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discontinua, varia e strana, quando in un praticello solingo, che si occultava dalla strada dietro l’abside della chiesa (e si elevava nel mezzo una gran croce nera di legno con iscritto su di uno svolazzo bianco I. N. R. I.), vidi una giovane donna, appoggiata alla bicicletta; quella che non sapeano «dove fosse rimasta», cioè Imperia, la marchesina ciclista.

In quel praticello una famiglia di zingari, che percorrevano in qualità di calderai la nostra contrada, aveva piantata la tenda. Il sudiciume di molte terre peregrinate, il sole e le piogge di vari climi avevano deposto una specie di vernice, un impermeabile protettore su quelle carni, su quei volti, dove brillavano pupille ardenti, torve, rapaci. Due fieri cani da guardia guatavano, meno fieri di quelle pupille umane.

La giovane nobile donna parlava con loro domesticamente. Anche lei bruna, alta, superba nelle membra. Bella? Non so, non vidi. Già cadeva la sera: bella e audace la figura. Un torso amazzonio si scopriva sotto la camicetta sciolta; un fine piede, sollevando la gonna succinta, posava sul pedale della lucida macchina: ma gli occhi erano di una bellezza imperscrutabile e nera.

— ....a Belgrado, lo scorso anno, eravamo, — diceva lo zingaro seguitando.