La mia vita, ricordi autobiografici/XXII
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XXII.
Muore mia madre.
(1877).
La notorietà che mi aveva dato la pubblicazione dalle Memorie di un pulcino mi procurò nel 1876 una lezione in casa del dottor Paggi, dove istruii le due signorine Emma e Sofia, da molti anni maritate ed egregie madri di famiglia. In quello stesso anno conobbi Enrico Franceschi, direttore della Gazzetta del popolo, e Celestino Bianchi, direttore della Nazione. In quel tempo vi collaborava settimanalmente Bruno Sperani.
Per la mia operosità alla fine del 1876 mi trovavo in condizioni finanziarie tali da procurare non dirò l’agiatezza, ma almeno un po’ di vita quieta alla mia mamma adorata. A questo proposito non saprò mai dimenticare l’espressione di grata meraviglia che ella provò un giorno in cui, volendole dare una prova pratica delle mie migliorate condizioni economiche e della mia tenerezza, le feci mandare a casa un finimento completo di mobilia imbottita, suo sogno da anni: un sofà, sei seggiole imbottite e una comoda poltrona con lo schienale alto, che la cara donna desiderava sopra ogni altra cosa. La novità del caso prima la stupì; e la stupì tanto che voleva ad ogni costo rimandar indietro tutto, perchè, com’ella disse: «quella bella roba non poteva venir lì»; poi quando seppe che io stessa glie l’avevo comprata e mandata fino a casa, non seppe far altro che piangere e coprirmi di baci. Oggi, simili manifestazioni di tenerezza rasenterebbero il sentimentalismo morboso; giacchè non v’è impiegato alle ferrovie o droghiere in riposo che non vanti qualche salottino turco o qualche tappeto persiano; ma allora la Turchia e la Persia si conoscevano a mala pena sulla carta geografica; anzi si può dir che esistessero solamente nei nostri sogni.
Quando la vita cominciava a sorridermi nel fulgore delle sue speranze più rosee, la povera mia mamma morì; morì di una forma acuta di bronco-polmonite, in una malinconica sera di novembre, che ricordo sempre con infinito dolore. A Lei, e a tutti i suoi ricordi e a tutta la sua anima che m’aleggia ancora intorno mentre scrivo, inspirai per molti anni l’ininterrotta opera mia; e starei per dire che ogni mia parola, in quel tempo, fu dettata da Lei.
Alla memoria adorata della mia santa mamma dedicai fin da quel giorno, ogni più nobile sforzo dello spirito e del pensiero, e anch’oggi, d’ogni mio nuovo lavoro metto la prima copia sotto il suo ritratto, perchè ella dallo sfondo aureo della cornice gli sorrida e lo benedica; anch’oggi parlando di Lei, mi si inumidiscono gli occhi di lacrime cocenti.
Quasi interamente consacrato alla sua memoria è il libro dei Miei racconti, edito dai Fratelli Paggi. Scritto poco tempo dopo la sua morte, è il più vibrante e il più lirico; di un lirismo che ha forse nella sua manifestazione qualche cosa di troppo giovenilmente frondoso, ma di cui ho voluto che fosse sempre e scrupolosamente — nelle molte edizioni — conservato il carattere. Ed anche nell’ultima, uscita pochi mesi sono, non volli aggiunger sillaba, nè toccar periodo, quasi timorosa di violare la sacra e dolorosa esuberanza di quella tristezza.
Al trasporto funebre della povera mamma presero parte fra gli altri amici il Dazzi,1 Ubaldino Peruzzi, la soave Paolina Conti-Carotti, Ispettrice delle Scuole Leopoldine, il signor Alessandro Paggi, di cui ricordo con tenerezza un atto di squisita bontà. Volendo concorrere in parte alle spese delle esequie, mi regalò un grazioso portafoglio. Lo apersi e vi trovai dentro trecento franchi e un biglietto da visita con queste parole: Per i fiori.
⁂
Dopo la morte della mamma, l’Egle ci riunì a me e al babbo e facemmo tutta una famiglia. Nel rimettermi al consueto lavoro, sentii parlare di Carlo Pancrazio editore e direttore della Gazzetta d'Italia e della Rivista Europea, e volli conoscerlo. Codesto Pancrazi era uno stranissimo uomo: dotato d’ingegno vasto, di coltura varia e ricca, egli possedeva un acume critico notevolissimo e uno spirito indemoniato. Una volta se la prese con un reporter perchè non aveva pubblicato nel giornale il resoconto di un incendio. Il reporter gli fece rispettosamente osservare che l’incendio si era sviluppato mentre il giornale era in macchina. Allora il Pancrazi non sapendo più che cosa rispondere e messo come suol dirsi alle strette s’infuriò e gli rispose; — Lei è una bestia; un giornalista vero deve prevedere tutto; anche gli incendi. — Non ci sarebbe mancato altro!
Andai ad offrir la mia opera giornalistica al Pancrazi, il quale accettò subito, senza discutere. Non mi parlò né del mio ingegno, nè delle mie attitudini: gli fece invece impressione la mia straordinaria magrezza su cui gli piaceva spesso di scherzare.
Nella Gazzetta d’Italia e nella Rivista Europea scrissi un po’ di tutto; ma piacevano più specialmente le mie recensioni che, per il solito, firmavo con il pseudonimo di «Manfredo». Quello pseudonimo per poco non mi procurò un duello, ed ecco come andò il fatto. Avevo, come si dice in gergo giornalistico, stroncato un libro di versi, e mi aspettavo dall’autore un diluvio d’impertinenze.
Invece un bel giorno mi vidi comparire a casa due giovani signori, i quali mi domandarono chi fosse «Manfredo». Capii subito di quel che si trattava; ma seppi evitare abilmente una risposta che avrebbe potuto compromettermi e interrogai io i due signori sul motivo della loro visita. Mi dissero che l’autore del libro «stroncato» si era creduto offeso da certe mie frasi e che chiedeva una ritrattazione o una riparazione per le armi. Dissi subito che «Manfredo» non avrebbe ritrattato nulla, ma che non credeva di aver offeso il poeta. I due giovani si guardarono in faccia e mi strinsero di domande in modo che dovei finire col confessare — ridendo — chi fosse Manfredo. La prospettiva del duello naturalmente svanì e i due padrini dovettero andarsene colle pive nel sacco.
⁂
Un improvviso voltafaccia del Pancrazi, mi messe, come suol dirsi, sul lastrico. Da avere centocinquanta lire al mese al non le aver più, c’è una bella differenza. Vinta la prima amarezza del momento non mi scoraggiai e cercai nuovamente lavoro, con tenacia, con fede e l’ottenni.
Lasciando il Pancrazi, io rimanevo in una condizione finanziaria deplorevole, giacchè avrei dovuto guadagnarmi la vita giorno per giorno senza poter ricorrere alle risorse di uno stipendio fisso, anche modesto. M’ero licenziata dalla scuola elementare alla fine del 1878 ed eccone le ragioni. Alla piccineria dell’ambiente e alle frequenti sciocchezze di un cattivo metodo pedagogico che urtava profondamente i miei sistemi d’idee — idee tutte giovani, sane ed essenzialmente moderne, — s’era aggiunta in quell’anno una prescrizione municipale che finì col farmi saltare la mosca al naso: l’obbligo della ginnastica. Non approvavo il provvedimento per molte ragioni: alcune di indole puramente pedagogica, altre di indole esclusivamente femminile. Mi pareva che obbligare tutt’a un tratto senza preparazioni o preavvisi, delle povere donne non più giovani, non più robuste, alcune anche un poco troppo pingui o goffe, ad un insegnamento che poteva avere il pregio singolare di suscitare l’ilarità delle alunne non fosse decoroso, non fosse giusto. Jorick, in una serie d’articoli non troppo benevoli, aveva messo in ridicolo il provvedimento e anche... le future insegnanti, presentandocele sotto un aspetto nuovo, e scherzando sui loro futuri doveri, con uno spirito alquanto... arrischiato: la discussione e i commenti si complicarono tanto ch’io finii col ribellarmi. Si tentò di indurmi alla calma, ma la mia esasperazione crebbe invece a mille doppi quando seppi che il Municipio di Firenze aveva decretato — in onore della ginnastica — di sottoporre tutte le insegnanti a una visita medica, scambiandole forse per altrettanti coscritti. Decisi quindi di finir per sempre la mia vita di maestra, e di presentare al Municipio le mie dimissioni. Contribuirono a questa determinazione anche certe sorde guerricciole mossemi dalle mie colleghe, e alcune manifestazioni — tutte femminili — di malevolenza per le quali mi accorsi chiaramente che bisognava in tutti i modi cambiar aria. — La superiorità dell’ingegno non veniva sopportata. Meglio quindi mutar vita, che condurla lacrimevole o odiata. Uscii quindi dalla scuola elementare ricevendo un attestato molto lusinghiero di stima. Lo riporto in queste pagine assai volentieri:
«Il R. Delegato straordinario,
«Attesta per la verità che la signora Ida Baccini, nominata, in seguito a concorso per esame, maestra assistente nelle Scuole elementari comunali il 22 gennaio 1873, vi ha disimpegnato il proprio ufficio con zelo ed operosità veramente esemplari, fino a tutto il giorno presente.
Attesta altresì che la predetta signora Ida Baccini, dotata di non comune ingegno, dimostrò coltura di gran lunga superiore a quella richiesta per occupare il posto che Le fu conferito e che nelle Scuole sovraindicate tenne sempre un contegno lodevolissimo, così per cortese deferenza verso i suoi superiori, come per gentile amorevolezza verso gli alunni che le furono affidati, dalla disciplina e dal profitto dei quali si ebbero prove non dubbie della sua attitudine all’insegnamento elementare.
E le rilascia il presente certificato onde Ella possa valersene come di ragione».
Firenze, dal Palazzo Municipale
- li 26 dicembre 1878.
Tutte belle cose, come vedete, ma che non diminuivano per nulla le angosciose responsabilità della mia posizione. Uscendo dalla scuola, così all’improvviso e per mio capriccio, non avevo diritto — naturalmente — alla più piccola gratificazione: l’orizzonte quindi rimase oscuro e nebbioso finchè non spuntò un astro nuovo nella persona del Pancrazi; ma quando per i fatti già accennati anche il nuovo astro tramontò, non so dire ai miei lettori come rimanessi!
Rimasta sola in campo, cercai di attaccarmi ai pochi amici fedeli e specialmente al Ubaldino Peruzzi, al Pietro Dazzi, al Cammarota, a Mario Manfroni, coltissimo uomo e tempra squisita di educatore, e li pregai a trovarmi lavoro e lezioni. E come mi si dimostrarono sinceramente affezionati quei galantuomini! Il signor Ubaldino lo avevo conosciuto per caso, quando andavo a dar lezione in casa Marliani: mi raccontarono in seguito che egli si era un giorno rimpiattato dietro una tenda per sentirmi, mentre spiegavo un canto di Dante alla mia cara allieva Maria e alle signorine Sella — nipoti, mi pare — di Quintino. Fatto sta che dopo avermi conosciuta, strinse con me una cordiale e franca amicizia. Egli, spirito colto ed arguto, cominciò ad avermi particolarmente in stima quando gli parlarono di me come una piccola ribelle, almeno per quanto si riferiva ai provvedimenti scolastici. Il sindaco di Firenze non poteva distruggere da un momento all’altro, l’uomo di ingegno e se il Capo riconosciuto del Comune esercitava o doveva esercitare una severa vigilanza sui suoi sottoposti, Ubaldino Peruzzi ne lasciava però compiacentemente sbollire i giovanili entusiasmi. Mi fu amico affettuoso finchè fui maestra, e a mille doppi più devoto quando libera di me stessa potei accettare il suo aiuto senza incorrere nella taccia di avere abilmente sfruttata la sua cortesia.
Quando dopo essere uscita dalle scuole elementari del Comune per mia volontà, e per la rovina finanziaria del Pancrazi, dai periodici ch’egli amministrava e dirigeva, sola, povera, e bisognosa di lavoro mi rivolsi — come ho già detto — ai pochi amici che mi avevano già dato prove non dubbie d’affezione sincera: e prima che agli altri al Peruzzi. Per i Fratelli Paggi fra un ritaglio e l’altro di tempo avevo scritto un altro volumetto, di indole puramente scolastica, che venuto dopo il Pulcino ebbe anch’esso buon esito. Con la scorta di questi due libri, e le parole forse troppo benevole di Ubaldino Peruzzi fui presentata e raccomandata caldamente a Edmondo De Amicis perchè parlasse di me al signor Emilio Treves, e a Vittorio Bersezio. Ecco quel che il De Amicis rispose:
«Pregiatisso sig. Ubaldino,
Ho tardato molto a darle una risposta riguardo alla signora che Ella mi ha raccomandato perchè si son fatte molto aspettare le risposte del Bersezio e del Treves ai quali mi sono rivolto. Tutti e due mi hanno scritto che accetteranno con piacere gli scritti della signora e che li pagheranno come son soliti a pagare gli articoli dei collaboratori ordinari dei loro giornali. Il Treves desiderebbe specialmente novelle, bozzetti, piccoli lavori.
La signora Baccini può dunque mettersi in corrispondenza diretta coll’uno e coll’altro. (E. Treves Milano, via Solferino, 11; V. Bersezio, Torino, direzione della Gazzetta Piemontese), anche per sapere da loro precisamente quale compenso le sarà dato. Dopo che ho letto le Memorie di un pulcino e gli altri scritti che Ella mi mandò, non ho più dubitato che la collaborazione della signora Baccini dovesse riuscire molto accetta a qualunque direttore di giornale letterario e procurarle dei guadagni. Se fosse necessario scrivere ad altri giornalisti, non ha che da scrivermi una parola; lo farò con molto piacere. Ma mi pare che due giornali per ora possono bastare. La prego di salutare affettuosamente la signora Emilia e di volermi bene, non dico quanto lo desidero, che sarebbe troppo, ma quanto glie lo consente il suo nobilissimo cuore.
Suo devotiss. |
⁂
Il risultato della gentile presentazione fu questo, che ai giornali del Treves cominciai subito la collaborazione, e che con Vittorio Bersezio strinsi presto — sempre a distanza — una cordiale e fraterna amicizia. Ai primi dell’ottanta avevo dunque questo attivo nel mio patrimonio letterario: Le memorie di un pulcino — Favole e cose vere — Un viaggio nella China e La Fanciulla Massaia di cui dedicai la prima edizione a Rosalia Piatti, e che ha avuto fino a tutt’oggi, un esito librario immenso, nonostante il femminismo invadente e la mia recente conversione alle nuove teorie. Tutti questi libri furono stampati dai Fratelli Paggi e valsero — se non altro — a darmi notorietà. Giornalisticamente parlando, non avevo perso il mio tempo; giacchè gratis et amore dei avevo dato due novelle: Massimo e Chi semina spine non vada scalzo alla Gazzetta del popolo del Picchianti, fin dal 1875: dopo avevo offerto la mia collaborazione — che fu subito accettata dal direttore Leonida Giovannetti — alla fiorentina Vedetta per cui scrivevo spessissimo articoli di varietà sotto lo pseudonimo di Cenerentola. Tutto questo a ventinove anni, senza trascurare nel medesimo tempo, la famiglia, la scuola, le lezioni private. Ma allora erano altri tempi; noi giovani avevamo, sulla vita, sul dovere e sull’arte idee generali e particolari molto diverse da quelle d’oggi; e la fatica ci faceva molto meno paura, forse perchè gli studii medici — meno progrediti d’oggi — non infrasconavano coi loro paroloni e con le loro minaccie le teste calde dei letterati e degli artisti. Dei malefici effetti dell’«esaurimento nervoso» pochi o punti sapevano; se conoscevano il male, non ci pensavano. Oggi invece se un ragazzo studia o lavora mezz’ora di più, ha bisogno del massaggio turco e del bromuro di sodio per calmare la sacra eccitazione. Non so se questo sia indizio dell’indebolimento della razza, o di una tendenza congenita all’arte di Michelaccio; a ogni modo presento la questione agli antropologi del presente e agli psicologi dell’avvenire perchè — a loro comodo — vogliano risolvere l’importante quesito.
- ↑ Anche Pietro Dazzi adorava la sua mamma. Questa era per lui l’idealità più alta e più gentile. Non la contristò mai e a quarantasette anni suonati egli le si dimostrava e le era sottomesso come un bambino. Mai andò una sera a letto senza aver chiesto e ricevuto da lei la benedizione. Una volta, mentre c’era la capitale a Firenze, il Dazzi si trovava a colloquio col ministro della Pubblica Istruzione, Cesare Correnti. Sentì suonare le cinque a un orologio. L’ultimo tocco vibrava ancora nell’aria, che egli alzatosi frettolosamente e interrompendo a metà un discorso importante, si accomiatò dal ministro, — Perchè se ne va così all’improvviso, professore? — domandò questi — si sente male?
— No, Eccellenza: ma ho la mamma che a quest’ora vuol vedermi a casa. Se ritardassi, starebbe in pena.... — E se ne andò come una freccia...⁂
Una persona che lo aveva involontariamente offeso tentava invano di ottenere il suo perdono.
Andando un giorno nel Cimitero dell’Antella, volle visitar la tomba della madre del Dazzi e colse alcune foglioline verdi, spuntate vicino alla cara salma. Poi le mandò al professore con queste parole: Le ho colte sul sepolcro della sua mamma e glie le mando implorando di nuovo il suo perdono.
Il Dazzi rispondeva immediatamente:
— Venga, venga a trovarmi. Sono impaziente di stringerle la mano e di assicurarla che ho tutto dimenticato. Ella ha una testa imprudente, ma un cuore d’angelo.⁂
Tutti gli amici del Dazzi hanno sperimentato la sua grande bontà e l’infinita delicatezza con cui egli sapeva alleviare le altrui sventure di qualunque genere esse fossero. Il suo cuore, la sua borsa, la sua squisita intelligenza erano sempre a disposizione di coloro che soffrivano. Narro un gentilissimo pensiero di lui.
A me era morta, da quasi un anno, la madre, e io soleva dire piangendo a quest’uomo ohe fu il consolatore e il benefattore nostro in quei giorni di dolore:
— Veda, amico, io non posso pensare al 26 novembre, giorno in cui finisce l'anno dalla perdita irreparabile. Chi mi darà la forza di trascorrere quella angosciosa giornata! — Oh, Dio sarà con Lei, non dubiti — mi rispondeva.
La mattina del 26 ero tuttora in letto, quando mi fu recapitato un grosso plico. Riconobbi sulla sopraccarta la calligrafia del Dazzi. — L’aprii e ci trovai un visibilio di manoscritti e di stampe, accompagnate da questa letterina:
«Debbo per questa sera rimettere tutta questa roba, corretta, all’editore Paggi: e non ho un momento di tempo. Vuole occuparsene Lei! Creda che farebbe un immenso favore al Suo ecc.».
Com’è facile a supporsi, mi misi immediatamente al lavoro, lieta di potere essere utile al mio maestro: le ore fuggirono, fuggirono in quel lavoro febbrile, non interrotto neppure per un minuto. La sera era finito e potei consegnarlo, non senza un certo sorriso di trionfo al buon professore. In quel mentre, non ricordo più da chi venne detto che quel giorno era il 26 ... Io gettai un grido e guardai il Dazzi che mi disse dolcemente: — Vede, poverina, se Dio l’ha aiutata!
Gli strinsi la mano prorompendo in singhiozzi. Ma quei singhiozzi non erano né amari né disperati.
Essi benedicevano alla santità del lavoro e all’ingegnosa carità di un uomo di cuore.⁂
Il Dazzi dava lezione d’italiano a una giovinetta molto, molto povera, che un giorno doveva acquistarsi un certo nome nelle lettere: ma allora, come ho detto, sosteneva l’angosciosa lotta del bisogno e della povertà.
Il Dazzi, un bel giorno, si presenta trionfante alla sua scolara:
— Sa! — egli le dice — Ho da farle un invito a nome dell’editore Felice Paggi. — Possibile! — Lei deve scrivere cinque brevi poesie per bambini; Glie le pagherà venti lire l'una!
Non si descrive la gioia della giovane. Cento lire! Ma a vent'anni cento lire sono un tesoro, un patrimonio. Quanti vestiti per sé, pel babbo e per la mamma! Quanto belle e utili cose non avrebbe ella comprato con cento lire?
Passò qualche tempo: un anno circa: e alla giovane saltò in mente di vincere la propria timidità e di domandare al Paggi in qual raccolta di versi per bambini fossero state pubblicate le cinque poesie. Al professore non osava chieder notizie, tanto temeva di mostrarsi indiscreta. Si recò quindi dal noto editore e gli espose timidamente il proprio desiderio. Questi parve cader dalle nuvole — Ma io non so nulla di versi scritti da Lei e presentati dal Dazzi: vedrà che ci sarà un malinteso di sicuro ...
La giovinetta diventò in viso come una fiamma. Aveva capito tutto. Quando rivide il professore, poche ore dopo, volle protestare, mostrarsi adirata ... Ma egli, gentile e delicatissimo sempre: - - Ebbene: ella mi rivedrà accuratamente tutte le stampe dell'Amico degli Asili e del Secondo libro della bambina. Badi che io sono molto esigente.