La scapigliatura e il 6 febbrajo/Prologo
Questo testo è completo. |
◄ | Introduzione | I | ► |
PROLOGO.
In certe notti d’inverno — quando la luna, che comincia a declinar verso Ticino, trapela a stento dall’annuvolato, e la nebbia cala giú presso terra a rendere piú fosche le fiammelle del gas — Milano, a chi lo percorre frettoloso, ad ora tarda, presenta talvolta degli aspetti assai curiosi.
Nella irregolarità delle sue vie deserte e illuminate a risparmio, negli angoli sporgenti e rientranti delle sue case, nell’alto e basso delle sue grondaie, ti si affacciano talvolta dei capricci di ombra e di luce non mai prima avvertiti.
Ora è il buio monotono che vien rotto improvvisamente ad una svolta dal chiarore che esce da una bottega attardata e ancora aperta; ora è la luna che mostrandosi da una fessura del cielo, rischiara la bruna facciata d’un palazzo, che ti si rizza a un tratto dinanzi gigantesca e minacciosa; e allora, per poco che tu sia superstizioso o pusillanime, ti prende quasi un’uggia di esser solo in quel silenzio e affretti il passo; tuo malgrado ti ricorre alla memoria la storiella di ladri udita poco prima, e se vedi venirti incontro una fisonomia sospetta le cedi volentieri la dritta.
Fu in una di queste notti sinistre a mezzo un dicembre, che un giovine, disceso da una carrozza che s’era fermata sulla piazza di Sant’Ambrogio, percorreva sotto l’acquerugiola, che cadeva fitta e minuta, quella contrada che congiunge la piazza al Carrobbio, cercando collo sguardo qualche cosa sulla muraglia delle case di destra.
Chi lo avesse veduto passar sotto il raggio dei lampioni, avrebbe osservato su quel volto i segnali di un’angustia violenta, come di chi cerca invano qualche cosa che gli preme.
Giunto allo sbocco della contrada del Cappuccio, lo sconosciuto ristette come sconsolato; poi, voltosi indietro precipitosamente, rifece la via esaminando più attentamente le pareti delle case... finchè un’esclamazione di gioia che gli uscì dalle labbra mostrò che avea finalmente trovato.
Allora s’accostò al muro, prese colla destra la maniglia d’un cordone da campanello di chirurgo, lo tirò con forza, e si ritrasse di nuovo in mezzo alla strada, alzando la testa alle finestre di terzo piano a cui corrispondeva il filo.
Stette così un minuto, nel quale, all’ansia cocente di poco prima, era succeduta sul suo viso la naturale impazienza di chi aspetta...
Una finestra s’aperse al terzo piano e una voce di donna chiese:
— Chi è?
— Cerco del professore; — disse lo sconosciuto con voce alterata — È in casa?
— C’è; — rispose la voce dall’alto.
— Ho bisogno di lui. Ditegli che faccia la carità di ricevermi.
— Ma, è a letto che dorme; — replicò la voce.
— Bisogna svegliarlo; — gridò l’altro imperiosamente — si tratta di vita o di morte. Scendete ad aprirmi. Avrete buona mancia.
Sia che il tuono commosso e insieme risoluto del giovane persuadessero la fantesca che non sarebbe stato così facile il congedar quell’uomo; sia che l’antifona della mancia ne vellicasse l’istinto prepotente in molte umane creature — e specialmente nelle serve — il fatto è che rispose: — Vengo; — e si ritrasse chiudendo la finestra.
Lo sconosciuto piegò il capo sul petto come uomo che si raccoglie ne’ suoi pensieri. La scarsa luce, che gli batteva da un riverbero sulla persona, avrebbe mostrato ai passanti un giovane nei 25 anni; di mezza statura; coperto da un leggero soprabito a dispetto della pioggia e del freddo; nè bello nè brutto;... tale insomma da non fermare lo sguardo di chicchessia.
Non erano scorsi due minuti che il rumore d’una chiave nella toppa dello sportello gli fe’ alzare vivamente la testa. Allora si mosse, attraversò il marciapiedi, e curvata la persona, varcò la soglia della piccola apertura che gli si era schiusa dinanzi.
Lo sconosciuto si mise per l’andito, dietro alla fantesca, che reggendo il lume dinanzi a lui, s’avviava verso la scala.
— L’avete già svegliato? — le chiese.
— Sì signore.
— Che cosa ha detto?
— Nulla ha detto, pover’uomo! Ormai ci ha fatto il callo.
— Gli toccano spesso questi casi?
— Una notte dovette svegliarsi e uscire fin tre volte.
— Questo pel vostro incomodo; — disse lo sconosciuto, dopo aver cavato una moneta dal taschino del farsetto.
E sì dicendo allungava il braccio per mettere la mancia nella sinistra della donna che le pendeva libera al fianco. Costei, sebbene non potesse vedere quell’atto, lo indovinò; giacchè, con mirabile accordo, stese indietro il braccio, abbrancò la moneta, biascicando un grazie, e la intascò, non senza prima averla sogguardata sul palmo colla coda dell’occhio.
Il giovane non rifece parola, e neppur essa. Montarono in silenzio i gradini della scala fino al terzo piano ed entrarono in casa del professore sul cui uscio d’ingresso stava scritto:
PIER AMBROGIO BARTELLONI
chirurgo ostetrico.
Ancora mezzo intronato dal sonno, il professore stava a sedere sul letto disponendosi un po’ di mala voglia ad ubbidire a quella voce potente nelle anime oneste che si chiama il dovere.
Era un uomo sui cinquant’anni, d’una forza e d’una salute meravigliosa; la quale ei soleva attribuire alla sua invincibile avversione ai medici ed ai farmacisti. Nel quartiere, questa sua bizzarra professione di fede — in apparenza così contraria all’arte sua — e un certo metodo di vita fuor del consueto, e la sua maniera di vestirsi negletta e antiquata, gli aveano meritato il soprannome di filosofo, che, come tutti sanno, per certa gente dabbene equivale a poco meno di matto.
— Che cosa mi comanda? — diss’egli al giovine che la Caterina gli veniva presentando.
E, volgendosi a lei, soggiunse:
— Va pure.
— Ho bisogno di lei — cominciò lo sconosciuto — per un affare delicato... assai delicato.
Il professore all’accento turbato di quella voce, all’espressione misteriosa di quelle parole alzò fieramente la testa e corrugò la fronte. Un sospetto oltraggioso gli aveva attraversato la mente.
— Spero, — diss’egli fissando i suoi occhi penetranti in faccia allo sconosciuto — spero che ella non sia venuto a chiedermi una cosa illecita.
Ma l’altro, prima che il professore avesse terminato, senz’ascoltarlo, soggiungeva:
— E sono pronto a qualunque sacrificio pecuniario per ricompensare degnamente l’incomodo che ella dovrà prendersi...
— Le ripeto, signore, che io sono pronto a prestar l’opera mia quand’essa non debba essere contraria alle mie... abitudini...
— L’opera che io son venuto a chiederle è nè più nè meno che quella della sua professione.
— Quand’è così — sclamò il professore rovesciando indietro la le coltri e mettendo le gambe fuori del letto — siamo bell’e intesi.
— Però, l’incomodo ch’ella dovrà prendersi, — replicò il giovane risolutamente — è forse superiore a quello che s’immagina. Prima di tutto debbo dirle che s’andrà fuori di Milano.
— Molto lungi?
— No; il viaggio d’un’ora al più...
— Manco male.
— Poi debbo prevenirla che c’è una condizione a cui sarei desolato s’ella rifiutasse di assoggettarsi.
Il professore che in questo frattempo era andato raccapezzando su pel letto le sue robe, e già stava per infilar le mutande, ristette di nuovo.
— Una condizione? e quale?
— Lei è troppo dell’arte per non sapere che qualche volta una donna può aver dei motivi per non lasciarsi scorgere in viso neppur dal dottore.
— Ho capito! — sclamò l’altro rizzandosi in piedi e continuando a vestirsi. — Se la condizione sta tutta in ciò non v’è nulla in contrario. Conosco queste cose, e non sarà certo l’ultima volta ch’io sarò per assistere una donna mascherata.
— Mascherata sta bene; — riprese il giovine con ansia crescente — ma questo non è tutto. Essa volle che io le promettessi che la persona che le avrei condotto non avrebbe veduto neppure il luogo dove essa abita...
— Questa la mi è nuova! — sclamò l’altro sorridendo — Vuol dire che bisognerà ch’io ci venga a occhi bendati?
— S’ella fosse tanto buono!
— Dato il caso che io avessi dei nemici, prudenza consiglierebbe a rifiutare. Ma come, grazie a Dio, non ne ho, così accetto anche questa condizione.
— Che Dio la benedica! — sclamò il giovine rasserenando ad un tratto la fisonomia come chi esce da un dubbio tormentoso.
— Ella sarà venuto colla carrozza? — chiese il professore.
— Sì; l’ho lasciata laggiù sulla piazza. Corro a farla avvicinare alla porta.
— Ed io mi metto l’abito, il pastrano, e sono con lei.
E il giovane si slanciò fuori della camera.
Vestito che fu, il professore cercò sul tavolino da notte la tabacchiera, e se la mise in tasca; aprì un armadio, ne trasse fuori un astuccio in cui teneva i ferri, e lo posò sul letto; tornò all’armadio, levò da un cassetto due pistole corte, le intascò anch’esse; aprì l’uscio, chiamò Caterina, e a lei che accorreva pose nelle mani l’astuccio dei ferri dicendo:
— Va pure innanzi.
Poi udendo giù nella via il rumor della carrozza che s’avvicinava, levò da un angolo della camera la fida canna tradizionale dei dottori ostetrici di trent’anni fa, diè un ultimo sguardo intorno ed uscì.
Quando fu al basso, egli si fe’ dare l’astuccio da Caterina e le disse:
— Va pure a letto, e non aspettarmi per questa notte. Se domani mattina càpita don Giacomo, digli di ripassare dopo mezzogiorno.
Così detto, facendo arco della schiena, uscì dallo sportello.
Come fu nella via, si vide dinanzi una bella berlina da viaggio a due cavalli alla Daumont, che fumavano copiosamente di sudore, mostrando di avere fatto poco prima, se non lunga, rapidissima corsa. Un fanciullo palafreniere, colle braccia incrociate sul petto come un piccolo Napoleone, stava immobile dinanzi ad essi.
Lo sconosciuto, colla maniglia dello sportello in mano, aspettava il professore. Il quale, deposto l’astuccio nell’interno della carrozza, senza far complimenti entrò pel primo, e il giovine gli tenne dietro. Nel frattempo il piccolo palafraniere, montato a cavallo, partì come un lampo.
S’era messo un freddo da lupo. La pioggia mutata in nevischio, cadeva a spruzzoli sodi e minuti, brizzolando qua e là il bruno selciato della via.
Il professore, non appena si fu seduto in carrozza, trasse di tasca il fazzoletto con un tacito e arguto sorriso, e piegatolo diagonalmente sulle ginocchia si volse all’altro e gli disse:
— Dunque bisogna che ella mi faccia il nodo.
— Se lei non pigliasse la cosa con tanta disinvoltura, — osservò il suo compagno di viaggio, prendendo nelle mani i due capi del fazzoletto — io sarei in obbligo di chiederle mille scuse.
— Non val la pena per così poco; — sclamò il professore — La stringa un po’ di più... un po’ ancora...
E quando si sentì annodato a dovere il fazzoletto sugli occhi, sdraiandosi filosoficamente nel suo angolo, sclamò con un piccolo scoppio di riso:
— Ora sfido a vederci.
E qui, consigliati dalla voluttuosa sensazione che si prova ad essere trasportati velocemente in carrozza, e dalla fatica che avrebbero dovuto fare per udirsi, col rumore delle ruote sul lastrico, fecero silenzio.
Si andava sempre con una velocità spaventosa.
Il professore — quantunque non avesse sviluppato in ispecial modo il bernoccolo della curiosità — pure non potea sottrarsi a quella legge inevitabile dell’umana natura, che un filosofo scolpì nell’aforismo nititur in vetitum, e che fu causa — dicono — del peccato di Eva.
Perciò — fin dal primo partir della carrozza, avendo seguito colla memore immaginativa la strada ch’essa teneva, per indovinarne, quasi suo malgrado, la direzione — dalle frequenti svoltate a sinistra fu tratto ad arguire che si dovesse andar fuori da porta Comasina. Dopo aver battuto il lastrico per dieci minuti la carrozza si fermò un istante; e quando ripigliò la corsa, il rumore sordo delle ruote su un terreno molle di fango avvertì il professore che si era varcata la porta della città.
Allora — cessato il rumor delle ruote — primo a rompere il silenzio fu lo sconosciuto; il quale con una di quelle domande oziose, che non servono ad altro che ad avviare un discorso, gli chiese:
— Come va, professore?
— Bene! — rispose questi — Oscuramente bene!
— Sa ella che sono stato già da due altri chirurghi che non hanno voluto accettare?
— Lo credo — rispose il professore ridendo — C’è chi ha paura; c’è chi crede offesa la propria dignità di chirurgo ostetrico. Essi dicono d’essere inviolabilmente segreti come il confessore, e pretendono di venir considerati come tali.
— Sarà benissimo; — osservò il giovine — ma v’hanno dei peccati a questo mondo che non si vorrebbero dire neppur al confessore...
— Naturalissimo. Principalmente i peccati veniali. Ci sono delle debolezze che fanno più vergogna a noi stessi... che non un delitto... dato che fossimo capaci di commettere un delitto.
La conversazione, nutrita di filosofia e di morale, continuò così una buona mezz’ora, finchè una troppo rapida svoltata della carrozza per poco non fece cozzar l’un contro l’altro i due viaggiatori. Il legno fu lì lì per dar la balta; ma, ripigliato fortunatamente il suo centro di gravità, continuò per piccolo tratto ancora la sua corsa precipitosa, passò sotto un androne selciato, e si arrestò in un luogo aperto, che dovea essere necessariamente il cortile d’una casa.
— Eccoci! — disse il giovine al professore levandosi da sedere.
— Ci siamo? — sclamò questi — Bene arrivati.
L’altro, quando fu uscito, gli stese la mano, lo aiutò a smontare, levò di sotto al sedile l’astuccio dei ferri, e s’avviò a braccetto del suo cieco compagno. Attraversato un portico, l’avvertì che stavano per incominciare i gradini di una scala. La montarono. Giunti sul secondo pianerottolo, aperse un uscio muto sui cardini, e conducendo sempre per mano il professore attraversò un’anticamera, per un altr’uscio passò in una seconda stanza, e disse:
— Ci fermeremo qui.
— Posso sbendarmi? — disse il professore.
— Senza dubbio.
Bartelloni non se lo fece dir due volte. Toltosi il fazzoletto, girò intorno lo sguardo e si trovò in un’ampia sala illuminata scarsamente da due lumi posati sopra una tavola rotonda, che vi sorgeva nel mezzo.
Lo sconosciuto, deposto su quella tavola l’astuccio, pregò l’altro di attenderlo per un istante; e attraversata la stanza scomparve per un uscio a fior di muro.
Rimasto solo il professore girò un altro sguardo molto più curioso del primo sugli oggetti che si trovavano in quella camera, e si diede ad esaminarli.
La era una di quelle malinconiche sale, come se ne trovano ancora molte nelle case di campagna, mentre, per amor del ricavo e de’ propri comodi, il proprietario in città le ha totalmente abolite.
La vôlta altissima, a spicchi, era fregiata di stucchi foggiati a pampini, che correvano su a intrecciar la cornice ovale di un medaglione di discreto autore, che rappresentava la solita... la eterna toilette di Venere. Degli specchi antichi dalle cornici barocche — che la moda rifece preziosi oggidì — stavano appesi alle pareti, coperte da un arazzo di un colore fra l’albeggiante e il lionato. Qua e là accanto agli specchi, disposti senza simmetria, alcuni quadri. Sul piano di un vasto camino, si rifletteva da un altro specchio un pendolo e due vasi della China, sui quali la bizzarra fantasia dei figli del sole aveva riprodotta la vita chinese nella sua più grottesca e fantastica espressione.
Un po’ di polvere, e qualche ragnatelo, completavano — come dicono i romanzieri — la fisonomia di quella sala.
Il professore, preso in mano un lume, s’accostò alla parete e, fatto riverbero della mano, aguzzò l’occhio su uno dei quadri che stavano appesi alla destra del camino; e non appena il suo sguardo si fu posato su quel dipinto, tutta la sua fisonomia fu illuminata da un’espressione di gioia e di meraviglia.
Chiunque in quel punto avrebbe riconosciuto nel professor Bartelloni un profondo conoscitore.
— Possibile! — sclamò sommessamente. — Ed io non saperlo...? Diamine! Chi sarà mai il padrone di questa casa?
E già si moveva ansioso per esaminare gli altri quadri che ornavano le quattro pareti, quando l’uscio per cui poco prima era scomparso il suo compagno di viaggio si schiuse di nuovo e questi si mostrò sulla soglia facendogli cenno di seguirlo.
Il professore, deposto il lume s’avviò e venne introdotto in un’altra sala.
Essa non dissomigliava dalla prima, e come la prima si avrebbe potuto crederla disabitata, se la temperatura sensibilmente accresciuta, e un certo vago e parlante disordine di robe sparse sulle poche suppellettili che l’ammobigliavano, non avessero fatto accorto chiunque che la era abitata... e abitata da una donna.
Una lucerna, posata su una consôle, la illuminava per metà. Nella penombra prodotta da un paralume, il professore vide un letto a sopracielo cortinato e capì tosto che la creatura a cui egli veniva a recar gli aiuti della sua scienza era là.
Una veste da camera femminile foderata di martora bionda stava rovesciata sul dossale d’una sedia a bracciuoli accanto al letto, e sul tavolino da notte vide, insieme ad un servizio di cristallo turchino, alcuni libri, un braccialetto, e un cestello da ricamo.
Il giovine che precedeva il professore, giunto al letto, ne rimosse le cortine e si curvò a parlare con alcuno che vi stava celato di dietro.
Detta qualche parola sottovoce si volse al professore che s’era fermato qualche passo indietro e gli fe’ cenno di venir innanzi.
Allora questi dato un passo vide sdraiata in quel letto... col volto coperto da una maschera... una donna... che gemeva sommessamente.
Tre ore dopo quella camera poco prima così silenziosa echeggiava dei vagiti di una creaturina... venuta a questo mondo a godere o a soffrire.
La madre era fuori di pericolo.
Il professore guardò l’orologio. Erano le sei del mattino.
Le sei del mattino del giorno 16 dicembre 1829.