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La giovinezza - XVII. Le lezioni di grammatica

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XVII

LE LEZIONI DI GRAMMATICA

Parecchi anni ero stato a leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Basilio Puoti. Leggevo come si fa un dizionario, cercando quella pagina dove, secondo l’ordine, doveva esserci la tal regola o la tale eccezione o la tale osservazione. Quella tanto sudata grammatichotta era giá uscita in luce; ma io non ristetti da quella lettura, anzi, cessato il bisogno, mi ci misi dentro per ordine dall’a. alla zeta, tirato da una specie di febbre, che non mi dava tregua né distrazione. Leggevo le pagine piú noiose come si fa d’un romanzo. Cosi mi messi in [p. 88 modifica]corpo i Dialoghi della volgar lingua di Pietro Bembo, durando alla fatica di quei caratteri barbari, gotici, abbreviati, minuti che mi stancavano gli occhi. E così m’inghiottii il Varchi, il Fortunio e i sottili Avvertimenti del Salviati e la prosa dottorale del Castelvetro e il Bartoli e il Cinonio e l’Amenta e il Sanzio e non so quanti altri autori, con approvazione del marchese Puoti, il quale mi vantava sopra tutti gli altri il Corticelli e il Buommattei. Quando avevo finito un libro, ne pigliavo subito un altro, senza domandarmi: «Che sugo ne ho cavato?» Del libro letto mi rimanevano notizie varie, alcune preziose e interessanti, ma niente di concorde e di sistematico. Quelle notizie erano cacciate via dalle più fresche, e le più lontane talora non mi apparivano più che come un barlume.

Tutta quella parte che riguardava le origini della lingua e delie forme grammaticali, destò in me sul principio la più viva curiosità; ma presto me ne seccai, perché quelle etimologie arbitrarie e contraddittorie e quelle congetture avventate non avevano fondamento sodo, né davano adito a ricerche ulteriori, che rendessero interessante quello studio. Le ricerche supponevano che si potesse andare al di là della coltura classica; ma per me, come per quegli autori, al di là non c’era che buio. Dell’Oriente a me era noto tutto quello che avevo potuto leggere nelle storie; ma delle lingue, delle tradizioni, delle religioni, della filosofia sapevo poco meno che niente. A me parve dunque tutto quel lavorio intorno alle etimologie e alle origini cosa vana; e con la leggerezza e la presunzione di quella età, spesso me ne prendevo gioco. Quelle derivazioni dal greco o dall’ebraico o da non so dove, fondate sopra un certo scambio di vocali o di consonanti, mi parevano un gioco di bussolotti. Quelle discussioni eterne sull’origine della lingua toscana o italiana mi annoiavano fieramente. Quel pullulare perpetuo di regole e di eccezioni mi stancava, e tutte quelle dissertazioni sottili e cavillose sulle parti del discorso e sulle forme grammaticali mi annuvolavano il cervello. Lascio stare le canzonature dei compagni, che a vedermi quelle cartapecore in mano, affumicate dal tempo, mi chiamavano un antiquario. E Gabriele Capuano mi diceva: — Basta [p. 89 modifica]ora con le anticaglie, ne sai abbastanza — . Certo, se io mi fossi dato a quegli studi e li avessi seguiti con tenacitá, sarei riuscito un gran deciferatore di manoscritti e di papiri, ché ci avevo pazienza e buon occhio. Ma la vanità mi prese. Mi sentivo rodere quando mi chiamavano «il grammatico». Quella collaborazione col Puoti mi aveva impedantito agli occhi di molti. Le lodi che si facevano a Gatti, a Cusani, ad Ajello, che per gli studi filosofici erano in candeliere, mi davano una inquietudine, di cui non avevo coscienza chiara, ma che pur sentivo nelle ossa. Mi venivano nella memoria i miei antichi studi di filosofia, e quei Salviati e quei Castelvetri mi parevano addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, mia delizia un giorno g mio amore. Perciò mi gettai con avidità sopra i retori e i grammatici del secolo decimottavo, con un segreto che mi cresceva l’appetito, vedendomi sempre addosso gli occhi del Marchese. Lessi tutto il corso che Condillac aveva compilato a uso di non so qual principe ereditario. Studiai molto Tracy e Dumarsais. Il Marchese, saputo dei miei studi, mi perdonò, a patto che non valicassi i confini della grammatica, e m’indicò un tale, che ora non ricordo, come un buon scrittore di grammatica generale. Io leggeva tutto, il buono, il cattivo e il mediocre, grammatiche ragionate, filosofiche e comparate. Quel cinquecentisti mi facevano stomaco; mi ribellai contro l’antico me, chiamando pedanteria tutto quello che due anni prima mi pareva l’apice del sapere: De Stefano e Rodinò mi si erano impiccoliti, e montai in superbia, e presi aria di filosofo. Cosi ero fatto io, quando il Marchese mi diede a scozzonare quella brava gioventù. Il mio scopo doveva essere di apparecchiare i giovani alla scuola del Puoti; doveva essere una scuola preparatoria; ma quando mi sentivo lontano dagli occhi del Marchese, mi si scioglieva la lingua, e mi abbandonavo sfrenatamente al mio genio, e davo del pedante a dritta e a manca, e avevo sempre in bocca la Scienza.

Tra i miei scartafacci pescai un giorno alcune prolusioni di quel tempo, delle quali diedi molti brani nei nuovi Saggi critici. Il Marchese le avea rivedute, e ci aveva messo quello stampo tutto suo di classicità ideale. Ivi io me la prendo contro [p. 90 modifica]i pedanti con una stizza ridicola, e abbozzo l’immagine di una grammatica storica e filosofica, pigliando le mosse da un concetto di Quintiliano, e ribattendo il Sanzio, ch’io chiamavo il Cartesio dei grammatici. Quella tale grammatica tipica io chiamava grammatica metodica; e volevo dire che non doveva essere una lista di esempi e di regole e di osservazioni infilzate l’una all’altra, ma una vera scienza posta sopra saldi principii, con quel chiaro ordine, con quel filo segreto, che ti conduce dall’un capo all’altro, quasi per mano. Ivi prendo l’aria di un novatore, e trovo che tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come mi venne in quei giorni sotto la penna. «Niuna pratica dell’arte dello scrivere; niuna cognizione de’ nobili nostri scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori...; in malvagio stato trovasi la sintassi; squallida e incerta è l’ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal ferme; niente di certo, niente di determinato intorno alla dipendenza de’ tempi, al reggimento delle congiunzioni; principii opposti; opinioni contrarie.» Io avevo l’aria di voler riformare il genere umano, e parlavo alto e sicuro. Non ci è cosa che possa tanto sui giovani quanto questo tono sicuro d’imberbe. Fanno subito coro, e predicano il verbo, e propagano la fede. Acquistai autorità sui discepoli, e l’impressione fu durevole, perché, con quel fine fiuto dei giovani, sentivano che in quelle lezioni io ci mettevo tutto me, ed ero sincero, e non c’era ciarlataneria, e serbava modestia e naturalezza. Quando nell’uomo c’è l’attore, presto o tardi vengono i fischi; ma l’uomo sincero e modesto non perde mai prestigio. C’era in me una contraddizione palpabile tra l’audacia delle opinioni e la cera bonaria e modesta: l’una mi attirava gl’intelletti, l’altra mi procurava la fede. Io, arditissimo nei concetti, non mi tenevo da più di nessuno dei miei discepoli; anzi mi sentivo loro compagno e uno con loro, e non mettevo nessuna cura a velare i miei lati deboli; mi mostravo tutto al naturale, e mi piaceva di stare in loro compagnia e spassarmi insieme con loro. Cosi nacque quella parentela spirituale che non si ruppe mai più, e che anche oggi m’intenerisce, [p. 91 modifica]quando qualcuno di quei giovani mi viene innanzi alla mente.

Le mie prime lezioni furono una storia della grammatica. Volevo fare una storia delle forme grammaticali; ma al pensiero gigantesco mal rispondeva la cultura, attesa la mia scarsa grecità, e l’ignoranza delle cose orientali. Potevo rimediare con quei libri allora in moda, pieni di tante chiacchiere sulle cose greche e d’Oriente; ma queste generalità vuote non mi sono piaciute mai, né farmi bello delle altrui penne mi è mai entrato in capo. A scrivere e a parlare mi era necessario non solo che la materia fosse a me ben nota, ma che la studiassi io quella materia, e la facessi mia. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a Vico ed a Schlegel, si ridusse nei modesti confini di una storia dei grammatici da me letti. Non è già ch’io m’occupassi della loro vita e delle minime particolarità dei loro libri. Fin d’allora la mia mira era al centro, cioè all’idea principale e dominante, lasciando da parte tutto il secondario e l’accessorio. Non parlavo di un libro che non l’avessi studiato io medesimo; e il mio costume era, letto il libro, metterlo da parte, e pensarci su passeggiando e almanaccando. Parlai dei grammatici che tutto derivavano dal latino. Poi venni a quelli che erano studiosi della lingua, copiosi di regole e di esempli, che moltiplicavano in infinito. Molto m’intrattenni sul Corticelli, sul Buommattei, sul Salviati e sul
Daniello Bartoli
. Tutto era nuovo, autori, libri, giudizi. Le mie censure erano senza pietà e senza riguardo. Censuravo quel moltiplicare infinito di casi e di regole che si riducevano in pochi principii; quella tanta varietà di forme e di significati (massime nel Cinonio), che era facile ricondurre ad unità. Facevo ridere, pigliando ad esempio l’a, il per, il da, irti di sensi e che pur non avevano che un senso solo. La mia attenzione andava dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee; sicché, sotto a quelle apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, io vedeva una logica animata, e tutto metteva a posto, in tutto discerneva il regolare e il ragionevole, non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, corroborata da studi vecchi e nuovi, io conciavo pel dí delle feste i cinquecentisti [p. 92 modifica], e facevo lucere innanzi alla gioventùuno schema di grammatica filosofica e metodica, quale appariva negli scrittori francesi. Dicevo che costoro erano eccellenti nell’analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e primitive: così amo vuol dire io sono amante. La ellissi era posta da loro come base di tutte le forme di una grammatica generale. Questo non mi contentava che a mezzo. Io sosteneva che quella decomposizione di amo in sono amante m’incadaveriva la parola, le sottraeva tutto quel moto che le veniva dalla volontà in atto. I giovani sentivano quei giudizi acuti con raccoglimento, e mi credevano in tutta buona fede quell’uno che doveva oscurare i Francesi e irradiare l’Italia di una scienza nuova.

E in verità io sosteneva che la grammatica non era solo un’arte, ma ch’era principalmente una scienza: era o doveva essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, era per me ancora un di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche era una protesta contro la pedanteria passata, e voleva dire che non bastava dare le regole, ma che di ciascuna regola bisognava dare i motivi o le ragioni. Paragonavo i grammatici o accozzatoli di regole agli articolisti, che credevano di sapere il Codice, perché si ficcavano in capo gli articoli, parola per parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non era ancora la scienza. Certo era un progresso, e io ne dava lode ai nostri del Cinquecento e ai Francesi, i quali ponevano la spiegazione della regola ora nella derivazione da lingue precedenti, ora nell’uso dei buoni scrittori, e ora nell’uso vivo del popolo, e così ne tiravano notizie utili e ragioni plausibili. Ma questo agli occhi miei era una storia, non una scienza; e cercavo la scienza al di sotto delle forme, nel movimento immutabile delle idee, dei giudizii e del discorso. Cosi trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica; e finché mi tenevo nei termini generalissimi di una grammatica unica, come la concepiva Leibnitz, il mio favorito, la mia corsa andava bene. Ma mi cascava l’asino, quando veniva alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto con la logica, e originate da una storia [p. 93 modifica]naturale o sociale, piena di varietà e poco riducibile a principii fissi. Per trovare in quella storia la scienza, si richiedeva altra cultura e altra preparazione. Nella mia ricerca dell’assoluto, avrei voluto ridurre tutto a fil di logica, e concordare insieme derivazioni, scrittori e popolo; ma, non potendo sopprimere le differenze e guastare la storia, ponevo l’ingegno a dimostrare la conformità del fatto grammaticale con la logica, della storia con la scienza. Chi vinceva avea sempre ragione; e coi più sottili argomenti dimostravo la ragione della vittoria.

Anche nel metodo volevo la scienza; e metodo scientifico era non l’arbitrario succedersi delle cose, secondo i preconcetti di questo o di quello, ma la cosa stessa nel suo movimento naturale. Io voleva una sintesi provvisoria, per darmi il piacere di decomporla e procedere analiticamente e riuscire poi ad una composizione definitiva. La mia sintesi provvisoria era il discorso di cui davo una spiegazione intuitiva, esponendone le parti in un gran quadro sinottico. Poi, biasimando quel rilegare in ultimo l’ortoepia, e l’ortografia, io cominciavo dalle sillabe e dalle parole, in quanto sono pronunziate e scritte, salvo l’interpunzione, ch’era l’ultimo capitolo della mia grammatica. Indi le parole erano analizzate secondo il loro contenuto, sostanze, accidenti, modificazioni, alterazioni, e parecchie cose nuove mi uscivano dette intorno agli articoli, a’ pronomi, agli avverbi, alle preposizioni, alle congiunzioni. Mi ricordo di un quadro, nel quale andavo significando tutti i movimenti intellettuali e materiali, e vi sottordinavo tutte le preposizioni, che parve cosa nuova e mirabile. L’ellissi rappresenta una gran parte in queste analisi, e così spiegai tutte le interiezioni, non dimenticando mai di ricomporre e dare il significato vivo della parola, dopo di averla decomposta e trovato il suo senso logico. Quando questo lavoro anatomico era compiuto, compariva in ultimo il verbo, come il principio della vita o del moto, che metteva in azione tutto quell’organismo. Inselvato in quel ginepraio di tempi, di modi e di verbi irregolari, aguzzando l’ingegno in ridur tutto a regola e a logica, uscivo tutto affannoso alla riva, e ritrovavo la sintassi. E qui le stesse pretensioni. Io non ammetteva la irregolarità [p. 94 modifica]e le eccezioni, e pretendeva che il mondo andasse sempre diritto: altrimenti, dov’era la scienza? Se allora avessi conosciuto Hegel, avrei battezzato per accidente tutto quello ch’era fuori della scienza; ma non ero abbastanza ingegnoso, e volevo per forza tirare nei confini della scienza tutti i fatti grammaticali. Non ammetteva che la sintassi fosse una parte distinta della grammatica. Col mio metodo genetico, io la faceva uscire naturalmente dalle analisi fatte, ricomponendo per virtù del verbo, e passando, con moto celere e trionfante, alle proposizioni, ai periodi e al discorso. La mia grammatica era un andare su su dalle parti più semplici verso il discorso, il grande risultato della scienza, il principio e il fine. Di questa grammatica non mi è rimasta che una vaga reminiscenza. I giovani facevano un sunto delle lezioni, e un sunto da me corretto era il libro della scuola, come lo si chiamava. Uno di questi sunti mi è venuto alle mani, per gentilezza del signor Tagliaferri, allora mio discepolo. Poco ci ho capito; già con questi occhi malati poco capir posso. Oh! come questi sunti mi paiono pallidi dirimpetto a quelle lezioni nelle quali compariva tutta l’anima. Avevo preso per costume di non ripetere mai un corso, e perciò quella grammatica rimase boccheggiante così come era stata abbozzata una volta, uno schizzo più che un disegno finito, rimasto li in aria, mentre io, incalzato da nuove aspirazioni, metteva mano ad altri lavori. Pure, fu tanto l’entusiasmo grammaticale mio e dei giovani miei, che moveva quasi il riso, e ci chiamavano per ischerno i grammatici, come chiamavano linguaiuoli o frasaiuoli gli scolari del Puoti. La grammatica non s’insegnava che ai bimbi, e mi biasimavano che insegnassi grammatica a giovani fatti. — Ma c’è o non c’è una scienza della grammatica?— strillava io inferocito e con molti gesti. — E questa grammatica generale, comparata, filosofica a chi la insegnerete voi? Ai bimbi no di certo. Non è a lamentare che nei quadri universitari non ci sia la grammatica generale?

In verità, io era il solo che insegnassi una grammatica di quella fatta, e se molte osservazioni erano più sottili che vere, se il metodo era forzato, se il contenuto era monco, se quella [p. 95 modifica]costruzione temeraria avea dell’affrettato e dell’imperfetto, se molte di quelle cose non attecchivano e non lasciavano orma, certo è che, fatta a quel modo, svegliava e alzava l’ingegno. Quel disprezzo delle apparenze; quel guardare di sotto alle forme; quel pigliare per punto fermo il contenuto, il pensiero, il significato; quei conati dietro all’unità,, cercando il simile e il regolare in quel mare d’irregolarità e di eccezioni; quel continuo esercizio di composizione e scomposizione rinvigoriva gl’intelletti e li predisponeva alla scienza. Se in questa grammatica abbondava la scienza, molto scarsa era la parte dell’applicazione e dell’esempio. Io credeva che una gran parte della grammatica si dovesse studiare in modo pratico, leggenda, scrivendo, parlando. Ridotta la grammatica a generalità scientifica, ciò che propriamente si diceva arte io lo andava mostrando nelle letture, nelle composizioni e nelle conversazioni, con esercizi svariati e ingegnosi.