La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XVIII. Letture e composizioni

La giovinezza - XVIII. Letture e composizioni

../XVII. Le lezioni di grammatica ../XIX. Malattie reali e immaginarie IncludiIntestazione 19 ottobre 2021 75% Da definire

La giovinezza - XVII. Le lezioni di grammatica La giovinezza - XIX. Malattie reali e immaginarie
[p. 95 modifica]

XVIII

LETTURE E COMPOSIZIONI

Facevo la mia lezione di grammatica alla buona, seduto, senza gesti e senza intonazione oratoria, in modo familiare e didascalico. Il corso durò due buoni anni. Finita la lezione, facevo un po’ di lettura. Caldo ancora di fantasmi grammaticali, cercavo gli esempli e le applicazioni nel libro, ricorrendo spesso alla lavagna, perché mi piaceva di parlare ai sensi, e non ristavo finché la cosa non era chiara a tutti. Avevo molta attitudine alle minuzie; sminuzzavo tutto, e su ciascuna minuzia esercitavo il mio cervello sottile. Quelli che mi sentivano filosofare in grammatica, e tracciare le cose a grandi tratti, non si persuadevano come foss’io quel medesimo così minuto nelle minime particolarità grammaticali. La stessa minuteria era nelle cose della lingua. Dopo di avere analizzato e rovistato in tutti i sensi il fatto grammaticale, mi divertivo con le parole, e con [p. 96 modifica]la mia infinita erudizione, attinta ai testi di lingua, di ciascuna parola dicevo i derivati e i composti, i sensi antichi e nuovi, le simiglianze e le differenze, tanto che mi chiamavano «il dizionario vivente». Talora la lettura non era che di un periodo solo, e prendeva una buona ora, e non la finivo più, e mi ci scaldavo io, e ci si scaldavano gli altri. E quando, riscossomi e cavato Toriuolo, vedevo l’ora e facevo la faccia attonita, quei cari giovani mi sorridevano dicendo: — Professore, quando vi ci mettete!... — Il fatto è che in quella scuola non si sentiva la noia, perché dicevo cose novissime con un calore, con una unzione che li teneva tutti a me, vivendo tutti la stessa vita.

In quell’anno lessi dei brani del Pandolfini, del Compagni e di Frate Guido da Pisa, e terminai con la famosa leggenda del carbonaio di Iacopo Passavanti. Nella prima lettura non andai più in là del primo periodo del Governo della famiglia, e ci feci sopra le più nuove e le più sottili avvertenze, indicando le differenze di tutti quei sostantivi ammassati l’uno su l’altro, che esprimevano delicate gradazioni di una stessa cosa, e parevano simili ed erano diversi, e spiegavo anche il perché del loro collocamento. Spesso tiravo fuori il capo da queste nebbie di minute osservazioni, e mi trovavo in puro cielo, nel cielo luminoso dell’arte, e m’entusiasmavo io, e tutti si entusiasmavano, mutando io voce e colore e accento. Mi rimane ancora oggi l’impressione viva che fece la lettura del convito del Pandolfini. Quando lessi: «spento il fumo alla cucina, è spento ogni grado e grazia», e quando, con intonazione solenne, uscii in quel «solitudine e deserto», quella vivace gioventù non si poté contenere, e proruppe in applausi, affollandomisi intorno. Quella descrizione magnifica degli apparecchi del convito, dove tutto è pieno di senso, ch’io annotava e scolpiva, si trasformava nella mia calda analisi in una scena drammatica. Un’impressione più durevole forse fece la descrizione graziosa di una festa, nella quale il nostro messer Agnolo Pandolfini colse la moglie che s’era imbellettata. Fece ridere quella «faccia imbrattata a qualche padella in cucina», e tutti colsero il garbo e la bonomia che è verso la fine, quando il marito, vedendola piangere, dice: «Io [p. 97 modifica]lasciai che s’asciugasse le lagrime e il liscio». Pure questo benedetto libro non l’ho aperto più dopo quel tempo, sono passati tanti anni e tante vicende, e queste frasi mi tornano alla memoria, e mi tornano quelle letture come se le facessi ora, si forte fu l’impressione.

Una volta la settimana si faceva il lavoro. Di rado davo un tema; il più delle volte se lo sceglievano loro. Io tornava a casa carico come un ciuco. Il di appresso mi levavo di buon mattino, e cominciavo la lettura di tutti quei componimenti. Avevo fatto l’occhio ai diversi caratteri, tanto che anche oggi dalle scritture più orribili me la soglio cavare. Mettevo in quel lavoro un’infinita pazienza, perché infinita era la mia coscienza: mi sarebbe parso un delitto l’andare in fretta o leggere a salti. Mettevo nel margine le correzioni con le debite osservazioni, e talora tiravo in lungo, perché volevo farmi ben capire. Fatta quella fatica, tornavo da capo a legger tutto, spesso aggiungendo altre postille; poi sceglievo in quella selva di errori quelli che davano occasione ad avvertenze grammaticali o di lingua, e che era bene che tutti sentissero. Questa era la mia occupazione di tutto il di. Nel dimani andavo così armato a scuola, e chiamavo i giovani, uno per uno, e sempre trovavo a dir loro qualcosa, o biasimo o compatimento o lode, consegnando le carte. Poi prendevo i miei appunti, e con l’occhio alla lavagna facevo scrivere le frasi o i periodi da me scelti, dov’erano gli errori, e volevo che i giovani me li trovassero. Di là cavavo materia molto istruttiva di osservazioni e di applicazioni nelle cose della lingua e della grammatica. Quello era l’esercizio più utile. Posso dire che s’imparava più a quel modo che con tante regole e con tanto filosofare. Io non lasciava mai in ozio l’intelletto e non dava luogo alle distrazioni: sempre li, l’occhio alla lavagna, attento, caldo, come se vivessi là entro, e quella serietà, quel calore guadagnava tutti, li tirava a me.