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sulla steppa 395


demmo alcuni boschetti di betulle. La betulla tornava a crescere, riprendeva le sue proporzioni naturali. Vicino a quei boschetti era Ischim, la nostra tappa, una cittadina bianca e silenziosa. Vi arrivammo alle tre. Avevamo percorso 355 chilometri.

Ischim è piccola, isolata nella pianura, e sembra disabitata. Una volta all’anno diventa una gran città. Tanti suoi edifici non si aprono e non vivono che in quella ricorrenza. Essa è celebre per essere il centro di una gran fiera annuale che eguaglia, dicono gli abitanti d’Ischim, quella di Nishnii-Nowgorod. Ma noi la vedevamo nella lunga epoca del suo riposo.

Un ricco mercante volle ospitarci nella sua casa. Ritrovammo le patriarcali larghezze di Kiakhta e di Irkutsk: tavola imbandita, e porta aperta agli amici e alle autorità. Mentre facevamo del nostro meglio onore alle accoglienze del nostro ospite, vennero ad avvertirci che il popolo d’Ischim desiderava vederci. Non si fa aspettare il popolo, nemmeno a Ischim, specialmente quando si contenta di così poco. E siamo discesi.

Una gran folla aveva invaso il cortile ed assediava l’automobile. Alla nostra comparsa è scrosciato un applauso. Sostenuto l’applauso con la dignità che l’occasione richiedeva, ci siamo mossi per rientrare in casa. Ma no, il popolo non è soddisfatto, diamine! Vuol vederci correre in automobile. Siamo arrivati in città così improvvisamente che nessuno ci ha ammirati. Era nostro dovere riparare a questa trascuratezza deplorevole. Siamo montati in automobile, e abbiamo in cinque minuti percorso tutte le strade. La rentrée nel cortile è stata magnifica. L’entusiasmo popolare non ebbe limiti. Io fui strappato a viva forza dal mio sedile, sollevato sulle spalle dalla folla, e portato in trionfo. Il popolo d’Ischim mi aveva scambiato per il Principe.

Urlai alla moltitudine che il Principe non ero io, e fui lasciato libero. Ma rimasi invendicato: Borghese s’era messo già in salvo.