La libertà (Mill)/Capitolo IV
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CAPITOLO QUARTO
DEI LIMITI AL POTERE DELLA SOCIETÀ
SULL’INDIVIDUO.
Dove sono dunque i giusti limiti della sovranità dell’individuo su sè stesso? Dove incomincia il potere della società? Quanta parte della vita umana dev’essere attribuita all’individualitá e quanta alla società? Ciascuna di esse riceverà la parte che le spetta, se avrà quella che la tocca più da vicino: la individualità deve governar la parte della vita che interessa specialmente l’individuo, e la società la parte che interessa specialmente il corpo sociale.
Sebbene, a base della società, non istia un contratto, e sebbene non serva a nulla d’imaginarlo per dedurne degli obblighi sociali, non di meno tutti quelli che ricevono la protezione dalla società debbono ripagarle questo beneficio: il fatto solo di vivere in società impone a ciascuno una certa linea di condotta verso gli altri.
Questa condotta consiste: 1.° nel non danneggiare gl’interessi altrui o piuttosto certi fra questi interessi che, sia per espressa disposizione di legge, sia per un tacito accordo, devono essere considerati come diritti; 2.° nell’assumersi ciascuno la propria parte (che dev’esser fissata secondo qualche equo principio) delle fatiche e dei sacrifici necessari a difendere la società o i suoi membri contro qualunque danno o vessazione. La società ha l’assoluto diritto d’imporre questi obblighi a quelli che se ne vorrebbero esimere. E non si riduce a questo ciò che la società può fare: gli atti di un individuo possono essere dannosi agli altri, o non dare una sufficiente importanza al loro benessere, senza giungere fino a violare alcuno dei loro diritti costituiti; il colpevole può allora esser punito dall’opinione, sebbene non lo sia dalla legge. Dal momento che la condotta d’una persona è dannosa agli interessi altrui, la società ha diritto di giudicarla, e la questione di sapere se questo intervento sarà o no un ajuto al benessere generale, diviene argomento di discussione. Ma non è il caso di discutere una questione simile, finchè la condotta di una persona non tocca che i suoi propri interessi o non riguarda gl’interessi degli altri se non col loro pieno consenso (e tutte le persone interessate sono di età matura e dotate della intelligenza normale). In casi simili, si dovrebbe avere libertà completa, legale e sociale, di fare qualunque cosa, a qualunque rischio.
Si fraintenderebbero queste idee, se vi si vedesse una dottrina di indifferentismo egoistico, la quale pretendesse che gli esseri umani non debbano aver mutui riguardi nella loro condotta nè occuparsi del benessere e delle azioni altrui, se non quando il loro interesse è in giuoco: — in luogo di una diminuzione, ciò che occorre è un grande aumento degli sforzi disinteressati per favorire il bene altrui. Ma la benevolenza disinteressata può trovare un altro mezzo di persuasione che non sia lo staffile, figurato o anche reale. Io non voglio per nulla toglier pregio alle virtù personali: soltanto, esse vengono dopo le sociali: tocca all’educazione di coltivarle tutte allo stesso modo. Ma l’educazione stessa procede per mezzo della convinzione e della persuasione, così come per mezzo della coazione: ed è soltanto coi due primi mezzi che, una volta finita l’educazione, si dovebbero inculcare le virtù individuali. Gli uomini debbono vicendevolmente ajutarsi a distinguere il meglio dal peggio, e incitarsi a preferire il primo e ad evitare il secondo; essi dovrebbero stimolarsi continuamente ad un esercizio crescente delle loro più nobili facoltà, ad una direzione crescente dei loro sentimenti e delle loro vedute verso scopi, non più sciocchi ma saggi, non più bassi ma elevati. Ma una persona, o un certo numero di persone, non hanno diritto di dire ad un uomo di età matura che egli non saprà regolarsi nella vita secondo il proprio interesse, come meglio gli conviene. Il suo benessere riguarda, più di tutti, lui stesso; l’interesse che vi può porre un estraneo, non è nulla (tranne il caso di un vivo affetto personale) a confronto di quello ch’egli stesso vi pone; la maniera con cui egli interessa la società (salvo quanto alla sua condotta verso gli altri) è parziale e indiretta: mentre per tutto quanto spetta ai suoi sentimenti o alla sua condizione, l’uomo o la donna più comune sanno, infinitamente meglio di chiunque altro come comportarsi.
L’intervento della società per dirigere il giudizio e i disegni di un uomo in ciò che non riguarda che lui, si fonda sempre su presunzioni generali: ora queste presunzioni possono essere completamente false; fossero anche giuste, esse saranno probabilmente applicate a torto, nei casi particolari, da persone che non conoscono se non la superficie dei fatti. Per questo un tal ramo dell’attività umana è proprio degli individui. Per quanto riguarda la condotta degli uomini gli uni verso gli altri, l’osservanza delle regole generali è necessaria, affinchè ciascuno sappia che cosa deve aspettarsi; ma, quanto agli interessi particolari di ciascuna persona, la spontaneità individuale ha diritto di liberamente esercitarsi. La società può offrire ed anche imporre all’individuo delle considerazioni per facilitare il suo giudizio, delle esortazioni per rafforzare la sua volontà: ma egli solo ne è giudice supremo.
Egli può ingannarsi, non ostante gli avvertimenti e i consigli; ma il male è minore di quel che si farebbe lasciando che gli altri lo costringessero a proposito di ciò che ritengono suo vantaggio.
Io non voglio già dire che i sentimenti della societa verso una persona non debbano essere modificati dalle sue qualità o dai suoi difetti personali: questo non è nè possibile nè desiderabile. Se una persona possiede in un grado eminente le qualità che possono volgere al suo vantaggio, alla sua elevazione, e soltanto per questo degna d’ammirazione: si avvicina tanto più all’ideale della perfezione umana: se, all’incontro, queste qualità le mancano grossolanamente, si avrà per essa il sentimento opposto all’ammirazione. C’è un grado di sciocchezza e un grado di quella che si potrebbe chiamare (sebbene questo sia un punto contestabile) bassezza o depravazione di gusto, che, se non danneggia positivamente colui che lo manifesta, lo rende però necessariamente e naturalmente oggetto di repulsione ed anche, in certi casi, di disprezzo. Sarebbe impossibile, a chiunque possieda in tutta la loro forza le qualità opposte, di non provare di questi sentimenti. Senza nuocere ad alcuno, un uomo può agire in modo da obbligarci a considerarlo o uno sciocco, o un essere inferiore; e poichè questo modo di giudicarlo non gli farebbe gran piacere, gli si rende un servizio avvertendolo anticipatamente di questo come di ogni conseguenza sgradevole a cui egli si espone. Sarebbe ottima cosa davvero che la cortesia attuale permettesse di rendere più spesso un tal servizio, e che una persona potesse, senza passare per incivile o presuntuosa, dir francamente al proprio vicino ch’egli è in errore. Noi abbiamo anche il diritto di agire in vari modi, seguendo la nostra sfavorevole opinione su qualcuno, senza la minima offesa alla sua individualità, ma nel semplice esercizio della nostra. Noi non siamo obbligati, per esempio, a cercare la sua compagnia; noi abbiamo il diritto di evitarlo (non però in modo troppo visibile); perchè abbiamo il diritto di scegliere la società che meglio ne conviene; noi abbiamo il diritto, e forse anche il dovere, di metter gli altri sull’avviso contro questo individuo, se noi crediamo il suo esempio o la sua conversazione dannosa a quelli che egli frequenta; noi possiamo dare ad altri la preferenza per le spontanee cortesie, tranne se queste potessero tendere a migliorarlo. In questi modi diversi una persona può ricevere dagli altri delle severissime punizioni per difetti che riguardano direttamente lei sola: ma essa non subisce queste punizioni se non in quanto sono le naturali e, per così dire, spontanee conseguenze degli stessi difetti; non le s’infliggono a bello studio, con lo scopo di punirla. Una persona che mostra della precipitazione, dell’ostinazione, della boria, che non può vivere con un patrimonio ordinario, che non sa proibirsi delle soddisfazioni dannose, che corre al piacere animale, sacrificando ad esso il sentimento e l’intelligenza, deve aspettarsi d’essere molto in basso nell’altrui estimazione e di possedere una minima parte dell’altrui benevolenza. Ma di questo essa non ha diritto di lagnarsi, a meno che non abbia meritato il favore degli altri per la speciale eccellenza delle sue relazioni sociali e non si sia così creato un tale diritto alle loro cortesie, che essi non debbano occuparsi dei demeriti ch’ella ha verso di sè.
Quello che io sostengo è che gl’inconvenienti strettamente connessi col giudizio sfavorevole degli altri, sono i soli a cui debba essere sottomessa una persona per quella parte della sua condotta e del suo carattere che tocca il bene suo proprio, ma non gl’interessi degli altri nelle sue relazioni con essa. Ben diversamente vanno invece trattati gli atti dannosi agli altri. Se voi usurpate i loro diritti, se voi fate subire loro una perdita o un danno che i vostri propri diritti non giustificano; se voi, a loro riguardo, mostrate della falsità o della doppiezza; se voi vi servite contro di essi di vantaggi sleali o appena poco generosi ed anche se, per egoismo, vi astenete dal salvarli da qualche danno... voi meritate, ben a ragione, la disapprovazione morale e, in casi gravi, i rimproveri e le punizioni morali. E non soltanto questi atti, ma anche le disposizioni che vi conducono sono, per parlar propriamente, immorali, e meritano una disapprovazione che può divenire orrore.
La crudeltà naturale, la malizia e la malvagità, l’invidia — la più odiosa ed antisociale di tutte le passioni — la dissimulazione, la mancanza di sincerità, l’irascibilità, le bizze senza sufficiente motivo, la smania di dominare, il desiderio di accaparrarci più di quel che ci spetta (la πλεονεξία dei Greci), l’orgoglio che trova una soddisfazione nell’abbassamento degli altri, l’egoismo che pone sè e i propri interessi al di sopra di ogni altra cosa al mondo e decide in proprio favore qualunque dubbia questione: — ecco altrettanti vizi morali che costituiscono un’indole malvagia e odiosa; essi non rassomigliano in questo ai difetti personali prima ricordati, che non sono immoralità nel senso proprio della parola, e, per quanto eccedano, non costituiscono la malvagità. Questi difetti possono provare la sciocchezza o una mancanza di dignità personale o di rispetto di sè stesso, ma non sono soggetti a biasimo se non quando importano un oblio dei nostri doveri verso gli altri, pel bene dei quali l’individuo è obbligato ad aver cura di se stesso. Ciò che si chiama dovere verso noi stessi, non costituisce una obbligazione sociale, a meno che le circostanze non ne facciano un dovere verso gli altri; la espressione dovere verso sè stesso, quando significa qualcosa di più che prudenza, significa rispetto o sviluppo di sè stesso; e nessuno deve, in questo argomento, render conto ai suoi simili, perchè essi non vi sono interessati.
La distinzione tra il discredito a cui una persona giustamente si espone, ove gli manchi la prudenza o la dignità personale, e il rimprovero che le è dovuto per aver attentato ai diritti degli altri, non è puramente nominale: c’è una gran differenza e nei nostri sentimenti e nella nostra condotta verso una persona, a seconda ch’essa ne spiace nelle cose in cui noi riteniamo di potere a buon diritto controllarla o nelle cose in cui sappiamo di non avere tale diritto. Se essa ci spiace, noi possiamo esprimere la nostra antipatia e tenerci fontani da un essere come ci terremmo da una cosa che non ci garba; ma non ci sentiremo per questo in dovere di renderle dolorosa la vita: noi penseremo ch’essa sopporta già o sopporterà ben presto la pena del suo errore. Se essa si rovina la vita per un difetto di condotta, noi non desidereremo, proprio per questo, di rovinargliela anche di più: lungi dall’invocare sul suo capo una punizione, noi tenteremo piuttosto di alleviare l’espiazione che per essa incomincia, mostrandole il mezzo d’evitare o di guarire i mali che la sua condotta le sta per cagionare. Questa persona insomma può essere per noi oggetto di pietà o anche d’avversione, ma non d’irritazione o di risentimento: noi non la tratteremo come un nemico della società; il più che ci crederemo lecito commettere a suo riguardo sarà d’abbandonarla a sè stessa; se pure non interverremo con benevolenza, additandole i mezzi di guarire i mali ch’essa si è attirata con la sua condotta sregolata. Ma è tutto il contrario se questa persona abbia infrante le regole stabilite per la protezione, individuale o collettiva, dei suoi simili: allora le conseguenze funeste delle sue azioni ricadono non su di essa, ma sugli altri, e la società come protettrice di tutti i suoi membri deve reagire sul colpevole, infliggergli un castigo, e un castigo abbastanza severo, coll’intenzione espressa di punire. In un caso, la persona è un colpevole chiamato a comparire davanti al nostro tribunale: e noi siamo incaricati non solo di giudicarlo, ma anche di eseguire, in un modo o nell’altro, la sentenza da noi emanata; — nell’altro, noi non dobbiamo occuparci di punirla in modo diverso da quello che ne deriverà naturalmente se noi, per regolare i nostri propri affari, useremo della stessa libertà che accordiamo a lei per i suoi.
Molte persone rifiuteranno di ammettere la distinzione qui stabilita, tra la parte della condotta di un uomo che tocca soltanto lui e la parte che tocca gli altri. Ci si osserverà, forse: come una parte della condotta di un membro della società può essere indifferente agli altri membri? Nessuno è completamente isolato: è impossibile ad un uomo di fare qualcosa di seriamente o costantemente dannoso per sè, senza che il male si estenda per lo meno a quelli che gli stanno vicini e spesso a molti altri. S’egli mette in pericolo la sua fortuna, nuoce a quelli che direttamente o indirettamente ne traevano un sostentamento, e di solito diminuisce più o meno la ricchezza collettiva; s’egli guasta le sue qualità fisiche o morali, non fa soltanto danno a tutti quelli il cui bene dipendeva da lui, ma si rende incapace di compiere i suoi doveri verso il prossimo in generale; diviene forse un grave carico per l’altrui benevolenza o per l’affetto altrui, e, se una tale condotta fosse più frequente, poche colpe diminuirebbero di più la massa generale dei beni. In fine, ci si può dire, se una persona non cagiona agli altri un danno diretto coi suoi vizi o colle sue follie è non di meno perniciosa per l’esempio ch’essa dà, e dovrebbe esser costretta a frenarsi pel bene di quelli che la vista o la conoscenza della sua condotta potrebbero corrompere o traviare.
Ed anche — si aggiungerà — se le conseguenze della mala condotta fossero circoscritte agl’individui viziosi o poco riflessivi, la società potrebbe abbandonare a sè stessi quelli che evidentemente sono incapaci di guidarsi? Se la società, come tutti riconoscono, deve protezione ai bambini e ai minorenni, non ne deve forse allo stesso modo alle persone d’un’età matura che sono egualmente impotenti a governarsi da sè? Se il giuoco o l’ubbriachezza o l’incontinenza o l’ozio o l’oscenità sono ostacoli al bene ed al progresso altrettanto gravi che la maggior parte delle azioni dalla legge vietate, perchè la legge non tenterebbe, fin dove la cosa è possibile, di reprimere anche questi abusi? E per supplire alle inevitabili imperfezioni della legge, l’opinione non dovrebbe essa almeno organizzare una forte polizia contro questi vizi, e dirigere contro quelli che ne sono macchiati tutti i rigori delle penalità sociali? Non si tratta qui — ci dicono — di comprimere la individualità nè d’impedire che si provi qualche maniera di vivere nuova ed originale; le sole cose che si cerca d’impedire sono cose che furono già provate e, da che mondo è mondo, condannate: sono cose che l’esperienza ha dimostrato né utili nè convenienti all’individualità di alcuno. Occorre un certo lasso di tempo ed una certa quantità d’esperienza, perchè una verità di morale o di prudenza possa esser considerata come stabilita, e tutto quello che si desidera è d'impedire che le generazioni, l’una dopo l’altra, cadano nell’abisso che è stato fatale alle loro preceditrici.
Io riconosco pienamente che il torto che una persona si fa può seriamente danneggiare i suoi prossimi parenti nei loro interessi e nei sentimenti loro, e, in un grado minore, la società in generale. Quando da una tale condotta un uomo è trascinato a violare una obbligazione precisa ed accurtata verso uno o più altri, il caso cessa di essere personale e divien soggetto alla disapprovazione morale nel vero senso della parola. Per esempio, se un uomo, colla sua intemperanza o colla sua stravaganza, diviene incapace di pagare i suoi debiti, oppure, se, gravato della responsabilità di una famiglia, diviene per le stesse cagioni incapace di mantenerla e di allevarla, egli è giustamente disapprovato e può essere giustamente punito: ma questo non per la sua stravaganza, bensì per aver mancato a’ suoi doveri verso la famiglia o verso i creditori. Se il danaro che ad essi doveva essere consacrato fosse stato stornato per l’impiego più prudente, la sua colpevolezza morale sarebbe stata la stessa: Giorgio Barnwell uccise suo zio affine di aver danaro per l’amante; ma sarebbe stato impiccato ugualmente s’egli l’avesse fatto per istabilirsi negli affari.
Allo stesso modo, se un uomo, come spesso accade, procura alla famiglia dei dispiaceri col darsi a cattive abitudini, si può rimproverargli ben a ragione la sua malvagità o la sua ingratitudine; ma lo si potrebbe fare ugualmente, se si desse ad abitudini, punto viziose in sè, ma penose per quelli con cui passa la vita, o il cui benessere dipende da lui. Chiunque manca al rispetto generalmente dovuto agl’interessi e ai sentimenti degli altri, senza esservi costretto da qualche dovere più imperioso o giustificato da qualche lecita inclinazione, merita la disapprovazione morale per questa mancanza, ma non per la causa di essa, non per gli errori puramente personali che possono avervelo in origine condotto. E del pari, se una persona, per una condotta puramente egoistica, si rende incapace di adempire a qualche obbligo verso il pubblico, è colpevole di offesa sociale. Nessuno dovrebbe essere punito unicamente perchè ubbriaco, ma un soldato o un poliziotto debbono esser puniti se ubbriachi quando son di guardia. Insomma, dovunque c’è per un individuo o pel pubblico un danno preciso, o il preciso pericolo di un danno, il caso non appartiene più al dominio della libertà e passa a quello della moralità o della legge.
Ma quanto al danno semplicemente eventuale o, per dir così, imaginabile che alcuno può cagionare alla società senza violare alcun preciso dovere verso il pubblico e senza evidentemente colpire altri che sè stesso, la società può e deve sopportare questo inconveniente, pel bene superiore della libertà umana.
Se si debbono punire degli adulti perchè essi non vegliano, come si dovrebbe, su loro stessi, io vorrei lo si facesse per loro amore, e non sotto il pretesto ch’essi rendonsi incapaci di compiere certi doveri verso la società, quando questa non pretende al diritto di imporli loro; ma io non posso ammettere che la società non abbia altro mezzo di elevare i suoi membri più deboli al livello ordinario della condotta razionale fuor che attendere ch’essi abbiano agito in modo disonorevole e punirli allora, legalmente o moralmente. La societa ha avuto tutto il potere su di essi durante la prima parte della loro esistenza, ha avuto tutto il periodo dell’infanzia e della minore età per tentar di renderli capaci di condursi ragionevolmente durante la vita. La generazione presente è padrona dell’educazione e di tutto il destino della futura; in realtà essa non la può rendere perfettamente saggia e perfettamente buona, perché queste due qualità — bontà e saggezza — mancano in modo deplorevole a lei stessa; e i suoi più grandi sforzi, in molti casi particolari, non sono quelli coronati da esito più felice; ma la generazione presente è perfettamente capace insomma di rendere la generazione avvenire altrettanto buona ed anche un po’ migliore di essa.
Se la società lascia che un gran numero de’ suoi membri cresca in uno stato d’infanzia prolungata, incapace di sentir l’influenza di considerazioni razionali con cause un po’ remote, la colpa delle conseguenze ricade sulla società. Armata non soltanto di tutti i poteri della educazione, ma ancora della forza che qualunque opinione accetta all’universale esercita sui meno capaci di giudicare con la loro testa, ajutata dalle penalità naturali che chiunque si espone al disgusto o al disprezzo di quei che lo conoscono non riesce ad evitare, la società non deve pretendere, oltre a tutto questo, il potere di fare o d’imporre delle leggi relative agl’interessi personali degl’individui. Secondo tutte le regole di giustizia e d’utilità, la valutazione di questi interessi dovrebbe spettare a quelli che ne sopporteranno le conseguenze. Nulla tende maggiormente a screditare e a rendere inutili i buoni mezzi d’influire sulla condotta umana che l’aver ricorso ai peggiori; se vi è in coloro che si tenta di costringere alla prudenza o alla temperanza la stoffa di un carattere vigoroso e indipendente, essi senza dubbio alcuno si ribelleranno al giogo. Nessun uomo cosiffatto penserà che gli altri abbiano il diritto di sorvegliarlo nei suoi interessi, come hanno invece quello d’impedirgli di danneggiare i loro; e facilmente, da questo, si giunge a considerare come segno di forza e di coraggio il far fronte ad un’autorità così usurpata e l’eseguire con ostentazione precisamente il contrario di cio che essa prescrive. Così si videro, al tempo di Carlo II, dei costumi licenziosi succedere come una moda all’intolleranza morale nata dal fanatismo puritano. Quanto a quello che si dice della necessità di proteggere la società contro il cattivo esempio dato dagli uomini viziosi o leggieri, è vero che il cattivo esempio, sopratutto quello di nuocere impunemente agli altri, può avere un effetto pernicioso. Ma noi parliamo ora della condotta che, mentre non nuoce agli altri, si suppone dannosissima a chi la segue; ed io non vedo come, in questo caso, non si trovi l’esempio più salutare che dannoso, perchè, se esso mette in mostra la condotta cattiva, addita nello stesso tempo le conseguenze penose e degradanti che in generale, per mezzo di una censura giustamente applicata, finiscono coll’esserne l’espiazione.
Ma l’argomento più forte contro l’intervento del pubblico nella condotta personale è che, quando esso interviene, lo fa inconsideratamente. In questioni di moralità sociale o di dovere verso gli altri, l’opinione del pubblico (che e quanto dire di una maggioranza dominante) sebbene spesso falsa, ha qualche probabilità d’essere anche più spesso giusta, perché il pubblico è chiamato così a giudicare soltanto dei propri interessi e del modo con cui essi sarebbero danneggiati da una certa maniera di comportarsi, se questa fosse permessa; ma l’opinione di una tale maggioranza imposta alla minoranza come legge su questioni personali ha altrettanta probabilità di esser falsa quanto d’esser giusta. Infatti, in tali casi, le parole opinione pubblica significano tutt’al più l’opinione di qualche persona su ciò che per altre persone è buono o cattivo, e spessissimo non significano neppur questo, giacchè il pubblico con la più perfetta indifferenza trascura il piacere o la convenienza di quelli di cui biasima la condotta, e non ha riguardo che alle sue proprie inclinazioni. Molti ritengono un’offesa ogni condotta che, mentre eccita il loro disgusto, sembra loro un oltraggio ai loro sentimenti: come quel bigotto che, accusato di trattare con troppa indifferenza i sentimenti religiosi degli altri, rispondeva ch’erano gli altri a trattare con indifferenza i suoi, persistendo nelle loro abominevoli credenze. Ma non c’è alcuna identità fra il sentimento di una persona per la sua propria opinione e il sentimento di un’altra che si ritiene offesa dal veder professata questa opinione — più di quella che vi sia tra il desiderio di un ladro di prendere una borsa, e quello che prova il possessore legittimo di conservarla.
E il gusto di una persona è sua stretta proprietà appunto come la sua opinione o la sua borsa. È facile imaginare un pubblico ideale che lasci tranquilla la libertà e la scelta degl’individui per ogni cosa incerta, esigendo soltanto che si astengano da quei modi di comportarsi che l’universale esperienza ha condannati: ma dove si è veduto un pubblico porre tali limiti alla sus censura? Oppure, quando mai il pubblico si cura dell’esperienza universale? Il pubblico, intervenendo nella condotta personale pensa raramente ad altro fuor che all’enormità che vi è nel pensare ed agire diversamente da lui; e questo criterio appena mascherato, è presentato alla specie umana come il precetto della religione e della filosofia, dai nove decimi degli scrittori moralisti e speculativi. Essi c’insegnano che le cose sono giuste perchè sono giuste, perchè noi sentiamo che lo sono; ci dicono di cercare nel nostro spirito o nel nostro cuore le leggi di condotta che ci obbligano e verso noi stessi e verso gli altri. Che cosa può fare il povero pubblico, più di applicare questi insegnamenti e rendere obbligatori per tutti i suoi sentimenti personali di bene o di male, quando essi sono abbastanza unanimi?
Il male che qui si addita non esiste soltanto in teoria, e il lettore attende forse che io citi i casi particolari in cui il pubblico di questo secolo o di questo paese dà, a torto, il carattere di legge morale ai suoi capricci. Io non iscrivo un saggio sulle attuali aberrazioni del senso morale: ed è questo un soggetto troppo importante per essere discusso tra parentesi e come esempio illustrativo; non di meno sono necessari degli esempi per dimostrare che il principio da me sostenuto ha una seria importanza pratica e che io non cerco di far sorgere ostacoli contro mali imaginari. Non è difficile provare con esempi numerosi che una delle più universali tendenze della umanità è d’estendere i limiti di ciò che si può chiamare la polizia morale fino al punto in cui essa invade il campo delle libertà più sicuramente legittime dell’individuo.
Come primo esempio, vedete le antipatie che gli uomini nutrono a proposito di un motivo tanto frivolo come la differenza delle pratiche e sopratutto delle astinenze religiose. Per citare un caso un po’ triviale, nulla nella credenza o nel culto dei cristiani attizza di più l’odio dei musulmani contro di loro che il vederli mangiar carne di majale; poche azioni sono più antipatiche ai cristiani ed agli europei, di quello che questo modo di nutrirsi sia ai maomettani. E, prima di tutto, un’offesa verso la loro religione; ma questa circostanza non ispiega punto il grado o la forma della loro ripugnanza: perche il vino è pure proibito dalla loro religione, e, sebbene i musulmani trovino biasimevole bere del vino, non ne sono affatto disgustati.
La loro avversione per la carne della bestia sudicia porta all’incontro quel carattere particolare, simile ad una istintiva antipatia, che l’idea di sporcizia, quando sia penetrata ben addentro nei sentimenti, sembra eccitar sempre anche in quelli le cui abitudini personali non sono affatto di una proprietà scrupolosa. Il sentimento dell’impurità religiosa, così vivo presso gl’Indiani, ne è un notevole esempio.
Supponete ora che in un popolo in cui la maggioranza musulmana, questa maggioranza voglia proibire, in tutto il paese, che si mangi carne di majale: non vi è in questo nulla di nuovo per paesi maomettani1. Sarebbe un esercitare legittimamente l’autorità morale dell’opinione pubblica? No, dite voi: e perchè no? Questo costume è realmente disgustante per un tal pubblico: esso crede sinceramente che Dio lo proibisca e lo aborra. Non si potrebbe d’altro canto biasimare questo divieto come una persecuzione religiosa: sarà religioso nell’origine, ma non è una persecuzione per causa religiosa, perchè nessuna religione obbliga a mangiar carne di majale. Il solo motivo sostenibile per condannare un tal divieto sarebbe questo: il pubblico non ha nulla che vedere nei gusti e negli interessi personali degli individui.
Per parlar di cose a noi più vicine, la maggioranza degli Spagnuoli considera una grossolana empietà e la più grave offesa verso l’Essere Supremo il tributargli un culto che non sia quello dei cattolici romani, e sul suolo di Spagna non v’è altro culto tollerato. Per tutti i popoli del mezzogiorno d’Europa, un clero ammogliato è non soltanto irreligioso, ma impudico, indecente, rozzo, disgustante. Che cosa pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri e dei tentativi fatti per applicarli con ogni rigore a quelli che non sono cattolici?
Tuttavia, se gli uomini possono vicendevolmente turbare la propria libertà nelle cose che non toccano gli interessi degli altri, per quali principi si può logicamente escluderne questi casi d’intolleranza? O chi può biasimare della gente perchè vogliono distruggere ciò ch’essi considerano come uno scandalo innanzi a Dio e innanzi agli uomini? Non si possono aver ragioni migliori per vietare ciò che si ritiene una immoralità personale di quelle che, per sopprimere questi costumi, abbiano coloro i quali li considerano come empî; e, a meno che noi vogliamo adottar la logica dei persecutori e dire che noi possiamo perseguitare perchè abbiamo ragione, e che essi non devono perseguitare noi perchè hanno torto, dobbiamo ben guardarci dall’ammettere un principio, la cui applicazione, se si facesse a nostro carico, ci sembrerebbe una sì grande ingiustizia.
Si può, sebbene a torto, osservare che gli esempi precedenti sono tratti da eventualità impossibili nel nostro paese, perchè da noi l’opinione non giungerà fino ad imporre apertamente l’astinenza da certi cibi o a molestare la gente perchè segue questo o quel culto o perchè essa si ammoglia o no secondo le sue credenze e le sue tendenze: ebbene, l’esempio che segue sarà tratto da un attentato alla libertà di cui non è punto scomparso il pericolo.
Dovunque i puritani sono stati in forza sufficiente, come nella Nuova Inghilterra e nella Gran Bretagna al tempo della repubblica, hanno tentato, e con successo, di sopprimere i divertimenti pubblici e quasi tutti i privati, in ispecial modo la musica, la danza, il teatro, i giuochi pubblici o qualunque altra riunione a scopo di divertimento. Vi è ancora nel nostro paese un numero non indifferente di persone, le cui idee di religione e di moralità condannano queste ricreazioni; ora, poichè queste persone appartengono sopratutto alla classe media che ha oggi più influenza di qualunque altra nel nostro paese, non è punto impossibile che i seguaci di queste opinioni possano un dì o l’altro disporre di una maggioranza in parlamento. Che cosa dirà il resto della comunità vedendo i divertimenti ad essa permessi regolati dai sentimenti morali e religiosi dei calvinisti e dei metodisti più severi? Non intimerà, e molto risolutamente, a questi uomini così importunamente pii, di occuparsi degli affari loro? E precisamente quello che si dovrebbe dire a qualunque governo o pubblico avesse la pretesa di privare tutti quanti dei piaceri ch’esso condanna. Ma, se il principio su cui la pretesa si fonda è ammesso, non si può ragionevolmente opporsi a che la maggioranza o qualunque altro potere dominante nel paese lo applichi secondo le sue vedute; e ciascuno deve tenersi pronto ad adattarsi all’idea di una repubblica cristiana, quale la pensavano i coloni primitivi della Nuova Inghilterra, se una setta religiosa come la loro rioccupasse mai il terreno perduto, come han fatto spesso delle religioni che si credevano in decadenza.
Supponiamo ora un’altra eventualità che ha forse probabilità maggiore di esser mandata ad effetto. Tutti riconoscono nel mondo moderno una potente tendenza verso una costituzione democratica della società, sia poi essa accompagnata o no da instituzioni politiche popolari. Si dice che nel paese dove più prevale questa tendenza, negli Stati Uniti, dove si hanno la società ed il governo più democratico, il sentimento della maggioranza, a cui spiace qualunque modo di vivere troppo brillante o troppo dispendioso perchè essa possa sperar di uguagliarlo, fa abbastanza bene l’ufficio di una legge suntuaria; e vi sono, dicesi, molte parti dell’Unione, in cui una persona ricchissima può difficilmente trovar qualche modo di spendere la sua fortuna senza attirarsi la disapprovazione popolare. Sebbene, senza alcun dubbio, questo racconto esageri grandemente i fatti esistenti, tuttavia lo stato di cose ch’esso descrive non è soltanto concepibile e possibile; è il più probabile risultato delle idee democratiche alleate a questo concetto: che il pubblico ha diritto d’imporre il suo veto sul modo con cui gl’individui spendono le loro rendite. Ora noi non abbiamo che da supporre una notevole diffusione delle idee socialiste, e può divenire, agli occhi della maggioranza, infame il possedere qualcosa di più che una piccolissima proprietà o qualcosa di più che un salario guadagnato col lavoro manuale. Simili opinioni (almeno in principio) hanno già fatto grandi progressi nella classe operaja, e pesano in modo oppressivo sui suoi membri. Dirò una cosa molto nota: i cattivi operai (che sono in maggioranza in molti rami dell’industria) professano fermamente l’opinione ch’essi dovrebbero avere gli stessi salari dei buoni operai, e che non si dovrebbe permettere a nessuno, sotto pretesto di lavorare a cottimo o altrimenti, di guadagnare più degli altri, per la sua maggiore abilità o destrezza. Ed essi impiegano una polizia morale, che all’occasione diviene una polizia fisica, per impedire agli abili operai di ricevere e ai padroni di dare un compenso più grande ai servizi migliori. Se il pubblico ha la minima giurisdizione negli interessi privati, io non vedo qual sia la colpa di costoro, nè perché il pubblico particolare relativo ad un individuo possa meritare biasimo, quando pretende sulla costui condotta individuale il diritto preteso dal pubblico in generale sugli individui in generale.
Ma, per non fermarci alle ipotesi, oggi si invade grossolanamente il campo della libertà privata. Si minaccia di farlo anche di più con qualche probabilità di successo, e si predicano delle opinioni che rivendicano nel pubblico il diritto illimitato di proibire colla legge non soltanto tutto quello che esso trova cattivo, ma anche, per colpire più sicuramente quello ch’egli crede tale, molte cose che riconosce innocenti.
Sotto pretesto d’impedire l’intemperanza, si è vietato per legge a tutta una colonia inglese e a quasi una metà degli Stati Uniti di servirsi delle bevande fermentate altrimenti che come medicine; perchè, in realtà, vietarne la vendita, è proibirne l’uso; e del resto lo si comprendeva bene così. E sebbene l’impossibilità di eseguire la legge l’abbia fatta abbandonare dalla maggior parte degli Stati che l’avevano adottata, compreso quello che le aveva dato il nome, tuttavia molti dei nostri dichiarati filantropi hanno tentato e tentano di continuo di ottenere una legge simile nel nostro paese. L’associazione o alleanza, come essa si chiama, che si è formata a questo scopo, ha avuto della notorietà per la pubblicità data ad una corrispondenza tra il suo segretario e un uomo di Stato, appartenente al piccolo numero di quelli che in Inghilterra credono che le opinioni di un personaggio politico debbano basarsi su principi. La parte che lord Stanley ha preso in questa corrispondenza rafforzerà le speranze che già aveva concepite su di lui chiunque sa quanto le qualità di cui egli, a più riprese, ha dato pubbliche prove siano rare presso i militanti nella politica. L’organo dell’Alleanza «condanna altamente qualunque principio che possa servire a giustificare il fanatismo e la persecuzione» e si prova a dimostrarci «la barriera assolutamente insuperabile» che divide questi principi da quelli dell’associazione. «Tutte le materie relative al pensiero, all’opinione, alla coscienza, mi sembrano — dice — al di fuori del dominio legislativo. Le cose soltanto dice che appartengono alla condotta sociale, ai costumi, alle relazioni mi sembrano soggette ad un poter discrezionale posto nella legge e non nell’individuo.»
Qui non si fa alcuna menzione d’una terza classe di atti diversa dalle due ricordate: le azioni e le abitudini non sociali ma individuali, quantunque a questa classe appartenga senza dubbio il bere liquori fermentati. Ma mi si dirà che vendere bevande fermentate è commerciare, e che commerciare è un atto sociale.
Ancora, noi ci lagniamo d’una limitazione illecita delle libertà non del venditore, ma del compratore e del consumatore, perchè lo Stato potrebbe allo stesso modo proibirgli di bere del vino che rendergli impossibile di procurarselo. Tuttavia il segretario continua: «Io esigo come cittadino il diritto di fare una legge dovunque l’atto sociale d’un altro invade il campo dei miei diritti sociali.» Ed ecco la descrizione di questi diritti sociali: «Se qualcosa vi è che invada questo campo, è, senza dubbio alcuno, il commercio dei liquori spiritosi. Esso distrugge il mio fondamental diritto di sicurezza, creando e stimolando continuamente disordini; viola il mio diritto d’eguaglianza, con lo stabilire dei profitti che creano una miseria per sollevar la quale si fa contribuire anche me; annulla il mio diritto ad un libero sviluppo intellettuale e morale, circondandomi di pericoli e indebolendo e rendendo immorale la società, da cui ho diritto di esigere ajuto e soccorso.» Tale sistema dei diritti sociali, che giammai senza dubbio era stato così nettamente formulato, si riduce, in sostanza, a questo: diritto sociale assoluto per ciascun individuo di esigere che tutti gli altri agiscano in ogni cosa precisamente come dovrebbero: chiunque manca menomamente al suo dovere, viola il mio diritto sociale e mi dà ragione di chiedere alla legge un rimedio a questo male. Un principio così mostruoso è infinitamente più pericoloso che qualunque isolata usurpazione a danno della libertà; non v’è violazione di questa che con esso non si possa giustificare. Esso non riconosce nessun diritto a nessuna libertà salvo forse quella di professare in segreto delle opinioni senza palesarle mai; perchè dal momento che alcuno emette una opinione che io considero dannosa, viola i diritti sociali dall’Alleanza riconosciutimi. Questa dottrina accorda a tutti gli uomini vicendevolmente un interesse determinato nella loro perfezione morale, intellettuale e persino fisica, che ciascun d’essi deve definire secondo il proprio criterio.
Un altro esempio notevole di violazione della giusta libertà dell’individuo, che non è una semplice minaccia, ma una pratica dominante ed antica, è la legislazione del riposo festivo. Senza dubbio alcuno, astenersi dalle occupazioni ordinarie un giorno la settimana, per quanto lo concedono le esigenze della vita, è un’abitudine altamente salutare, sebbene non sia un dovere religioso che per gli Ebrei. E poichè questo costume non può essere osservato senza il consenso generale delle classi operaje, e qualcuno lavorando potrebbe imporre agli altri la necessità di fare lo stesso, è forse ammissibile e giusto che la legge garantisca a ciascuno l’osservanza generale dell’abitudine sospendendo in un dato giorno le principali operazioni dell’industria. Ma questa giustificazione, fondata sul diretto interesse che hanno gli altri o che ciascuno segua tale costume, non si applica alle occupazioni che una persona si sceglie da sé e a cui crede conveniente dedicare le sue ore d’ozio; aggiungo che non si applica menomamente di più alle restrizioni legali imposte ai divertimenti. E vero che il divertimento di qualcuno può essere, nel giorno di festa, il lavoro di qualche altro; ma il piacere, per non dire l’utile ricreazione d’un gran numero, val bene il lavoro di qualcuno, purché l’occupazione sia scelta liberamente e possa essere liberamente abbandonata. Gli operai hanno perfettamente ragione di pensare che se tutti lavorassero la domenica, si darebbe il lavoro di sette giorni pel salario di sei: ma dal momento che la gran massa delle operazioni è sospesa, quel piccolo numero di persone che deve continuare il lavoro pel piacere degli altri, ottiene un proporzionale accrescimento di salario e nessuno è obbligato a continuare nelle sue occupazioni se preferisce il riposo al guadagno. Chi voglia cercare un altro rimedio, lo potrà trovare nello stabilire un giorno di vacanza durante la settimana per queste classi speciali di persone. Per giustificare adunque le restrizioni poste ai divertimenti della domenica, bisogna confessare che essi sono riprovevoli dal punto di vista religioso — un motivo di legislazione contro di cui non si protesterà mai abbastanza. «Deorum injuriae Diis curae.» Resta a stabilire che la società, o qualcuno dei suoi funzionari, abbia ricevuto di lassù l’incarico di vendicare qualunque supposta offesa alla potenza suprema, che non sia anche un torto fatto ai nostri simili. L’idea che è dovere dell’uomo rendere religioso il suo prossimo fu la causa di tutte le persecuzioni religiose che mai siano state ordinate; e, se fosse ammessa, le giustificherebbe pienamente. Quantunque nel sentimento che si rivela coi tentativi spesso ripetuti d’impedire alle ferrovie di far servizio, ai musei d’essere aperti la domenica, ecc., non vi sia la crudeltà degli antichi persecutori; tuttavia v’è l’indizio, di uno stato di spirito assolutamente identico a quello. E la decisione di non tollerare negli altri quello che la loro religione permette, ma che la religione del persecutore vieta; è la persuasione che Dio non soltanto detesta l’atto del miscredente, ma non avrà per innocenti neppur noi, se permettiamo che si commetta.
Io non posso astenermi dall’aggiungere a queste prove del poco conto in cui generalmente è tenuta la libertà umana, il linguaggio di franca persecuzione che la stampa del nostro paese si lascia sfuggire tutte le volte che deve rivolger la sua attenzione sul notevole fenomeno del mormonismo. Si potrebbe parlare a lungo assai su questo fatto inatteso e pieno d’insegnamenti che una pretesa rivelazione e una religione la quale su questa base riposa (ciò è quanto dire il frutto di una evidente impostura, che non è neppur sostenuta dal fascino di alcuna qualità straordinaria nel suo fondatore) è oggetto di fede per moltitudini ed è stato il fondamento di una società, nel secolo dei giornali, delle ferrovie e dei telegrafi. Quello che ci riguarda si è che questa religione, come molte altre e migliori, ha i suoi martiri; che il suo profeta e fondatore fu mandato a morte in una sommossa a causa della sua dottrina, e che molti fra i suoi seguaci perdettero allo stesso modo la vita; che la loro setta fu espulsa dal paese ov’era nata e che ora, mentre essa è stata cacciata in un solitario rifugio, in mezzo ad un deserto, molti inglesi dichiarano apertamente che sarebbe bene (solamente non sarebbe comodo) fare una spedizione contro i Mormoni ed obbligarli colla forza ad accettare opinioni diverse. La poligamia adottata dai Mormoni è la cagion principale di questa antipatia contro le loro dottrine, con cui si violano così le leggi della tolleranza religiosa; la poligamia, sebbene permessa ai Maomettani, agl’Indiani, ai Chinesi, sembra eccitare una implacabile animosità quando è praticata da gente che parla inglese e che dice di essere una specie di cristiani. Nessuno può disapprovare più energicamente di me questa istituzione dei Mormoni: ciò per molte ragioni, e fra le altre perchè, lungi dall’essere basata sul principio di libertà, essa ne è una diretta violazione poichè non fa che rafforzare le catene di una parte delle collettività ed esimere l’altra da ogni reciprocità di obblighi. Tuttavia, conviene ricordare che questa relazione è tanto volontaria da parte delle donne che ce ne sembrano le vittime, quanto qualunque altra forma dell’instituzione del matrimonio; e del resto, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, essa ha la sua spiegazione nelle idee e nelle abitudini generali del mondo: si insegna alle donne a considerare il matrimonio come l’unica cosa necessaria: ed è ben naturale così che molte di esse preferiscano sposare un uomo che ha parecchie altre mogli, a non maritarsi del tutto. Non si domanda ad altri paesi di riconoscere tali unioni o di permettere che una parte dei loro cittadini abbandoni la legge nazionale per seguir la dottrina dei Mormoni; ma quando dei dissidenti hanno concesso ai sentimenti ostili dei loro avversari assai più di quello che si potesse, in istretta giustizia, esigere, quando essi hanno abbandonato i paesi che non potevano tollerare le loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto angolo della terra, che sono stati i primi a rendere abitabile, e difficile scorgere secondo quali principi (salvo quelli della tirannia) si possa impedir loro di viverci come loro garba, purchè essi non commettano aggressioni contro altri paesi, e lascino ai malcontenti la piena libertà di andarsene. Uno scrittore moderno di merito, per qualche rispetto notevole, propone (usiamo le sue parole) una spedizione non di crociati, ma di pionieri della civiltà contro questa comunità politica, per metter fine a ciò che a lui sembra un passo addietro nel cammino del progresso. Io penso la stessa cosa — ma non credo che alcuna comunità abbia diritto di forzare un’altra ad essere civile. Dal momento che le vittime di una legge cattiva non invocano i soccorsi di altre comunità, io non posso ammettere che persone completamente estranee abbiano il diritto di esigere la cessazione di uno stato di cose che pare soddisfaccia tutte le parti interessate, soltanto perchè si tratta di uno scandalo per gente lontana qualche migliajo di miglia, e perfettamente al di fuori della questione. Spedite loro, se vi pare cosa buona, dei missionari, che predichino sull’argomento, ed impiegate tutti i mezzi leali (fra cui non è quello d’imporre silenzio ai novatori) per impedire nel vostro paese il progresso di tali dottrine. Se la civiltà ha prevalso sulla barbarie, quando la barbarie dominava il mondo incontrastata, è eccessivo temere che la barbarie, sconfitta una volta, possa rivivere e riprendere il predominio sulla civiltà. Una civiltà, che potrebbe soccombere così davanti al suo nemico già sbaragliato, deve essere talmente degenerata che nè i suoi sacerdoti nè i suoi institutori ufficiali nè alcun altro abbiano la capacità o si vogliano dar l’incomodo di difenderla. Se così è, quanto più da questa civiltà si sarà lontani, tanto meglio: essa non può se non proseguire di male in peggio, finchè sia distrutta e rigenerata (come l’impero d’Occidente) da più energici barbari.
fine del capitolo quarto.
Note
- ↑ Il caso dei Parsi di Bombay è un curioso esempio di questo fatto. Quando questa tribù industriosa e intraprendente, che discendeva dai Persiani, adoratori del fuoco, abbandonando il proprio paese all’invasione musulmana, arrivò nell’ovest dell’India, vi fu tollerata dai principi indiani a patto di non mangiare carne di bue. Quando, in seguito, queste regioni caddero sotto il dominio dei conquistatori maomettani, í Parsi ottennero che la tolleranza continuasse a patto di astenersi dalla carne di majale. Ciò che in origine era sommessione divenne una seconda natura; e i Parsi non mangiano, neppur oggi, nè carne di bue, nè carne di majale. Sebbene la loro religione non lo esiga, la doppia astinenza ha avuto il tempo di entrare nei costumi della loro tribù, e in Oriente il costume è una religione.