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folklore con atteggiamenti cinematografici senza neanche avvertire la compitezza stilistica delle parole mormorate dal suggeritore.

E non ebbero analogo compimento le sue più costanti ed accurate confidenze con la dolorosa storia di Maria Stuart? Ci ha ella dato forse una nuova Stuart, l’ha arricchita di ansie e di moti suoi o non si è fermata a una comoda passività, con spunti di imitazione dalla Ristori1? Qui si rivelava senza rimedio la natura gelida, falsa ed imprecisa del suo calore. Maria Stuart, opera caratteristicamente romantica per le sue stesse incertezze e confusioni, cronologicamente situata in piena crisi schilleriana, tra Wallenstein e Guglielmo Tell, rappresenta l’esuberanza, non ancora composta, di aspirazioni a una drammaticità religiosa, filosofica, politica. Ma l’ampia tela storica non è rivissuta da una fantasia shakespearianamente superiore e precipita nella retorica. Si salvano gli spunti lirici, dove non sono troppo facondi, e il nucleo elementare dell’azione nel terzo atto.

Federico Schiller fu attratto da rumorosi elementi esteriori (dissidio tra donna e regina, tra cattolicismo e protestantismo, ecc.) e invece di pensare a unificarli intorno a una giustificazione eroica di Maria, li circondò di sovrapposti episodi; volle che se ne sprigionasse un’austera lotta di convinzioni in cui ogni personaggio fosse affaticato dalla ricerca di se medesimo, dall’approfondimento della propria interiorità.

Invero l’ambizione di Leicester, l’amore di Mortimer, la solenne devozione allo stato di Talbot, il parlamentari-

  1. Cfr. Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori. Torino, 1887, pp. 145-181.