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luce. Su questa luce il gran pittore del mondo infondeva ardenti tinte di croco e d’oro, preparando la tavolozza del vespero: su quell’ombra sorvolò un brivido di frescura, che si propagò per le erbe e per le chiome dei tamarischi, onde parevano svegliarsi.

Le lunghe orecchie dell’asino declinavano sempre più e parevano due indici dell’interminabile tempo. Ma se le erbe si erano svegliate, nessuno dei tre si svegliò: nessun rumore umano diede segno all’intorno che il tempo sonnolento della siesta fosse per finire.

Sull’alto dell’organetto i due fantoccini che si muovono a tondo al muoversi del manubrio e battono sui timpani i martelletti metallici, parevano attendere l’ora del loro ballo. Con quanta gioia i bambini accorrono per vedere quei due fantocci meccanici; con quanta gioia le ragazze accorrono al martellare dell’organetto! Ma sì: io ho mandato al diavolo il vagabondo organetto e i fastidiosi fantocci. Però pensiamoci bene: io non gioisco più di quei suoni, perchè la mia giovinezza è finita, e sono tanto poco sapiente da inveire contro quelli che di quel suono fanno festa. Noi conciamo a morire un poco per volta inavvertitamente, e questo lento morire, questo atrofizzarsi ed involversi dei sensi ingenui della gioia noi talora chiamiamo sapienza.

Panzini. La lanterna di Diogene. 10