portò il colpo desiderato...

— Oh questo poi! — sclamò il Dal Poggio come uomo troppo sicuro di sua moglie — Questo poi, no!

— In istrada per esempio; — continuò Cristina — all’uscir di chiesa... al passeggio... che so io! Fortunatamente, ripeto, tua moglie è troppo ragionevole... è troppo virtuosa per lasciarsi andare a certe tentazioni... e del resto il giovine che potrebbe darti un po’ di ombra è troppo impegnato con un’altra donna per pensare a lei.

— Vuoi dire quella crestaia di cui mi parlasti ieri? — chiese il Dal Poggio un po’ ingenuamente.

— Sì, quella che doveva venire ieri a portarmi un cappello, e che aspetto oggi fra poco.

Allora, per dar sempre più colore alla cosa, cominciò a parlar di tutt’altro, come se fosse stanca di star su un argomento che avesse per lei poco interesse.

Il Dal Poggio, preoccupato invece, rispondeva [p. 251 modifica]secco, svogliato, a frasi tronche. Cristina, senza mostrare di andarsene, continuava con una vivacità ed una parlantina, che avrebbero fatto onore a qualunque deputato, finchè il servo, aperto l’uscio, annunciò la modista.

— Dille di entrare; — rispose la Firmiani; e voltasi al Dal Poggio ridendo — Vedrai che bella ragazza è la rivale di tua moglie...

— Cristina!

— Oh sta a vedere che non si possa proprio dir una sola parola in ischerzo con te!... Adesso poi, Emanuele, mi scuserai se le gravi cure della mia acconciatura mi chiamano a tutt’altro ordine d’idee.

La Gigia entrò.

Si vedeva ch’ella aveva pianto di recente; i suoi occhi erano gonfi e rossi di lagrime; le occhiaie profonde; la guancia più pallida del consueto. Un grande accoramento le stava dipinto ne’ tratti. Salutò Cristina con un mestissimo riverisco e fe’ un cenno di capo al Dal Poggio che la stava osservando con molta curiosità.

Il cappello che essa recava alla Firmiani fu provato, riprovato ed approvato. Cristina fece molti elogi lusinghieri al buon gusto della Gigia, poi mentre questa si disponeva ad andarsene:

— Dunque fanciulla, — le disse facendo l’occhiolino d’intelligenza al Dal Poggio — questo tuo Emilio Digliani ti vuol bene o non ti vuol bene?

All’udirsi ripetere quel nome, la Gigia fu scossa come da una scarica elettrica e il pianto le ricorse negli occhi. [p. 252 modifica]

— Mio? — sclamò dolorosamente abbassando la testa sul seno — Non è più mio.

— Eh via! — sclamò Cristina facendo atto di meraviglia — Ma che hai tu, povera ragazza? tu piangi.

La Gigia non rispondeva, e le lagrime le gocciavano grosse dagli occhi sul tappeto del pavimento.

— T’avrebbe egli lasciata? È forse partito da Milano?

— No;... mi tradisce;... ne ha un’altra.

— Oh non sarà poi vero!... mi rincresce povera fanciulla... ma non sarà vero;... consòlati.

— So tutto... Ho veduto io stessa pocanzi, con questi occhi;... ora non potrà più negarmelo... Era lei.

— Che cos’hai veduto? — chiese la Firmiani gettandole quella domanda colla solita noncuranza, mentre fingeva d’essere intenta a ravviarsi i bandeaux dinanzi allo specchio.

— Ho veduto la signora che è adesso la sua amante; — rispose la Gigia — l’ho veduta entrare in casa sua... Ora non ho più dubbio.

Cristina guardò in viso al Dal Poggio e stette muta come donna che teme di proseguire un discorso pericoloso.

Il Dal Poggio divorava la Gigia collo sguardo; era pallido; ma non mostrava altra emozione.

— Chi sarà mai questa signora? — chiese egli, con voce insinuante, alla fanciulla. [p. 253 modifica]

La Gigia non rispose.

— Basta! — disse Cristina andando verso di lei, mostrando al Dal Poggio di voler scongiurare la tempesta col troncar quel dialogo. — Dirai dunque alla madame che il cappello mi piace, e che domani passerò di là per una acconciatura da festa da ballo.

Il Dal Poggio intanto si era levato, e s’era accostato a loro.

— Io conosco, — diss’egli alla Gigia — un mezzo facilissimo e potente per riacquistare l’amore d’un amante che comincia a diventar infedele.

La fanciulla levò gli occhi in viso a quell’uomo che le faceva balenar dinanzi una sì bella speranza e lo interrogò collo sguardo senza dir parola.

— Va, ragazza mia, non dargli ascolto; — sclamò la Firmiani, sicura ormai del fatto suo.

La Gigia la salutò, e uscì dalla camera.

— Resta, Emanuele... ascolta; — disse la Firmiani fingendo di tentare un ultimo sforzo per distoglierlo dal seguire la modista. Ma il Dal Poggio salutatala con un cenno di mano, si avviò frettoloso a raggiungere la Gigia.

Quando fu sulla scala le si portò al fianco e le disse con voce ferma:

— Dunque vuol ella che io m’interessi a farle riavere il suo Emilio?

La Gigia si arrestò con un piede su un gradino e l’altro su quel di sotto, e guardò il Dal Poggio con un po’ di diffidenza. [p. 254 modifica]

— Ella vuol scherzare, — disse — non ho tempo nè voglia di scherzare.

— Le pare che io scherzi?... Io le giuro che ne ho il mezzo.

— Perchè si prende questo interesse per me?

— Perchè mi dispiace di vederla addolorata, e ripeto, io ho il mezzo di far ciò che ella desidera, mentre forse altri non l’hanno.

— E qual è questo mezzo? — chiese finalmente la Gigia, persuasa dall’accento di profonda serietà con cui il Dal Poggio le parlava.

— Conosce lei, — chiese Emanuele — il marito della signora che è l’amante di Emilio, da lei veduta poco fa entrare in casa sua?

— Io no.

— Neppure di nome?

— Di nome sì:... è un certo signor Dal Poggio, — rispose la Gigia presa al laccio.

Lo sventurato protese le mani, e si attaccò alla sbarra della scala per non cadere.

Seguì un momento di silenzio.

— Ebbene io lo conosco; — disse facendo uno sforzo sovrumano per parlare senza tradirsi — Se volete gli parlerò io stesso.

— È questo il mezzo ch’ella mi offre?

— Sì.

— Allora la ringrazio. Se volessi potrei conoscerlo e parlargli anch’io. Non voglio nessuno per forza io. La riverisco.

Così detto si volse, seguitò a scendere i gradini della scala e se ne andò. [p. 255 modifica]

Frettolosa, col velo abbassato sugli occhi, la Dal Poggio era corsa a casa per contrade poco frequentate, e vi era giunta nel tempo che suo marito riceveva dalla Gigia la rivelazione del proprio disonore.

— È tornato a casa? — chiese ella alla cameriera, entrando nel suo gabinetto.

— No signora, non ancora.

— E il nonno?

— È uscito poco fa dal suo appartamento e sta in sala a leggere.

— Ha chiesto di me?

— Sì signora.

— Che cosa gli hai detto?

— Che la era uscita un momento per fare una piccola spesa.

— Ed egli?

— Non aggiunse nulla.

Noemi dopo aver deposto nella camera da letto il cappello e il soprabito, stava per avviarsi verso la sala a far la solita lettura di prima di pranzo al buon vecchio che la aspettava;... ma ristette, e provò il bisogno di raccogliere un po’ le proprie idee e di prepararsi l’animo prima di presentarsi a lui, che avrebbe potuto farle a bruciapelo una funesta domanda.

Si sedette dinanzi al camino nel suo gabinetto, posò il mento sulla palma, e si mise a meditare alla propria situazione.

Era detto che Noemi dovesse soffrir più dell’a[p. 256 modifica]more di Emilio, che delle sue freddezze. Finchè si era trattato di nascondere le lagrime e la tristezza, le era parso facile cosa; ma ora che si sentiva riamata da lui, ora che avrebbe potuto essere la più felice delle donne, e si vedeva sorgere dinanzi un nuovo e terribile ostacolo nella gelosia di suo marito, provava nell’anima certe fosche tentazioni, che le facevano ribrezzo, e che si sviluppavano, per così dire, dal suo cuore tormentato, come gli acri vapori si elevano dalla velenosa miscela d’un alchimista.

Ormai, pensando a suo marito, la sventurata non sentiva più che ripugnanza e spavento. Queste due sensazioni le si erano accresciute nella misura opposta all’amore che ella portava al suo passionato amante. L’idea che fra poco avrebbe dovuto rivedere quell’uomo grave, orgoglioso, pedante; riudir quella sua voce monotona; ascoltar le sue massime, la sua politica; incontrar il suo sguardo severo e scrutatore... le metteva i brividi, le faceva perdere la testa. Allora tutti i peggiori istinti di quell’anima buona e schietta pareva si dessero la mano per perderla; e le parole di fuga susurratele poco prima all’orecchio da Emilio, le ripicchiavano la memoria con una insistenza fatale. La fantasia, ancora tutta impressionata dalle sue carezze, le porgeva il lato bello e facile di quei progetti, e la ragione istessa trascinata dalla passione le mostrava giusto, e quasi necessario ciò che poco tempo prima le sarebbe parso un delitto, un obbrobrio. [p. 257 modifica]

La logica della passione è tremenda. Non si può imaginare che spaventevole viaggio può fare in una testa appassionata un’idea, che cerca un esito, e rovescia gli ostacoli, e frange tutto ciò che le si presenta dinanzi. Insensibilmente essa può condurre a considerare con indifferenza, o a desiderare delle cose che a mente fredda farebbero ribrezzo a qualunque coscienza meno timorata.

Ma poi, come ribalzando indietro con ispavento dalle ultime conseguenze della sua fantasticheria, ritornava per poco sui propri doveri, sul pensiero della propria riputazione, al dolore del suo buon nonno che l’amava tanto, a tutte infine le caste e tranquille idee della famiglia e della casa... Povera donna! Era un lampo in notte buia, che rischiara un momento la scena e sparisce. L’amore di Emilio la possedeva intera; la sua anima non era piena che di lui, della sua immagine, del suono della sua voce, delle sue espressioni inebbrianti, e l’avvenire le si presentava nuovamente dinanzi come un inesplicabile problema.

L’avvenire? Che sarà di lei? Essere staccata da Emilio? Impossibile! Meglio morire! Ma quando lo vedrà ancora? Dove? In che modo?... E suo marito?

Le minacciose parole della sera prima le arrestavano il sangue nelle vene.

— Farà seguire i miei passi... se pure non li ha già spiati oggi stesso... Quasi lo desidero. Almeno andrei fuori da questo tormento. Ma e il nonno? Oh! mio Dio, dammi tu aiuto e consiglio. [p. 258 modifica]

Allora ripigliava forza l’idea di staccarsi da Emilio e di sagrificarsi. Ma non l’aveva formata del tutto che la rigettava lungi da sè come impossibile... Avanti dunque, povera mente, a cercar un mezzo di salvezza e di calma. Come cavallo sfrenato che galoppa galoppa attraverso campi e foreste per la notte buia nelle leggende di Germania, la fantasia della sventurata correva, inseguita dai cento fantasmi che non dovevano più lasciarle nè tregua nè pace.


Quando Dio permise ella si ricordò che il nonno aveva chiesto poco prima di lei, e si levò per andar nella sala a tenergli compagnia. Si guardò nello specchio; ravviò colle palme i capelli un po’ incomposti e che portavano ancora qua e là qualche traccia delle carezze di Emilio, e si volgeva per avviarsi... quando l’uscio del gabinetto si aperse ventilando, ed ella vide entrar suo marito... e dovette retrocedere un passo e appoggiarsi al bracciuolo della sedia per non cadere di spavento.

— Fermatevi; — aveva detto il Dal Poggio con voce sorda, lanciandole uno sguardo di inenarrabile disprezzo. I suoi occhi avevano dei bagliori d’una luce così sinistra e feroce, che la sventurata donna, non potendo reggerne la vista, dovette chinar a terra i suoi.

— Sedetevi in quella scranna; — riprese il marito incrociando, come usava, le braccia sul petto...

— Avete capito? — replicò fra i denti vedendo che Noemi non si moveva. [p. 259 modifica]

Ella si lasciò cadere nella sua sedia, più pallida d’un morto, e così stettero un momento, in uno spaventoso silenzio.

— Jeri sera, — ripigliò il marito — uscendo di qua, vi ho detto che sapevo che cosa mi restasse a fare per iscoprire ciò che vi chiedevo e a cui voi avete risposto con uno scoppio di riso... Non fa bisogno di dirvi che non mi abbisognarono molte ricerche per persuadermi che voi siete... la più impudente e la più infame...

S’arrestò. La vilissima parola che stava per pronunciare e che ognuno avrebbe indovinato dall’indicibile disprezzo ond’era atteggiata la fisonomia di quell’uomo, non fu pronunciata che mentalmente.

Noemi sentì l’atroce insulto e alzati vivamente gli occhi in viso a suo marito, disse con fierezza:

— Emanuele!

Il Dal Poggio, in apparenza calmo, pareva stesse aspettando quella parola.

— È vero; — continuò con crescente disprezzo — voi non siete ormai neppur degna dei miei insulti; vi assicuro, se non si trattasse che della vostra persona, poco o nulla mi importerebbe, perchè ormai io non so nemmeno più che voi esistiate;... ma siccome le leggi non mi permettono di uccidervi, come meritereste, e siccome voi portate sempre il mio nome, così è bene che sappiate che un Emanuele Dal Poggio non può permettere che una donna che porta il suo nome sia una donna perduta. Questa è la sola ragione che mi obbliga a volgervi ancora la [p. 260 modifica]parola, e che mi trattiene perfino dallo sconciarvi il viso colle mie mani...

A questo nuovo e strano insulto Noemi si sentì ritornare nell’animo tutto il suo coraggio e la sua avversione. Si alzò indegnata e fremente, come avrebbe potuto fare una donna incolpevole, e invece di cercare di scolparsi o di placare quel terribile sdegno, fe’ cenno di ritirarsi.

— V’ho detto di star seduta; — disse il marito snodando le braccia dal petto, senz’alzar la voce, e facendo un gesto a cui era impossibile di non ubbidire — Ah credete forse d’impormi, — continuò egli, cogli occhi sempre socchiusi e con un sorriso di fredda e feroce ironia — credete forse d’impormi con quelle vostre arie da regina oltraggiata?

— Emanuele! — balbettò Noemi, perduta nel suo dolore e nella sua confusione.

— Farete i vostri bauli, — continuò il marito — e starete pronta a partire fra poco da Milano con me. Non fatevelo dire due volte.

Noemi era come istupidita; le sue pupille si dilatavano spaventosamente, e le sue belle labbra secche e pallide fremevano come per febbre.

— M’avete compreso? Rispondete.

— Ebbene; — diss’ella freddamente, col coraggio che dà la disperazione — io non partirò. Uccidetemi piuttosto... ma io non voglio partire.

Il Dal Poggio strinse i pugni e mandò un ah! come ruggito di pantera, che sta per slanciarsi sul cacciatore che l’ha ferita. Ma si trattenne, e continuò coll’ironia di prima: [p. 261 modifica]

— V’ho detto di tenervi per voi le vostre frasi da romanzo, miserabile donna. Io non sono un personaggio da romanzo, io! Se volessi esser tale potrei, come usano certi stolidi mariti del giorno d’oggi, potrei uccidere o farmi uccidere dal vostro signor Digliani che avete veduto poc’anzi. Ma siccome vi ripeto che io tengo sopratutto a salvar le apparenze, così non penso neppure a castigarvi come meritereste. E badate di non obbligarmi a usar la violenza. La carrozza di posta sarà nella corte domani. Sappiatevi regolare.

Così detto uscì dalla camera.


Appena ebbe volte le spalle a sua moglie, con cui si era sforzato di non mostrare che disprezzo e abbonimento, il Dal Poggio si sentì avvampare nell’anima tale un furore contro la colpevole donna, che si pentì amaramente d’essere stato così calmo. Tanto più che il di lei rifiuto di partir da Milano, al quale poco prima non s’era degnato di dare importanza, gli risuonava nell’orecchio come una ribellione, come una minaccia, e gli inviperiva nel petto lo sdegno e la gelosia.

La qual passione, più che ogni altra, si modifica nelle sue manifestazioni a seconda del carattere di chi la risente; ond’è ch’essa può apparire la più nobile come la più abbietta delle tempeste dell’anima. Nel soffio infuocato di gelosia, che passa sul cuore di un generoso e fervido amante, c’è sempre qualche cosa di bello e di grande. Le furie di [p. 262 modifica]Otello sono sublimi. Ma per certe anime, invece, impastate soltanto di egoismo e di orgoglio, la gelosia non produrrà che odio e desiderio di vendetta, che sono le più vili fra le umane passioni.

Mentre s’avviava lentamente con questo inferno nel petto verso la sala della conversazione — dove sapeva di trovare il nonno, a cui contava far parte della sua sventura — passando dal salotto da pranzo, vide che si stava preparando la tavola per parecchi invitati. Ne chiese a un servo, che gli rispose aver ricevuto ordine dal signor conte di apparecchiare per sette, invece che per tre, e di non saperne di più. Allora, non senza provare una viva gioia di aver trovato un pretesto per ritornare dinanzi a quella donna, per cui provava un senso inesplicabile di attrazione e di ripulsione, ritornò sopra i suoi passi.

Lo sventurato — come un fantoccio a cui i fili nelle mani del burattinaio fanno muovere le braccia e le gambe — obbediva, senza saperne nè il perchè nè il come, alle voci contraddittorie delle diverse passioni che gli straziavano l’anima.


Dico il vero — se le dimensioni del mio racconto non mi vietassero di dilungarmi troppo nello studio di questi particolari — sarebbe prezzo dell’opera lo scrutare a fondo questo cuore di marito moderno, vero tipo di certi uomini arcigni e innamorati di sè stessi, superbi e deboli a un tempo, che appartengono esclusivamente alla nostra epoca, [p. 263 modifica]come il telegrafo elettrico e i romanzi illustrati a 50 centesimi.

Ma quando ebbe aperto l’uscio, e si fu trovato dinanzi ancora a quella donna che avrebbe ucciso volentieri colle proprie mani, se la legge non glielo avesse vietato, egli si sentì nuovamente calare le braccia. Un sentimento più forte dello sdegno e dell’odio vegliava a salvar Noemi da’ suoi colpi... la paura dello scandalo e del ridicolo che ne sarebbe derivato. Fermatosi perciò sulla soglia dell’uscio e ripigliato il tuono acerbo e sprezzante di poco prima, le rivolse la parola colla precipitazione di chi non vuol lasciare supporre d’esser tornato con delle idee meno ostili:

— Vi avverto, signora, che, siccome c’è della gente a pranzo, così dovete far mostra di essere ammalata; perchè non voglio che alcuno vi parli o vi veda. Anzi farete molto bene a mettervi a letto e a starci fino al momento della partenza. Ricordatevi inoltre che il medico deve avervi detto che vi gioverebbe di mutar aria e di viaggiare, nel caso che il nonno volesse assolutamente vedervi... Avete capito?

Noemi col capo appoggiato su una palma, non aveva dato segno di vita se togli un leggerissimo volger d’occhi all’aprirsi dell’uscio.

Era calma nel suo dolore come persona preparata a sopportare qualunque oltraggio.

— Ricordatevi bene, — continuò il Dal Poggio — se non volete poi che io vi faccia scontare ama[p. 264 modifica]ramente il vostro... obbrobrio, come ne avrei tutto il diritto, che io voglio che nessuno abbia ad accorgersi di nulla... cominciando dalla vostra cameriera che lasceremo a Milano... Vi ripeto dunque che esigo che vi mettiate a letto, e che diate ordine voi stessa di non lasciar entrare qua dentro anima viva fino a mio avviso... E guai a voi se pensaste di disobbedirmi... signora... E cominciate a starvene in posizione meno tragica... e ad asciugarvi quelle lagrime di cocodrillo... Avete capito?

Noemi non si mosse, nè fe’ cenno di voler rispondere.

— Avete capito? — ripetè il Dal Poggio digrignando i denti, movendo due passi verso di lei, coi pugni serrati e gli occhi fuori dell’orbita — Volete voi parlare una volta?

— Vedete bene, signore, che io non parlerò; — rispose Noemi — Agli insulti io non posso nè debbo rispondere.

— Vilissima creatura!... Voi sapreste ben trovare qualche parola per difendervi, per giustificarvi, se non foste la più infame delle donne...

— Vi faccio osservare, signore, che tali parole me le avete già dette poc’anzi, e che ora voi non fate che ripetervi...

Questa risposta, in apparenza così semplice, fu pel misero marito il colpo di grazia. Ne fu come atterrato. Da due giorni quell’uomo passava di sorpresa in sorpresa; ei cominciava allora a conoscere [p. 265 modifica]sè stesso e sua moglie... Quella benedetta paura del ridicolo lo riafferrò alla gola, e non gli lasciò trovar un appiglio per continuare il malaugurato dialogo. Allora, accontentandosi di lanciare un ultimo, e più sanguinoso, e più infame improperio all’addolorata, si volse indietro, ed uscì più sdegnato con sè stesso e più confuso di prima.

E qui — dirò col maestro — non posso lasciare di fermarmi un momento a fare una riflessione; ed è: che il così detto spirito non vale soltanto a tener lieta, a render brillante una società, e a suggerire della barzellette e dei calembourgs... ma può giovare assai anche nelle critiche circostanze della vita. Il pover’uomo — che si vantava di non averne e di non volerne avere, come cosa frivola e inutile — era stato scombussolato due volte dalle risposte di sua moglie.

Uscito di là, dovette chiudere tosto le furie in petto e ricomporre la faccia alla solita gravità. Bisognava farsi vedere dagli invitati e in maniera da non destar neppure la più piccola congettura. Fe’ il suo piano in fretta; spianò la fronte, ed entrò nella sala di ricevimento.


I convitati del nonno, raccolti in circolo dinanzi al camino, erano dei soliti dei giorni festivi. Il buon vecchio li aveva raccolti per via, coll’idea di dar un po’ di svago alla sua Noemi. Erano un consigliere di governo giubilato, volpe sopraffina; un antico cavalier servente della defunta contessa Ar[p. 266 modifica]manda; un avvocato giovine, che trattava dinanzi ai tribunali una lite del conte; e una zitellona, parente della madre di Noemi, caduta in basso stato, che veniva di quando in quando a chiedere da pranzo al Firmiani.

La conversazione era sulle rimembranze di amore. L’amore è il discorso prediletto della prima e dell’ultima età. Il vecchio cavaliere servente raccontava al nonagenario conte un’avventura del secolo scorso, nella quale si sentiva un profumo di cipria di nèi e di galanteria, di cui noi abbiamo perduto totalmente il segreto. Il Firmiani stava ascoltando la storiella con un certo risolino di approvazione, che diceva un’infinità di cose. In quel risolino sfumato si scorgeva chiaramente che il vegliardo si ricordava d’essere stato a’ suoi tempi un famoso libertino... Forse, una corda quieta da un pezzo nel suo cuore, era rivibrata repente; forse, in quella testa freddata dagli anni e dall’esperienza, era frizzata in quel punto una rimembranza perduta dei tempi spensierati e brillanti dell’arciduca Ferdinando o della repubblica Cisalpina!


— Dov’è Noemi? — chiese egli, quando furono cessati i convenevoli che avevano interrotto il racconto dell’ex-cavalier servente.

— Vengo appunto da lei; — rispose Emanuele — Ella si trova indisposta e non può venir a pranzo.

Un oh! di rammarico unanime seguì quella notizia. E non fu una mentita sembianza di afflizione [p. 267 modifica]quell’oh! dei convitati, giacchè Noemi era tanto bella che la sola sua vista rallegrava ogni cuore.

— Spero bene, Emanuele, che non vorrà essere cosa grave; — sclamò il conte con un po’ di turbamento, frugando in viso al Dal Poggio.

— Non è cosa grave, — rispose questi — ma desidera però di essere lasciata tranquilla. È la sua solita emicrania nervosa;... e mi ha pregato vivamente di far le sue scuse a lor signori...

Un secondo oh! non meno sincero del primo, troncò quelle scuse. La zitellona avrebbe voluto andar subito a trovarla;... ma ne fu dissuasa da Emanuele, che le ripetè come Noemi bramasse di essere lasciata tranquilla.

— Poverina! — osservò il consigliere — È già da qualche tempo, mi pare, che ella non si sente così bene come pel passato.

Il Dal Poggio corrugò la fronte e rispose subito:

— Tutt’altro, caro il mio consigliere...! È sempre stata egregiamente.

Ma tosto, coll’idea che il lasciar credere a una lontana minaccia di malattia gli avrebbe giovato per l’altro fine, quasi ravvisandosi, continuò:

— È però vero che il medico qualche tempo fa le disse che non le farebbe male a tentare qualche cosa di insolito, acciocchè questa benedetta emicrania non torni troppo spesso a tormentarla.

— L’ha già veduta il medico? — chiese il nonno.

— Oggi no: ma l’ultima volta le suggerì di far del moto, di provare a mutar aria... e tra le altre [p. 268 modifica]cose le consigliò di andar a Parigi a passare gli ultimi giorni di carnevale... Dico la verità non sarei lontano dal provare.

Su questo il conte si volse di nuovo all’antico cavalier servente, invitandolo a ripigliare la galante storiella... e di Noemi non se ne parlò più che per incidenza.

Nella conversazione che seguì, il Dal Poggio fu sublime di dissimulazione. A tavola si sforzò di mangiare come il solito, e ci riuscì; e dopo pranzo all’ora consueta, lasciando l’avvocato in stretto colloquio legale col nonno, se ne andò al club a spargere la notizia che sua moglie gli aveva dimostrato vivissimo desiderio di vedere gli ultimi giorni del carnevale di Parigi, e che egli aveva dovuto far il sagrificio di prometterle che ve l’avrebbe condotta.


Quella notte il Dal Poggio non potè chiuder occhio un solo istante. Buon per lui che aveva a pensare alle faccende da sbrigare il dì vegnente prima di lasciar Milano.

Levatosi di buon mattino, dopo aver annunciato alla servitù la sua partenza pel giorno dopo, e di aver date le disposizioni necessarie, uscì per metter ordine a certe sue pendenze col ragioniere, coll’agente di cambio, coll’avvocato, e poco dopo il mezzogiorno, rientrato in casa, andò difilato nell’appartamento del nonno per comunicargli la presa risoluzione.

Il conte nonno da poco tempo alzato dal letto, [p. 269 modifica]aveva appena terminato di farsi radere la barba dal suo fido cameriere, che gli aveva raccontato appunto come il signor Emanuele avesse dato ordine di far le valigie, per mettersi in viaggio colla signora.

Il buon vecchio che credeva d’aver diritto di saperne qualche cosa, e non ne sapeva nulla, diede del pazzo al suo cameriere; ma, insistendo costui, stava per andar da Noemi a sentire che cosa fosse questa novità, quando vide entrar il nipote, che tra per la veglia della notte, tra per non aver più bisogno di nascondere l’angoscia che l’opprimeva, era sbattuto in viso come ognuno si può imaginare.

— Va pure, — disse il conte al suo Figaro; e sedutosi nel seggiolone, disse al Dal Poggio:

— Che cosa diamine mi diceva quello là, che voi state facendo dei preparativi di partenza?

— Non avete ancora veduto mia moglie? — chiese il nipote invece di rispondere.

— No; stavo per andar da lei quando tu sei entrato. Jeri sera non ho voluto destarla. Stamattina ho mandato Luigi a chiedere di sue nuove, e la cameriera gli rispose che si sentiva bene, come il solito, e che stava per alzarsi... Ora poi sento che tu hai dato gli ordini per partire domani... Naturalmente ho detto fra me che doveva essere una malintelligenza... a meno che...

— Sono venuto appunto per parlarvi di ciò; — disse il Dal Poggio, lasciandosi andare su una sedia rimpetto al nonno. [p. 270 modifica]

Se questi avesse potuto veder in volto suo nipote non avrebbe avuto bisogno di udirne la voce per accorgersi che gli era accaduto qualche cosa di grosso. Ma siccome il Dal Poggio, entrando, si era avanzato verso di lui a ridosso della finestra, e aveva la figura in ombra, così il vecchio non s’accorse della di lui emozione se non dopo averlo udito parlare in doloroso accento.

— Che cos’è accaduto, Emanuele? — chiese egli con interesse vivissimo.

— Debbo confidarvi una grande sciagura di famiglia e una mia risoluzione; — rispose questi — L’onor mio esige assolutamente che io conduca via da Milano... lei... il più presto possibile...

— Lei! Il tuo onore!... Ma si potrebbe saper chiaramente che cosa significa ciò?

— Significa una cosa che voi siete ben lontano dal sospettare e che io stesso... vedete, che ormai ne ho in mano pur troppo le prove, non arrivo ancora a persuadermi che sia vera.

— E che riguarda Noemi? — richiese il vecchio sentendosi venir le fiamme al viso, e puntando le due mani sui bracciuoli del seggiolone come se volesse balzar in piedi.

Il Dal Poggio fe’ cenno di sì con un movimento di capo continuo che pareva dire: Pur troppo!

Stettero un momento in silenzio.

Il nonno aveva capito tutto.

— Parla, Emanuele; — diss’egli — Ho diritto di sapere ogni cosa;... non nascondermi nulla... [p. 271 modifica]

— Che volete che io vi dica? Non vogliate farmi ripetere una cosa che mi abbrucia le labbra solo al pensarvi... Vostra nipote è una donna senza cuore, senza principii... Una donna perduta.

— Emanuele! — gridò il vecchio quasi fuori di sè — Possibile che io debba ascoltar da te queste parole di Noemi?... di mia figlia?

— Voi sapete che io non so fare dei giri di parole. Avrei desiderato non parlarvi di ciò, e tenervi nascosta questa mia sciagura;... ma non sapevo in qual modo avrei potuto farvi persuaso che è indispensabile ch’io parta da Milano in questa stagione.

Il nonno, col gomito appoggiato sul ginocchio e il mento nella destra, stava meditando con muto dolore.

— E averlo preveduto! — sclamò poi — Ma forse non si era già più in tempo... Povera Noemi!

— Non è lei che dovete compiangere, caro nonno; -: disse il Dal Poggio levandosi con dispetto e mettendosi a passeggiare per la stanza — no, non è lei, che ci ha ingannati ambedue ignominiosamente, vituperevolmente...

— Là, là;... — sclamò il vecchio facendo cenno colla mano al nipote di calmarsi — Oggi sono io che ti prego di non dire delle frasi inutili. Ormai, ciò che è, è; gli omèi sono superflui. È dunque meglio che pensiamo al modo migliore di guarirla... E prima di tutto ti prego di raccontarmi chiaramente le cose come stanno, giacchè le tue parole vaghe e senza conclusione potrebbero lasciarmi credere più di quello che è realmente. [p. 272 modifica]

Allora il Dal Poggio si mise a raccontargli in pochi tratti la dolorosa istoria: le due visite a Cristina, la rivelazione della Gigia, e sopratutto la tacita confessione di Noemi.

Quel dialogo continuò così un’ora buona. Io però ne farò grazia ai lettori per due grandi ragioni: la prima è che in esso furono ripetute le idee già espresse e accennate indietro, la qual cosa lo renderebbe necessariamente un po’ monotono; la seconda è che ormai la storia ha bisogno d’esser condotta al suo fine con assai rapido corso.

Il fatto è che, dopo aver discusso a lungo, quei due uomini trovarono di essere precisamente ai due poli contrarii; capirono di non poter intendersi su nessun punto, neppur discutendo un altro paio d’ore.

Il nonno, vero uomo di mondo, antico libertino, ed intinto di quella specie di scetticismo e di indulgenza amorosa, che caratterizza gli uomini del secolo scorso, non voleva dare all’errore di Noemi quel peso e quell’importanza che gli attribuiva l’offeso marito.

Così di parola in parola il dialogo s’era mutato in vero diverbio, e il buon vecchio senz’accorgersi aveva prese le parti di Noemi, con quanto sdegno dell’altro, il lettore se lo può figurare. Non la difendeva per ciò che avesse fatto; ma del di lei errore gettava la maggior colpa addosso al marito, che sbuffava di rabbia compressa.

La conclusione del nonno fu poi che il partire [p. 273 modifica]da Milano era il rimedio più inutile del mondo, quando non fosse dannoso. Il solo vero rimedio, secondo lui, stava nel cuore istesso di Noemi, stava nella persuasione e nell’amore...

Alle quali idee il Dal Poggio si permise di alzar le spalle con disprezzo.

— Era inutile che tu venissi a consultarmi se poi assolutamente vuoi fare come ti sembra; — osservò il conte alzandosi.

— Io non sono venuto menomamente a consultarvi; — disse il Dal Poggio — ma ad avvisarvi di quello che contavo di fare.

Il nonno crollò il capo, e s’incamminò fuori della stanza.

— Spero almeno, — diss’egli con un po’ di ironia, figura rettorica sconosciuta al Dal Poggio — spero almeno che mi permetterai di parlarle prima di lasciarmi qui solo a Milano come un uomo di paglia...

E a passi lesti per la sua età si avviò verso l’appartamento di Noemi seguito dal nipote.

— Vi prego, nonno, di non dirle cosa che la confermi nella sua idea di non voler partire da Milano, perchè io ho fermamente stabilito di condurla via, e non voglio essere obbligato di usare la forza, cosa che comprometterebbe.

Il nonno strinse le labbra, e tacque perchè qualche orecchio indiscreto non cogliesse lungo la strada il senso del loro dialogo.

Arrivato dinanzi all’uscio della camera di Noemi [p. 274 modifica]battè sull’imposta un piccolo colpo colla nocca dell’indice e tese l’orecchio; ma non gli fu risposto. Allora apri l’uscio ed entrò. Il Dal Poggio dietro di lui.

Girati gli occhi intorno s’avvidero che la camera era deserta. Il marito andò verso l’alcova, rimosse i cortinaggi, guardò nel letto; era vuoto... Un’idea funesta gli traversò la mente. Si slanciò verso l’uscio che metteva nel di lei gabinetto di toeletta, vi mise dentro il capo e lo ritrasse dicendo con voce alterata: — Nessuno!

Corse a guardar nello stanzino del bagno: — Nessuno ancora!

Allora come furibondo uscì di là e andò a cercar della cameriera che stava nella guardaroba allestendo i bauli. Egli era così stravolto che questa vedendolo entrare ne fu spaventata.

In un punto tutta la sua circospezione se ne era ita in fumo.

— Dov’è mia moglie? — chiese alla fanciulla con un tuono di voce che non permetteva una risposta equivoca.

— È uscita di casa.

— Quando?

— Poco prima di mezzogiorno.

— E ha lasciato detto?

— Credo che sia andata a far delle spese pel viaggio.

Calmato da questa spiegazione il Dal Poggio potè rispondere un: Va bene, che non distrusse però la prima impressione. [p. 275 modifica]

E ritornò nella stanza da letto, dove il nonno lo stava aspettando coll’ansia d’un uomo che ha il presentimento di una sciagura.

Infatti, appena il Dal Poggio fu uscito di là, egli aveva girato gli occhi intorno, cercando un segnale che lo confermasse in un suo sospetto; e non ebbe molto a cercarlo. Sullo scrittoio egli vide una lettera, che aveva l’aria d’essere stata scritta da poco tempo. Cavò gli occhiali di tasca, la prese in mano, vi gettò sopra gli occhi e lesse sulla soprascritta il proprio nome e cognome del carattere di Noemi.

— Sventura! sventura! — sclamò il povero vecchio impallidendo — Ah che cosa feci io a darla a quest’uomo!

E sedutosi sulla sedia che stava dinanzi allo scrittoio, aperse la lettera e piangendo a calde lagrime, lesse ciò che gli scriveva la povera Noemi.