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88 la giovinezza

corpo i Dialoghi della volgar lingua di Pietro Bembo, durando alla fatica di quei caratteri barbari, gotici, abbreviati, minuti che mi stancavano gli occhi. E così m’inghiottii il Varchi, il Fortunio e i sottili Avvertimenti del Salviati e la prosa dottorale del Castelvetro e il Bartoli e il Cinonio e l’Amenta e il Sanzio e non so quanti altri autori, con approvazione del marchese Puoti, il quale mi vantava sopra tutti gli altri il Corticelli e il Buommattei. Quando avevo finito un libro, ne pigliavo subito un altro, senza domandarmi: «Che sugo ne ho cavato?» Del libro letto mi rimanevano notizie varie, alcune preziose e interessanti, ma niente di concorde e di sistematico. Quelle notizie erano cacciate via dalle più fresche, e le più lontane talora non mi apparivano più che come un barlume.

Tutta quella parte che riguardava le origini della lingua e delie forme grammaticali, destò in me sul principio la più viva curiosità; ma presto me ne seccai, perché quelle etimologie arbitrarie e contraddittorie e quelle congetture avventate non avevano fondamento sodo, né davano adito a ricerche ulteriori, che rendessero interessante quello studio. Le ricerche supponevano che si potesse andare al di là della coltura classica; ma per me, come per quegli autori, al di là non c’era che buio. Dell’Oriente a me era noto tutto quello che avevo potuto leggere nelle storie; ma delle lingue, delle tradizioni, delle religioni, della filosofia sapevo poco meno che niente. A me parve dunque tutto quel lavorio intorno alle etimologie e alle origini cosa vana; e con la leggerezza e la presunzione di quella età, spesso me ne prendevo gioco. Quelle derivazioni dal greco o dall’ebraico o da non so dove, fondate sopra un certo scambio di vocali o di consonanti, mi parevano un gioco di bussolotti. Quelle discussioni eterne sull’origine della lingua toscana o italiana mi annoiavano fieramente. Quel pullulare perpetuo di regole e di eccezioni mi stancava, e tutte quelle dissertazioni sottili e cavillose sulle parti del discorso e sulle forme grammaticali mi annuvolavano il cervello. Lascio stare le canzonature dei compagni, che a vedermi quelle cartapecore in mano, affumicate dal tempo, mi chiamavano un antiquario. E Gabriele Capuano mi diceva: — Basta