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Dissi subito che «Manfredo» non avrebbe ritrattato nulla, ma che non credeva di aver offeso il poeta. I due giovani si guardarono in faccia e mi strinsero di domande in modo che dovei finire col confessare — ridendo — chi fosse Manfredo. La prospettiva del duello naturalmente svanì e i due padrini dovettero andarsene colle pive nel sacco.

Un improvviso voltafaccia del Pancrazi, mi messe, come suol dirsi, sul lastrico. Da avere centocinquanta lire al mese al non le aver più, c’è una bella differenza. Vinta la prima amarezza del momento non mi scoraggiai e cercai nuovamente lavoro, con tenacia, con fede e l’ottenni.

Lasciando il Pancrazi, io rimanevo in una condizione finanziaria deplorevole, giacchè avrei dovuto guadagnarmi la vita giorno per giorno senza poter ricorrere alle risorse di uno stipendio fisso, anche modesto. M’ero licenziata dalla scuola elementare alla fine del 1878 ed eccone le ragioni. Alla piccineria dell’ambiente e alle frequenti sciocchezze di un cattivo metodo pedagogico che urtava profondamente i miei sistemi d’idee — idee tutte giovani, sane ed essenzialmente moderne, — s’era aggiunta in quell’anno una prescrizione municipale che finì col farmi saltare la mosca al naso: l’obbligo della ginnastica. Non approvavo il provvedimento per molte ragioni: alcune di indole puramente pedagogica, altre di indole esclusivamente femminile. Mi pareva che obbligare tutt’a un tratto senza preparazioni o preavvisi, delle povere donne non