La favorita del Mahdi/Parte I/Capitolo VII
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CAPITOLO VII. — Fit-Debbeud.
Spuntava l’alba quando il greco, dopo di aver nascosto fra le alte erbe il povero Amr e il mahari che aveva sventrato con una coltellata, giungeva alla grotta.
Una collera senza limiti alterava il suo volto già per sè stesso abbastanza truce e una smania terribile, una sete di vendetta ardevagli in petto. Egli comprendeva ormai che tutto era terminato e che le speranze che Abd-el-Kerim avesse finito per ravvedersi e ritornare ad Elenka, erano troncate, come pure comprendeva che Fathma per lui era definitivamente perduta a meno di un miracolo o di un tradimento.
— Ah! esclamò egli coi denti stretti, lasciandosi cadere su di un macigno e prendendosi la testa fra le mani. È proprio vero che quel traditore di Abd-el-Kerim l’ha definitivamente rotta con mia sorella Elenka? Eppure mi pareva innamorato alla follia; eppure aveva giurato di farla sua e giurato non su Allah, ma sul Corano. Traditore e spergiuro adunque, quest’arabo del demonio!.. Maledetta Fathma, sei stata la causa di tutte le mie disgrazie!
«Ma Notis è forte e tremendo nelle sue ire e nelle sue vendette, e per quanto io ami quell’almea, mi vendicherò, ma ben terribilmente. Va, Fathma, abbandonati nelle braccia di quello spergiuro che ingannò mia sorella; disprezzami fin che vuoi, ma io ti schianterò il cuore, oh sì, te lo schianterò. Se non fosse un barlume di speranza che ancor mi trattiene, la speranza che Abd-el-Kerim abbia a tornare ai piedi di Elenka, lo assassinerei questo mio rivale!
Egli si assise dinanzi l’apertura della grotta spiando attentamente il campo egiziano per rendersi conto di quanto succedeva.
Di quando in quando uscivano lunghe file di egiziani carichi dei loro sansemieh di pelle di capra che andavano a empire ai pozzi d’Hossanieh e dietro a loro schiere di asini coi boricchieri che trottavano ai loro fianchi emettendo il lamentevole loro haaahh per animarli, squadroni di basci-bozuk che si esercitavano a manovrare sui terreni malagevoli e compagnie di soldati che marciavano in qua e in là formando di spesso i quadrati, come se si trattasse di sostenere una canea di arabi Abu-Rof.
Mille rumori venivano dal campo in mezzo ai quali risuonava la stridula voce degli acquaiuoli che gridavano incessantemente, moja! moja! (acqua! acqua!) e quella nasale dei muezzin.
D’improvviso Notis si levò in piedi come spinto da una molla, emettendo una bestemmia.
Aveva visto un ufficiale uscire dal campo e dirigersi verso Hossanieh e precisamente verso la casupola di Fathma.
— Ah! esclamò con indefinibile accento d’odio. Sei tu Abd-el-Kerim! Va a trovarla pure quell’altera almea, ma ti giuro che la vedrai per l’ultima volta. Cadrai nelle mie mani e quando ti avrò spezzato il cuore ti getterò in quelle dell’antica tua fidanzata, in quelle di mia sorella Elenka. Ira di Dio! Ti farà uscire il sangue a goccia a goccia, se tu non ti piegherai dinanzi a lei. So quanto sia vendicativa mia sorella che ha nelle vene puro sangue greco.
Egli si tacque nello scorgere il nubiano che montato su di un mahari carico d’oggetti, galoppava furiosamente verso la collina. Sorrise di gioia e si stropicciò le mani mormorando più volte:
— A me ora la vendetta.
Takir in pochissimo tempo giunse ai piedi della collina e salì subito alla grotta carico di viveri, di coperte e di talleri.
— Avete udito, poco fa, un colpo di fucile sparato qui vicino? chiese il nubiano, gettando a terra tutta quella roba.
— Non inquietarti Takir, disse Notis. L’ho sparato io contro uno schiavo di Hassarn.
— Avete ammazzato Amr? L’ho veduto un’ora fa uscire dalla tenda dell’arabo.
— Gli ho fatto scoppiare la testa e poi l’ho seppellito. Ma lasciamo lì i morti e parliamo dei vivi, ora. Che notizie rechi dal campo?
— Novità eccellenti, padrone.
— Fathma, trovasi ancora nella sua casupola?
— Trovasi sempre là.
— Come mai Abd-el-Kerim commette simili imprudenze?
— Non so di chi dovrebbe aver paura, ora che vi crede morto.
— Hai ragione, Takir, disse Notis sorridendo. Credo che questa mia morte abbia a giovarmi assai per condurre a buon fine i miei progetti. Tira innanzi, negro mio.
— Ho veduto l’arabo recarsi alla casupola ed entrare.
— L’ho scorto pure io. Parlami d’Hassarn, quel maledetto turco che odio quasi al pari di Abd-el-Kerim. Che fa egli?
— Per quanto lo cercassi non potei vederlo ma suppongo che si trovasse nella tenda di Dhafar pascià.
— Sia bene, ora faremo i nostri piani per colpirli proprio in mezzo al cuore tutti quanti.
Stette un momento silenzioso immergendosi in tristi pensieri, poi, fattosi versare un bicchiere di bilbel, specie di birra fatta con maiz e dòkòn, di sapore dolcigno, e tracannatala, s’alzò, piantandosi dinanzi al nubiano.
— Takir, disse con voce grave. Se tu fosti nei miei panni che faresti?
— Assassinerei tutti e tre quei miserabili, rispose il negro senza esitare.
— Sarebbe una vendetta troppo dolce, eppoi, bisogna che serbi Fathma per me ed Abd-el-Kerim per mia sorella.
— Allora che fare? È una gran disgrazia che vi siate innamorato di quell’altera almea.
— Taci, Takir; io l’amo alla follia, l’amo furiosamente. È tanto bella e tanto giovane che sarebbe un peccato farla morire. Ma non credere che l’ami solamente, no, ira di Dio! L’amo tremendamente, ma nel medesimo tempo l’odio ferocemente.
— E dunque che volete fare?
— Innanzi a tutto bisogna che abbia in mano uno dei due, meglio se avrò prima Abd-el-Kerim.
— Abd-el-Kerim! esclamò Takir sorpreso. E per che farne?
— Una volta in mia mano penseremo a strappargli quella passione che ha per Fathma e a gettarlo nelle braccia di mia sorella. Coi tormenti a tutto si riesce.
— Si capisce che volete tormentarlo per bene.
— Sì, e terribilmente. Odimi ora, Takir.
Tornò a sedersi, vuotò la fiaschetta del bilbel, e facendo cenno al nubiano di avvicinarglisi:
— Tu comprendi, che senza aiuti sarà difficilissimo se non impossibile, d’impadronirsi di Abd-el-Kerim. Conosci tu qualche hossanieh poco scrupoloso che si possa comperare con un bel pugno d’oro?
— So che alle ruine di El-Garch sta accampato lo sceicco Fit Debbeud con un seguito abbastanza numeroso. Questo beduino, che io conosco a fondo, per un bel gruzzolo d’oro potrebbe mettersi ai vostri servigi. È un uomo forte, coraggioso, capace di pugnalare cento uomini senza commuoversi.
È quello che io cercava, Takir. Tu ti recherai nelle foreste e gli parlerai, poi monterai sul tuo mahari e trotterai verso Chartum. Ho bisogno assoluto di mia sorella Elenka per vincere Abd-el-Kerim.
— Oh! fe’ il nubiano, Elenka qui, al campo?
— Sicuro, la condurrai a Hossanieh ed ella non indugierà a venire quando tu le avrai raccontato come stanno qui le cose. Orsù, mettiti in cammino e recati a parlare con Fit Debbeud.
— E voi?
— Io verrò con mio comodo, quando tu avrai spianata la via e messo al corrente di tutto lo sceicco.
Il nubiano riprese gli oggetti che aveva deposti a terra e tornò a partire. Notis, dopo d’averlo visto a correr come un’antilope, verso le foreste, esaminò la sua ferita, vi sovrappose un cataplasma di erbe medicinali e si sedette dinanzi a un vaso ripieno di ebrèk, cibo assai appetitoso e rinfrescante composto di duràk ridotto in pasta sottile e un po’ agro per meglio conservarsi.
Finito il pasto che inaffiò con un abbondante sorso di merissak, sorta di birra inebriante fatta con duràk fermentato, e fumato un sigaretto, discese la collina e salì sul mahari di Takir, spingendolo a lento passo verso le foreste che chiudevano, all’est, l’orizzonte.
Alle tre dopo il mezzodì giunse ai primi alberi e incontrò il nubiano che veniva in cerca di lui, accompagnato da un beduino avvolto in un gran taub, armato d’una lunga hàrba (lancia) e munito di una daraga, grande scudo di legno coperto di pelle di elefante.
— Tutto va bene, gli disse Takir. Lo sceicco Fit Debbeud è a secco di talleri e purchè voi riempiate le sue tasche vi ammazzerà dieci volte Abd-el-Kerim. Siate prudente, col danaro, so non volete venire assassinato sulla porta della tenda.
— Non temere, Tahir; rispose Notis. So cosa è il beduino.
— Allora in marcia e che Allah ci protegga.
S’internarono tutti e tre sotto la foresta seguendo un sentiero ombreggiato da magnifici tamarindi e giunsero, dopo una mezz’ora, dinanzi a una gran spianata cosparsa di colonne infrante, d’arcate cadenti ornate di mille ghirigori in mezzo ai quali spiccava l’ibis religiosa degli antichi nubiani e seminata da grandi sfingi, di statue colossali semi-coperte dalle piante arrampicanti e da ammassi di rottami.
— In mezzo a quelle ruine, chiamate d’El-Gareh, s’alzavano otto tende d’un color bruno sporco a striscie gialle, alte appena da potersi tenere in piedi, ma vastissime, sostenute da pali piantati irregolarmente, e gli orli rovesciati all’insù, di maniera che l’aria vi potesse circolare liberamente.
Dispersi qua e là, fra una mandria di mahari e di cammelle, alcuni seduti e altri sdraiati sui tappeti laceri, se ne stavano due dozzine di beduini avvolti nei loro mantelli bianchi forniti di cappuccio infioccato, occupati a fumare pacificamente nei loro scibouk o nei loro narghilek. Essi inviarono al greco un saluto e si recarono a baciargli la mano e lo condussero nella tenda del loro capo, che era più elevata e più vasta delle altre.
Nel mezzo di essa, Notis scorse, sdraiato indolentemente su di un mucchio di tappeti di kiki di tessuto di pelo di cammello, Fit Debbeud, il capo o meglio lo sceicco della piccola banda beduina.
Era questi un uomo sui trent’anni, di mezzana statura ma di forme vigorose ed elastiche. La sua pelle, di color pan bigio, portava numerose cicatrici bianche ricevute in diverse battaglie; aveva naso aquilino, labbra sottili, zigomi poco salienti, occhi neri, tetri, che brillavano stranamente e una barba arruffata, ancora più nera, che dava alla sua faccia un’aria cupa, selvaggia, poco rassicurante. Il suo costume componevasi di un paio di calzoncini corti fino al ginocchio, attillati in modo di mostrare il rilievo dei muscoli, di un taub, sorta di mantello orlato di rosso, d’una cintura di cuoio nella quale eranvi passate una lunga sciabola, specie di jatagan coll’elsa di ferro in forma di croce, alcuni pistoloni a pietra, un sacchetto di marocchino rosso pieno di preziosi amuletti e una corona di chicchi di vetro giallo de’ Mussulmani. Sul capo portava una calotta rossa, una specie di fez turco.
Appena vide Notis, s’alzò, senza troppo scomporsi, e secondo l’usanza gli baciò la mano dicendogli colla più squisita cortesia:
— Salem alek (la pace sia teco) frase sacramentale la cui abitudine risale a più secoli.
— Allah ybarèk fik (Dio ti benedica) rispose Notis non meno cortesemente.
Sceicco e greco si guardarono per alcuni istanti in silenzio, con reciproca curiosità, poi il primo fece cenno al secondo di accomodarsi su di un tappeto, il migliore che si trovasse nella tenda.
Quasi subito entrò uno schiavo portando un vecchio vassoio di lamiera di ferro, su cui stavano numerose tazze coll’orlo rotto, fesse, abbominevoli, vecchie chi sa da quanti anni e comperate chi sa mai in quale bazar di Cairo, di Costantinopoli o forse anche di Bagdad. Ve n’erano di tutte le grandezze e di tutte le forme; di porcellana europea, di finta porcellana chinese, di ferro o di argilla, un campionario infine di quanto di triviale e orrendo, si fabbricano in tutto il mondo. Un bricco indescrivibile, di piombo, tutto sformato e coperto d’ammaccature, conteneva il caffè mescolato con un’abbondante porzione d’ambra grigia.
La bevanda confortante e veramente eccellente fu sorseggiata nel più profondo silenzio, dopo di che lo sceicco, acceso automaticamente il suo annerito scibouk e aspirate alcune boccate di fumo odoroso, si volse verso Notis dicendogli sempre colla più squisita cortesia:
— E ora, mio caro amico, sono a tua disposizione.
— Sai di che si tratta? chiese Notis.
— Takir tutto mi disse.
— Sei tanto coraggioso da imprendere questa guerra contro Abd-el-Kerim?
— Odimi, amico, disse lo sceicco con orgoglio. Un giorno dodici Egiziani mi assalirono e io li ammazzai dal primo all’ultimo portando le loro teste al mio marabuto che le mostrò all’intera tribù; un altro giorno sorpresi una famiglia di Arabi miei nemici, addormentata nel deserto. Strappai a loro gli occhi, tagliai le orecchie, il naso, le gambe e le braccia e frastagliai minutamente, col mio jatagan, i corpi dei loro bambini. Sono coraggioso e feroce!
— Troppo feroce per ammazzare degli inoffensivi ragazzi.
— È il costume delle nostre tribù sì del Sahara che del Mar Rosso.
— Ti senti, adunque, capace di affrontare il mio rivale.
— Se tu vuoi che io cacci il mio jatagan fra le spalle di quell’arabo e tronchi d’un sol colpo la vita, io la troncherò. Vuoi che io lo passi da parte a parte colla mia hàrba? Io lo trapasserò e poi gli caverò gli occhi, gli taglierò il naso, le gambe e le braccia. Vuoi che io rapisca la tua bella che si mostra verso di te tanto ritrosa? Io la rapirò per quanti urli e per quanto mi maledica. Allàh, da qualche tempo non mi manda carovane da depredare ed io e la mia banda siamo a secco di talleri: paga come un sceicco che nuota nell’argento e io e i miei uomini siamo ai tuoi comandi.
Notis estrasse dalla saccoccia una grossa borsa di talleri di Maria Teresa, e la gettò allo sceicco che la prese al volo.
— Questo per cominciare, disse.
— Ne hai molte con te di queste borse? chiese il beduino, i cui occhi s’accesero di cupidigia.
— No, disse il greco.
— Dove troverai gli altri talleri?
— Al campo egiziano.
— Sta bene, me li darai quando me li meriterò. Parla ora.
— Bisogna che noi ci impadroniamo del mio rivale.
— Dove trovasi quel cane d’arabo?
— In mezzo all’accampamento d’Hossanieh.
— Hum! fe’ lo sceicco, crollando il capo. Sarà affar serio andarlo a prendere laggiù, ma Fit Debbeud ha nel suo sacco mille astuzie. Bisognerà con qualche pretesto farlo uscire dal campo e poi saltargli addosso.
— Lo so, ma non sarà tanto facile.
Il beduino s’accarezzò la barba con compiacenza.
— Bah! esclamò egli sorridendo. Dove trovasi, innanzi a tutto, la sua amante? Assieme a lui o separata?
— Lui trovasi al campo e lei in un tugul d’Hossanieh.
— All’ora l’arabo è nostro. Dal campo al villaggio vi corrono più di mille passi e sono bastanti per portar via il tuo rivale prima che gli Egiziani possano accorrere in suo aiuto e inseguirci.
— Ma come lo farai uscire dal campo? Senza un forte motivo non oltrepasserà di notte la linea degli avamposti. Tu sai che hanno paura dei ribelli che si crede che ronzino per la pianura.
— Sta a sentire, padron mio, disse lo sceicco riaccendendo il suo scibouk. Questa sera mando uno dei miei uomini alla tenda del tuo rivale, anzi ci andrò io in persona, e lo avviso che la sua amante lo desidera. L’innamorato, che m’immagino sarà cotto, mi crederà e uscirà senz’altro dal campo. Tu comprendi il resto; i miei beduini saranno imboscati dietro a qualche macchia, gli piomberanno addosso, lo atterreranno e lo porteranno via. Quando gli Egiziani accorreranno, noi saremo assai lontani.
Notis stese la mano al bandito che gliela strinse vigorosamente.
— Se tu riesci nell’impresa, disse, ti darò tanti talleri da comperare cento fucili e una mandria numerosissima di cammelle.
— Lascia fare a me.
— Takir, gridò il greco.
Il nubiano, che fumava sul limitare della tenda fu pronto ad accorrere alla chiamata del padrone.
— È ora che tu ti metti in viaggio per Chartum, disse Notis. Dirai a mia sorella Elenka come stanno qui le cose e la incaricherai d’ottenere dal governatore il mio congedo assoluto, poichè bisogna che io sia libero per lottare col mio rivale e vincerlo. Le dirai altresì che si faccia firmare, dallo stesso, una lettera che obblighi Dhafar pascià a condurre Abd-el-Kerim nel basso Sudan, dovesse trascinarvelo colla forza.
— Perchè? Non vi capisco.
— L’ignoro io pure, il perchè, ma potrebbe darsi che questa lettera mi tornasse utilissima. Va, Takir, e ritorna presto con Elenka. Mia sorella è abbastanza ricca e potente per ottenere dal governatore quello che vuole.
Il nubiano girò sui talloni e s’allontanò. Poco dopo si udì il sonaglio del suo mahari che indicava che erasi già messo in viaggio.
— E ora che facciamo? chiese Notis allo sceicco.
— Il sole è ancora alto per dirigerci al campo e io ho una fame da lupo. Pranzeremo allegramente.
Fece distendere dinanzi un tappeto nuovissimo e gettò un leggiero fischio. Un beduino entrò portando sulle spalle, appeso ad una pertica, un agnello intero arrostito e lo depose su di una specie di sporta piatta di foglie di palma.
— Bismillah! (in nome di Dio) disse Fit Debbeud, frase abituale che pronunziano sia per cominciare a mangiare, sia per scannare o torturare il loro nemico.
Lo sceicco divise l’agnello colle dita, essendo sconosciuta la forchetta presso i beduini, tagliò la pelle brunastra, lucida e croccante, in lunghe striscie e servì Notis, che le assalì vigorosamente inaffiandole con latte di cammella fermentato nella pelle di una capra, che sapeva orribilmente di muschio. Lo sceicco, ogni qualvolta che il greco accostava la tazza alle labbra non mancava mai di dire: saa (alla salute) alla quale frase rispondeva Notis: Allàh y selmek (Dio ti salvi).
Dopo la prima portata, un altro beduino recò un gran vaso di terra, una specie di garahs, vecchio di cent’anni, nel quale trovavasi un pasticcio di riso nuotante in una salsa giallognola, pepata in modo orribile, con un miscuglio di datteri secchi pestati e di albicocche. Seguì l’hamis, composto di pezzetti di carne di pollo e di montone fatti dapprima cuocere in istufato con burro e di poi bagnati con acqua calda e conditi con pepe in gran quantità, sale, datteri e cipolle fatte bollire fino a ridurle a completo discioglimento. Il pasto finì col kus-kussu, o cibo nazionale, preparato con pallottoline di farina piccole come pallini da caccia, condite con una salsa piccante e con una sorsata di bilbel.
In quel frattempo densi nuvoloni s’erano accavallati nella profondità del cielo e un vento caldissimo s’era messo a soffiare, scuotendo fortemente le cime degli alberi e piegando le tende. L’oscurità cominciava a farsi rapidamente e prometteva di essere tanto fitta da non poterci vedere a due passi di distanza.
Notis ne fece parola allo sceicco, che finito il pasto, s’era rovesciato sui tappeti, fumando flemmaticamente.
— Tanto meglio, rispose il beduino. L’uragano favorirà la spedizione, e le tenebre proteggeranno la nostra ritirata. Credo anzi che sarà ora di metterci in cammino, e di andar a raccontare all’arabo che la sua bella ha fatto un colpo.
— Non vi è pericolo che tu, recandoti al campo, abbia a venire scoperto?
— Nessuno mi conosce, eppoi, a uno sceicco è permesso di andare dove gli pare e piace senza render conto a chicchessia. Non aver timore che io possa venire preso da quella gente vigliacca. E avutolo in nostre mani, dove lo nasconderemo questo rivale?
— A pochi passi da qui vi è un corridoio che mette capo ad una spelonca orribile, umida quanto mai. Ve lo caccieremo dentro e ve lo rinchiuderemo per bene.
Lo sceicco s’alzò, si gettò a bandoliera il suo lungo moschetto a pietra, imbracciò il suo scudo di pelle di elefante e uscì assieme al greco. I beduini s’erano raccolti di già attorno ai mahari, in completo arnese di guerra; ad un suo cenno si posero in sella.
Una parola ancora, prima di separarci, disse lo sceicco. Se il tuo rivale mi chiedesse chi m’incaricò di rapirlo, che devo rispondergli?
— Rimarrai muto come una tomba. Le vendette circuite dal mistero sono le più spaventevoli.
— Sta bene, che Allàh ti guardi!
— Che Allàh t’aiuti, rispose Notis.
Lo sceicco salì sul mahari e diede il segnale della partenza. La banda partì alla carriera in direzione d’Hossanieh.