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394 capitolo xvii.


Era un’immensa nube, bianca agli orli, dove il sole l’illuminava, e fosca, come tempestosa, verso la terra. Si ripiegava e sfumava a ponente. Avvicinandoci la vedevamo sempre più alta, più densa, più larga. Che cosa ardeva? Non dubitammo che qualche immenso incendio stesse divorando un villaggio. Osservammo la direzione della nube e consultammo la carta. L’incendio si trovava sulla nostra via. Forse Abatsk bruciava. Ci persuademmo che Abatsk fosse in fiamme. Era là, Abatsk, proprio là.

Guardavamo con interesse angoscioso, senza parlare, quel tragico nembo che ingigantiva, che occupava a poco a poco la metà del cielo, che di quando in quando aveva delle oscillazioni lente dissolvendosi da un lato e infoltendo dall’altro. Mezz’ora dopo ci accorgemmo che era una prateria che bruciava. Le erbe essiccate, i cespugli, offrivano un inesauribile alimento al fuoco, che camminava verso ponente spinto da una brezza lieve lieve.

Trovammo Abatsk salva, ma minacciata. Il sole era scomparso. Nuvole di fumo annebbiavano il giorno, formavano su di noi una sinistra ombra d’eruzione. Vi era una luce lugubre di cataclisma. Fuori di ogni casa erano stati messi tutti i recipienti colmi d’acqua, secchi, brocche, orci. Gruppi di gente erano pronti ai pozzi. Il villaggio si trovava in istato di difesa. Tutti osservavano immobili: si sarebbe detto che aspettassero un assalto e che vigilassero dalla parte del nemico. Poco discosto dalle case degli uomini lavoravano a scavare un fossato. Numerose teleghe dai paesi vicini arrivavano portando contadini muniti di pale, di zappe, di altri attrezzi. Ma si vedeva in tutto ciò un ordine che significava quasi una preparazione. Gl’incendi, in quella stagione non debbono esser rari sulla steppa. I villaggi hanno certamente un piano di guerra per respingerli, e quando il fuoco arriva lo mettono in esecuzione con la calma di chi non è preso alla sprovvista. In pochi minuti noi ci trovammo di nuovo sotto al sole limpido.

Il viaggio rientrò nella monotonia. Trovammo qualche sabbione, che ci ricordò l’arrivo a Kiakhta, e, nel pomeriggio, rive-