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le lezioni di grammatica 91

quando qualcuno di quei giovani mi viene innanzi alla mente.

Le mie prime lezioni furono una storia della grammatica. Volevo fare una storia delle forme grammaticali; ma al pensiero gigantesco mal rispondeva la cultura, attesa la mia scarsa grecità, e l’ignoranza delle cose orientali. Potevo rimediare con quei libri allora in moda, pieni di tante chiacchiere sulle cose greche e d’Oriente; ma queste generalità vuote non mi sono piaciute mai, né farmi bello delle altrui penne mi è mai entrato in capo. A scrivere e a parlare mi era necessario non solo che la materia fosse a me ben nota, ma che la studiassi io quella materia, e la facessi mia. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a Vico ed a Schlegel, si ridusse nei modesti confini di una storia dei grammatici da me letti. Non è già ch’io m’occupassi della loro vita e delle minime particolarità dei loro libri. Fin d’allora la mia mira era al centro, cioè all’idea principale e dominante, lasciando da parte tutto il secondario e l’accessorio. Non parlavo di un libro che non l’avessi studiato io medesimo; e il mio costume era, letto il libro, metterlo da parte, e pensarci su passeggiando e almanaccando. Parlai dei grammatici che tutto derivavano dal latino. Poi venni a quelli che erano studiosi della lingua, copiosi di regole e di esempli, che moltiplicavano in infinito. Molto m’intrattenni sul Corticelli, sul Buommattei, sul Salviati e sul

Daniello Bartoli

. Tutto era nuovo, autori, libri, giudizi. Le mie censure erano senza pietà e senza riguardo. Censuravo quel moltiplicare infinito di casi e di regole che si riducevano in pochi principii; quella tanta varietà di forme e di significati (massime nel Cinonio), che era facile ricondurre ad unità. Facevo ridere, pigliando ad esempio l’a, il per, il da, irti di sensi e che pur non avevano che un senso solo. La mia attenzione andava dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee; sicché, sotto a quelle apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, io vedeva una logica animata, e tutto metteva a posto, in tutto discerneva il regolare e il ragionevole, non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, corroborata da studi vecchi e nuovi, io conciavo pel dí delle feste i cinque-