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arruffata, ancora più nera, che dava alla sua faccia un’aria cupa, selvaggia, poco rassicurante. Il suo costume componevasi di un paio di calzoncini corti fino al ginocchio, attillati in modo di mostrare il rilievo dei muscoli, di un taub, sorta di mantello orlato di rosso, d’una cintura di cuoio nella quale eranvi passate una lunga sciabola, specie di jatagan coll’elsa di ferro in forma di croce, alcuni pistoloni a pietra, un sacchetto di marocchino rosso pieno di preziosi amuletti e una corona di chicchi di vetro giallo de’ Mussulmani. Sul capo portava una calotta rossa, una specie di fez turco.

Appena vide Notis, s’alzò, senza troppo scomporsi, e secondo l’usanza gli baciò la mano dicendogli colla più squisita cortesia:

Salem alek (la pace sia teco) frase sacramentale la cui abitudine risale a più secoli.

Allah ybarèk fik (Dio ti benedica) rispose Notis non meno cortesemente.

Sceicco e greco si guardarono per alcuni istanti in silenzio, con reciproca curiosità, poi il primo fece cenno al secondo di accomodarsi su di un tappeto, il migliore che si trovasse nella tenda.

Quasi subito entrò uno schiavo portando un vecchio vassoio di lamiera di ferro, su cui stavano numerose tazze coll’orlo rotto, fesse, abbominevoli, vecchie chi sa da quanti anni e comperate chi sa mai in quale bazar di Cairo, di Costantinopoli o forse anche di Bagdad. Ve n’erano di tutte le grandezze e di tutte le forme; di porcellana europea, di finta porcellana chinese, di ferro o di argilla, un campionario infine di quanto di triviale e orrendo, si fabbricano in tutto il mondo. Un bricco indescrivibile, di piombo, tutto sformato e coperto d’ammaccature, conteneva il caffè mescolato con un’abbondante porzione d’ambra grigia.

La bevanda confortante e veramente eccellente fu sorseggiata nel più profondo silenzio, dopo di che lo sceicco, acceso automaticamente il suo annerito scibouk e aspirate alcune boccate di fumo odoroso, si volse