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112 | ATTO PRIMO |
Zelinda. Ma sollevatevi un poco: respirate un momento, parlate un poco con me.
Lindoro. Lasciatemi scrivere, non ho volontà di parlare.
Zelinda. In verità, Lindoro, voi mi date non poca pena. E qualche giorno che vi vedo taciturno, inquieto. Cos’avete mai che vi turba, che vi molesta? In un mese che siamo marito e moglie, pare che la vostra tenerezza per me si sia raffreddata.
Lindoro. No, Zelinda, v’ingannate, vi amo sempre più, e non non cesso di ringraziare il Cielo che siate mia.
Zelinda. Ma da che proviene questa vostra tristezza?
Lindoro. Non so, ho qualche cosa che mi dà pena... Vedete bene, mio padre non ha voluto approvare il mio matrimonio. Malgrado le lettere e le preghiere del signor don Roberto, non ha voluto riconoscervi ancora per nuora, non mi ha ancora assegnato niente per vivere, e siamo tuttavia obbligati a servire.
Zelinda. Sì, è, vero, ma la servitù è sì dolce, e per voi, e per me! Questo nostro padrone amabile, che ci ha sempre dolcemente trattati, ora che1 siamo sposati ci ama sempre più, e ci tiene in casa come figliuoli. Ringraziamo la provvidenza, e non ci affliggiamo fuor di proposito.
Lindoro. Ah Zelinda mia, voi non mi parlate che delle rose, ed io sento al cuore le spine.
Zelinda. Oh si sa che non si possono aver le rose senza le spine. Ma vi sono dei sfortunati che hanno le spine senza le rose.
Lindoro. (S’ella sapesse il tormento ch’io provo, non parlerebbe così). (da sè, scrive)
Zelinda. V’assicuro ch’io non posso desiderarmi maggior contentezza. Vi ricordate quanto abbiamo sofferto, quante lacrime abbiamo sparse? Finalmente siamo arrivati al colmo della nostra felicità. Che bel piacere per me, l’essere qui con voi, senza timore2senza soggezione, e lavorare con voi, e lavorare per