La fantesca/Atto II
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ATTO II.
SCENA I.
Facio dottor di leggi.
Facio. Un di travagli che abbiamo in questa vita è l’aver a trattar con questi sarti ladri assassini, che dopo averti fatte tutte le tirannie possibili al panno, a’ finimenti e alle fatture, gli piace, per farti il peggio che sanno, di straziarti una settimana in darti le vesti fatte, ancorché potessero farle in una ora. Mi disse iersera che all’alba me l’arebbe recate, e omai è ora di pranso e non lo veggio comparire; e mi fará partir per Salerno molto tardi. Andrò in sua bottega. Chi vuol, vada.
SCENA II.
Essandro, Panurgo.
Essandro. Sí che, di grazia, narrami l’inganno che hai tu pensato per disturbar questo matrimonio.
Panurgo. È tanto a proposito e grazioso che mi muoio delle risa pensandovi.
Essandro. Parla presto, di grazia, che non passi l’ora di trovarmi con Cleria.
Panurgo. Voi mi avete detto ch’eglino non si conoscono di vista.
Essandro. No; ma la loro amicizia è sol per lettere.
Panurgo. Ascoltate, di grazia. Troveremo un uomo vecchio dell’etá di Narticoforo e un altro giovanetto storpiato, o lo sconciaremo noi piú della mala ventura, e li faremo oggi smontar in casa di Gerasto, ché lui, veggendolo cosí brutto, si vergogni darlo per marito a sua figlia e gli dii licenza.
Essandro. E quando Gerasto volesse pur darglilo, per contentarsi egli di poca dote, essendo molto ricco... ?
Panurgo. Faremo che Cleria non si contenti.
Essandro. Cleria è timida, rispettosa; non ardirá questo.
Panurgo. Mancherá di trovar il pelo all’uovo? Ho detto il disegno cosí in grosso, poi tanto voltaremo di qua e di lá e l’anderemo polendo e accommodando, che stii a modo nostro.
Essandro. Se ben Gerasto non è degli accorti uomini di questa terra, pure con questo inganno ingarbugliaremmo altro cervello che il suo. Ma chi sará costui che saprá fingere Narticoforo, e Cintio quel giovane cosí storpiato?
Panurgo. Stimate voi che disponendomi io a questo, non sappi fingere Narticoforo, quel maestro di scuola?
Essandro. Ma bisognarebbe alle volte sguainare qualche parola in «bus» e in «bas».
Panurgo. Se ben pensate ch’io sia qualche poveruomo, son pur nobile; ché per certe fazioni della mia patria fu bisogno scamparne fuori, e non avendo avuto modo come vivere, con quelle poche lettere che avea imparate in casa mia per mio trastullo, col fare il pedante in diversi paesi ho vissuto onorevolmente. A prima giunta gli darò in faccia un «Quanquam te, Marce fili...».
Essandro. Ti conosco di tanto ingegno che saresti per aggirar altro capo che il suo. Ma chi fingerá Cintio?
Panurgo. Ci sono il Capestro, il Truffa, e Morfeo parasito, che è il miglior di tutti, perché attaccandomi un fegadello al tallone, me lo strascinerò appresso dieci miglia, ed è poco conosciuto in questa terra.
Essandro. Bisogna che sia ribaldo da dovero.
Panurgo. Egli è ribaldo, arciribaldo, re di ribaldi e mille volte peggio di quel che vogliamo; né bisogna che molto l’ammaestriamo, ché appena accennandogli il principio, capisce il negozio e compone di testa.
Essandro. O Dio, che quanto piú mi volgo questo inganno per l’animo, piú mi riesce a proposito! Dove arremo vesti orrevoli per vestir Narticoforo?
Panurgo. Pregheremo Alessio nostro amico, overo ne allogheremo alcune, se ci mancano.
Essandro. Qui bisogna prestezza, ché la ruina è vicina. Vai e ritrova il parasito e Alessio, e reca le vesti a casa tanto presto che quando io stimi che cerchi le cose, ti trovi a casa.
Panurgo. Me ne vo, dunque.
Essandro. Dove?
Panurgo. A casa, senza far altro, accioché quando stimi che cerchi le cose, mi trovi a casa.
Essandro. Burli? di grazia, vola.
Panurgo. Dammi l’ale, che volarò. Non dubitate, sarò io colá prima che voi. Ma prima vedrò se potrò trovar Alessio per le vesti.
Essandro. Io fra tanto farò il segno, poiché non è in fenestra. Fis, fis. La sento venire.
SCENA III.
Cleria, Essandro.
Cleria. Essandro, anima mia, mirate, di grazia, se per gli usci e per le fenestre sia alcuno che curi piú gli altrui che i suoi propri affari.
Essandro. Signora, giá potrete sicuramente comparire, ché non appar anima viva.
Cleria. Dolcissimo Essandro, io non vorrei, per essermi cosí volentieri condotta a ragionar con voi, vi cadesse nell’animo qualche sospetto della mia onestá: ché certo non mi sarei ridotta a questo termine, se non avessi fatto prima deliberazione di esser vostra; e se ben son in potestá di mio padre e a lui tocca disponer di me quel che ne vuole, pur se a me ne resta qualche particella, ve la dono tutta, né vo’ viver se non vostra.
Essandro. Né pensiate, signora, ch’io avessi avuto ardir di venir a ragionarle, se non avessi fatto fra me la medema deliberazione. Son troppo incomparabili le vostre bellezze, né il mio cuore sa arder se non per voi, né questi occhi sanno in altro specchiarsi se non in voi, lucidissimo mio sole.
Cleria. In me non fu bellezza giamai, e se pur ve n’è qualche segno, vien dalla reverberazion della luce che senza pari è in voi. Onde oggi io vi fo dono di me stessa, e se il presente è troppo basso, accompagnato dall’affetto dell’anima mia, merita che sia accettato e gradito da voi.
Essandro. O dolce oggetto degli occhi miei, come io potrò ringraziarvi del ricco presente che voi mi fate? Non è spirito in me che non si sforzi ringraziarvi, né ponno giungere al segno; vorrei che voi poteste ascoltar la lingua dell’anima, ch’ella sola lo può esprimere: onde con quello animo che ho accettato il vostro dono, accettate il mio che vi fo di me stesso.
Cleria. In man vostra sta il far prova di questo amore, se è tal quale io lo dico.
Essandro. Cuor mio caro, accorgendomi quanto sia la finezza dell’amor suo, e conoscendovi signora di gran cuore, prendo baldanza di chiederle una grazia col piú interno affetto che possa pregar un cuore: che queste parole, che con tanto periglio dell’onor suo si possono ascoltar da vicini, gliele potessi dir in camera sua.
Cleria. Ah, Essandro, or conosco che siete come gli altri uomini, che vedendo una donna che vi mostri qualche segno d’amorevolezza, subito volete abusar la cortesia col voler giungere a quel termine senza il quale l’amor par che sia nulla; e per sodisfarvi d’un capriccio di niente, volete vituperarla per sempre. Or non è questo piú tosto umore che amore? Pregovi dunque che non mi comandiate ch’io facci cosí gran torto all’onor mio: considerate bene la dimanda che mi fate, e siate giudice di voi stesso. Vostra sorella m’ave assicurato che da voi non mi sará chiesto cosa che ad onestissimo amor non si convenga: mi volete parlare, ecco vi ubidisco; accettate dunque col mio buon volere tutto quello ch’io posso.
Essandro. E vi basta l’animo, signora mia, far cosí grande oltraggio al debito e alla riverenza che vi porto, cadendovi nell’animo ch’io disegnassi farvi cosí gran torto? Può dunque essere che, veggendomi scolpita nella fronte ogni mia voglia, facciate di me cosí iniquo pensiero? Non merita tanta asprezza la mia fede che vi osservo, né l’inestimabil amor che vi porto, amandovi sovra ogni cosa mortale. V'ho chiesto questa grazia sol per iscovrirvi certi secreti de’ nostri amori, non con quello animo certo che stimate; e con questo desiderio son venuto a provocar la grandezza del vostro animo a una grazia cosí segnalata. Tranquillate dunque ogni torbido del vostro cuore e scacciate da voi cosí vano sospetto. E se fedel servitú merita qualche guiderdone, fate forza a voi stessa a sodisfarmi; ché qui si tratta di far cimento della realtá dell’amor che dite portarmi, e di dar vita ad uno che ha sol cara la vita per spenderla in vostro onore.
Cleria. Padron mio caro, se son caduta in error di troppa amorevolezza, non vorrei cader in opprobrio di troppo sfacciatezza e disonestá; onde vi prego a non far cosa onde giuntamente abbiamo a pentircene, anzi voi stesso debbiate portarmene odio perpetuo. E se la cosa amata può impetrar alcuna grazia dal suo amante, vi prego che soffriate questo disgusto e compensiatelo per quando saremo nostri, col ricordo di non aver fatto mai cosa che onestissima non fusse stata.
Essandro. Misero me, non ancor conoscete la mia fede a mille segni? Assicuratevi tutta nella mia fede, ché la troverete piú fedele dell’istessa fedeltá, e sappiate che dubitar nella fede dimostra infedeltá.
Cleria. S’io non fusse fidelissima, non vi arrei amato e servito con tanta fede.
Essandro. E se mai fedel amor meritò che gli sia prestato fede, credetemi a questa volta; e se altramente vedrete succedere, vo’ che la vendichiate con quanta asprezza e crudeltá meritarebbe cosí iniqua discortesia. Io non ardirò alzarvi gli occhi su il viso, né far altro di quello che da voi, mia regina, mi sará espressamente comandato.
Cleria. L’amor che vi porto e la gelosia che ho dell’onor mio, stanno al pari ad una bilancia. Dio sa come posso negarlovi.
Essandro. Non mi avete detto poco anzi, signora, che voi me vi donavate e che eravate mia? Dunque, come di cosa mia ne vo’ disporre a quel che voglio, né voi potrete negarmi cosa alcuna; e il negarmi questa grazia è il negarmi voi stessa.
Cleria. Io non niego che non me vi abbi donata e che non sia tutta vostra; ma in quel solo che può apportar biasmo e disonore al nostro commune amore, mi sottraggo dal vostro imperio: e in quello mi prestiate per un poco a me stessa, e poi subito torno ad esser vostra piú che era prima.
Essandro. La donazione fu libera e senza queste eccettuazioni: vi dovevate pensar prima che donarmevi. Or essendo mia, vo’ disponere di voi come di cosa propria.
Cleria. Ma ditemi, signor mio, come io me vi donai tutta, cosí voi intieramente vi donaste a me: or come cosa mia e non vostra, io vi comando che non mi debbiate astringere a questo fallo. E se voi sète gentiluomo e non m’avete detto mentita, mi ubidirete; e se non m’ubidirete, è segno che mi vi sète dato per beffarmi e per mancarmi di parola; e io non vo’ per signor della mia vita persona che manchi al debito di gentiluomo.
Essandro. Imaginatevi, anima mia, che siate in un steccato dove si combatte con arme di amore e di cortesia; e se ben la vittoria rimane appo il vinto, pur è gran carico lasciarsi vincere di cortesia. Se questa speranza che ho in voi mi vien fallita, non mi resta altro che morte. Signora, a tanti oblighi aggiungete questo altro. La vostra cortesia vinca il mio merito; gradite la mia dimanda la qual quanto è piú importante, piú mi dimostra il vostro amore e la cortesia. Fioretta mia sorella m’ha riferito che per questo vicolo rare volte vi passa persona, e vi è una porta che vien dritto in camera vostra, e la balia ne tien la chiave: se ciò mi negate, dirò che non da téma di onore, ma vien da desiderio della mia morte.
Cleria. Io conosco, cuor mio, che non è cosa al mondo, per grande che sia, che voi non la meritiate. Mi sento tanto intenerita da’ vostri prieghi che non posso negarvi cosa che vi piaccia. Vo’ che le leggi d’amore e di cortesia abbino quella forza che conviene. Disponete dunque di me come cosa veramente vostra; entrate in questo vicolo, ché Nepita v’aprirá la porta.
Essandro. Ecco ch’io non posso non chiamarmi vinto dal nobilissimo animo vostro. Conosco che veramente m’amate.SCENA IV.
Panurgo, Alessio.
Panurgo. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno.
Alessio. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro.
Panurgo. Tu, Alessio, sei l’istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.
Alessio. M’uccidi tardando tanto a dirmi che vogli.
Panurgo. Essandro vi prega, straprega e scongiura che l’accommodiate per un giorno d’una veste da dottore.
Alessio. A che vuole egli servirsene?
Panurgo. Lo saprete poi: non lo dico adesso per non dar fastidio a questi che stan qui, che l’hanno inteso un’altra volta.
Alessio. A questo potrò servirti agevolmente; ché Facio mio padre se n’ha fatto far certe nuove per andare a leggere a Salerno nello Studio, e or sta in casa aspettando maestro Rampino che gli le porti. Partito che sará, che fia tra poche ore, ti potrò accomodar di quelle che lascia, per parecchi giorni.
Panurgo. Per chi le mandarete?
Alessio. Per Tofano, mio servidore, che vi conosce; o ne cercará altre in presto. Attendete all’altre cose da farsi, ché subito partito mio padre, le manderò; sol fate che non vi abbi a cercare.
Panurgo. Io abito qui presso: fate solo che compaia qui, che sará veduto.
Alessio. Cosí farassi.
Panurgo. Ma quello di che ti aremo maggior obligo, è la prestezza, ché non è cosa di che abbiamo maggior bisogno. Al vostro servo promettete la mancia da nostra parte, accioché corra e usi diligenza.
Alessio. Vado.
Panurgo. E se non possiamo per adesso darvene piena ricompensa, almeno conosceremo il beneficio e resteremo con obligo di riservirvelo; e perdonateci del fastidio che vi diamo.
Alessio. Or queste parole sí, che mi dánno fastidio; ché non potrei aver consolazione a par di quella che ricevo, che Essandro si avaglia dell’opra mia.
Panurgo. Ma io veggio Morfeo parasito che vien verso qua; non potrebbe comparir a tempo piú opportuno.
SCENA V.
Morfeo parasito, Panurgo.
Morfeo. Son omai stracco e non ho trovato ancora chi mi inviti a pranso: non ci è piú caritá né piú cortesia al mondo. Un tempo era invitato da quattro e da sei, chi mi strascinava di qua e chi di lá; e or sto un mese che non sono richiesto. Non mi servono piú i motti arguti, non le buffonarie, non il dir mal d’altri per dar spasso a' convitati.
Panurgo. (Sta morto di fame a punto come io desiava, benché la fame non l’abbandoni mai; ché non ho miglior mezzo per condurlo a quanto desidero).
Morfeo. E se pur m’invito da me stesso, tutti si trovano con una parola in bocca: che mangia altrove o non ave ancor digerito o vòl perdere quel pasto o che digiuna. O che ogni volta che dicono queste scuse gli cadesse un dente di bocca! Almeno la natura mi avesse fatto polpo, che nella gran fame potessi mangiarmi le braccia proprie.
Panurgo. (Farò vista di non essermi accorto di lui e di far un apparecchio, accioché gli aguzzi e susciti l’appetito). Olá, apparecchiate la tavola e ponetevi quei presciutti e verrine fredde; ...
Morfeo. (Dice bene, ché se non son cotti duo giorni prima, non vagliono. Gran filosofo deve esser costui delle cose della buccolica).
Panurgo. ... fate che quel gallo d’India sia piú pelato del pelatoio e tutto infilzato di fettoline di lardo, accioché cocendosi pian piano, venghi tenero, ben cotto e non disseccato; ...
Morfeo. (Questi vuol far frollo me, non quel gallo, ché sentendo questo apparecchio, tutto mi sento intenerire).
Panurgo. ... quei pasticci stieno sempre in caldo, accioché le midolle che vi sono per dentro e di fuori non si gelino e paiano assevati, ma che sieno caldi e ben strutti; ...
Morfeo. (Oimè, che a me si struggono le midolle dentro l’ossa!).
Panurgo. ... che le torte sfoggiate sieno ben cotte e succose, ma non tanto che nuotino nel brodo; ...
Morfeo. (Mi par che questi mi sia uscito dal corpo, tanto sa ben egli ordinare quanto desidero).
Panurgo. ... il vin sia fresco. Date prima il greco, poi la lacrima, poi tramezzate il chiarello e moscatello. E sopra tutto il presto sia in capo alla lista, accioché venendo con quel mio compagno, non abbiamo ad aspettare ma subito porci a tavola.
Morfeo. (Io non posso ascoltar piú: l’anima si ha fatto un fardello delle sue robbe e si vuol partire; lo stomaco s’è ribellato, m’ave occupato la gola e mi strangola. Ma a che tardo ad invitarmi da me stesso?). Oh, ben trovato il mio Panurgo galante, intendente della buccolica piú di tutti gli uomini del mondo!
Panurgo. Ben venghi Morfeo!
Morfeo. Seria da vero ben venuto, se venissi per un terzo a questo tuo cenino che apparecchi.
Panurgo. L’apparecchio per un mio amico di che ho da servirmene in un bisogno importantissimo.
Morfeo. Sèrvite di me, ché ti servirò al servibile e all’inservibile.
Panurgo. Vuoi tu prestarmi mille scudi?
Morfeo. Con che faccia cerchi a me mille scudi, che tutto intiero non vaglio dieci quattrini? Cercar dinari a me è come cercar acqua ad una pomice. Non posso altro prestarti se non la fame che ho adosso. Ma dammi da mangiare, e satollo vendimi ad una galea per quanto vaglio.
Panurgo. Io non ho bisogno di danari, burlo teco. Io ho bisogno di un ladro, infame, giuntatore, assassino, ...
Morfeo. Questi sono i titoli dell’arte mia.
Panurgo. ...tristo, cattivo, malizioso, astuto, truffatore, ...
Morfeo. Giá giá l’hai ritrovato.
Panurgo. ... bugiardo, mentitore.
Morfeo. Lascia dire a me: giotto, traditore, senza legge, senza fede, maldicente, scelerato, ingannatore. Di tutte queste cose ne ho fatto gran tempo professione e mercanzia e ne ho le botteghe e magazzini in questo petto.
Panurgo. Ma essendo tu cosí cattivo, come potrò io fidarmi di te, che non l’attacchi a me ancora?
Morfeo. Di ciò non dubitare, ché corvi con corvi non si cavano gli occhi.
Panurgo. Cosí tu fossi appiccato, come piú tristo uomo di te non si trova nel mondo!
Morfeo. Cosí tu fossi squartato, come lo meriti piú di quanti vivono!
Panurgo. Tu solo hai tanti vizi che, avendonosi a partire a tutta questa cittá, a tutti ne toccarebbe bona parte.
Morfeo. Allégrati, beato te, ché tu sei il priore, il monarca di tristi!
Panurgo. Per le tue grandezze meritaresti una collana.
Morfeo. E tu per le tue virtú una berlina.
Panurgo. Ho voluto dir che meriti esser un re.
Morfeo. E tu un principe di Cartagine.
Panurgo. Con un scettro in mano ben grosso e lungo per governatore e capo di quell’isoletta di legno che sta in mare.
Morfeo. E tu bersaglio di staffili.
Panurgo. Chi ti mirasse nel collo e ne’ piedi, penso che ci troverebbe un callo delle collane e di cerchietti che ci hai portati.
Morfeo. Chi ti vedesse le spalle, le troverebbe di piú colori che i tapeti che vengono di Soria.
Panurgo. O forche, o scale, o capestri, che fate?
Morfeo. O berline, o scope, o asini, dove sète?
Panurgo. Ma torniamo a casa, ché il tempo manca e le parole avanzano. E sovra tutto vorrei che appena accennandogli il principio, capisse il negozio e m’intendesse a cenno.
Morfeo. Anzi io in mirarti in faccia so quello che cerchi da me.
Panurgo. Dici da vero?
Morfeo. Piú che da vero.
Panurgo. E tu conoscesti la veritá mai?
Morfeo. L’ho inteso nominar cosí cosí; ma fu sempre mia capitalissima inimica.
Panurgo. La cagione?
Morfeo. Non ho mai doglia di testa se non quando son forzato dirne alcuna. E chi volesse a mezzo gennaio farmi sudar di sudor della morte, sforzimi a dire alcuna veritá. Né pensar che cosí sia io: cosí fu mio avo, bisavo, trisavo, ventavo e settantavo.
Panurgo. Orsú, ho trovato il bisogno. Conosci tu Gerasto medico, un certo uomo da bene?
Morfeo. Io non conosco niuno uomo da bene. Che ho a far io con loro? io non prattico se non con ribaldi, perché mi dánno da mangiare. Ma perché non andiamo a tavola e diamo una batteria a quel tuo apparecchio?
Panurgo. È troppo mattino.
Morfeo. Anzi mangiando presto la mattina, ogni cosa ti riesce a proposito quel giorno. Vuoi che vada a toccarli il polso, se avesse la febre?
Panurgo. La febre la devi aver tu nella gola per divorartelo; ma tu non assaggierai boccone se non prometti servirmi, anzi dopo servito.
Morfeo. Ti servirò a quel che tu vuoi, e ti loderai dell’opra mia.
Panurgo. Bisogna che tu finga esser uno sposo; e sconcierai la bocca, il viso e tutta la persona, di sorte che veggendoti il padre della sposa ti prenda a schivo e rivochi lo sponsalizio.
Morfeo. Se non mi saprò sconciar bene, piglia una ascia e sconciami a tuo modo. Ma, di grazia, avendomi a sconciar la bocca, fammi mangiar prima.
Panurgo. Mentre stiamo aspettando Alessio, un certo amico che ne manda le vesti a questo effetto, vuoi che te insegni a fingere quel che abbiamo a fare?
Morfeo. Imparami d’altro che di fingere: questo fu mio primo essercizio. Ma ecco il servo che ti porta le vesti.
Panurgo. Non viene a me, va dritto alla casa di Facio; deve essere il servo di maestro Rampino: vogliam far prova di torcele?
Morfeo. Eccomi all’ubidire.
Panurgo. Togliamcele calde calde.
Morfeo. Presto presto, che non puzzino.
Panurgo. Nasconditi, ascolta e vieni a tempo.
Morfeo. Mi nasconderò, ascoltarò e uscirò a tempo dall’imboscata.
SCENA VI.
Pelamatti, Panurgo, Morfeo.
Pelamatti. Non si vidde al mondo mai il piú bizzarro uomo di maestro Rampino. Mi pone le veste in spalla e dice: — Vai in tal parte, ché troverai un uomo alto basso, magro grasso, che si chiama Facio; dagli queste vesti. — Se tardo, i gridi vanno al cielo; se non fo l’effetto, gioca di bastonate; se fo errore, guardite Iddio. ...
Panurgo. (Non conosce né lui né la casa. Queste seran mie, se tutto il mondo non m’è contrario).
Pelamatti. ... Ché per potermi ricordar tanto, bisognarebbe un cervello di lionfante, e per camminar tanto, le gambe di dromedario; dove cervello n’ho poco piú d’una oca, e gambe cosí debili che appena mi reggono sovra, e senza scarpe ancora....
Morfeo. (Va troppo carico: ne ha pietade, lo vorrebbe alleggerire).
Pelamatti. ... Oh, trovassi alcuno che me lo insegnasse. Ma ecco il fico selvaggio nel muro: questa è dessa.
Panurgo. Fermati, oh, oh, oh! a chi dico io?
Pelamatti. So che non dici a me.
Panurgo. A te dico io, a te.
Pelamatti. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh?
Panurgo. Volevi tu spezzar quella porta?
Pelamatti. Ancora non ci era accostato.
Panurgo. Ti toglio la fatica di battere, e par che te ne spiaccia.
Pelamatti. E se fusse tua madre, aresti tanta paura che fusse battuta?
Panurgo. Se può dir mia madre, che questa mattina, uscendone, mi ha partorito.
Pelamatti. Dio ti facci esser nato in buon ponto. Figlio di questa porta, mi sapresti dir se dentro ci fusse Facio?
Panurgo. Facio ti sta innanzi e parla teco.
Pelamatti. Dunque, voi sète...
Panurgo. Sí, sí, Facio padre di Alessio.
Pelamatti. Me l’avete tolto di bocca, che proprio volea dimandarvi se voi eravate Facio.
Panurgo. Io son Arcifacio, son Faciissimo.
Pelamatti. Me ne vo dunque: voi non sète quel che cerco. Vo’ Facio, non Arcifacio né Faciissimo.
Panurgo. Io son quello che cerchi, or vengo dalla bottega di maestro Rampino, che mi desse le vesti; e disse avermele inviate per un suo servo; e or aspettandole stava passeggiando dinanzi la mia casa.
Pelamatti. Queste son dunque le vesti che aspettavate?
Panurgo. Sí, sí, queste son desse.
Pelamatti. Ancor non l’hai viste, e dici: sí, sí. Se le volete, venite in bottega.
Panurgo. Perché non me le dái tu qui?
Pelamatti. Non mi avete ciera di Facio.
Panurgo. Hai tu visto mai Facio?
Pelamatti. Non io.
Panurgo. Come dunque non ti ho ciera di Facio? Ma mirami bene, questa mia ciera non è tanto buona che ne potresti far candele?
Morfeo. (Sí da vero, céra proprio da esser bruggiata!)
Pelamatti. La céra mi par cattiva e il mele deve essere assai peggiore, perché mi hai ciera di un gran ribaldo. Poiché sète venuto adesso da mastro Rampino, ditemi, dove sta sua bottega?
Morfeo. (Oimè, siamo incappati, ché non la sappiamo).
Panurgo. Te lo dirò. Buttati giú per questa strada, e come sei a quel cantone che ti dá in faccia, torci il collo a man dritta; e quando sbocchi in quei cessi e lordure, cala giú finché darai di petto in un uscio; poi rovescia gli occhi su, ché vedrai l’insegna della fistola: il vicolo si dice del Maltivegna, incontro la casa di Perotto Malanno.
Pelamatti. A te oh come starebbe bene questa casa!
Panurgo. Anzi a te starebbono buoni questi duo luoghi, accioché quando l’uno ti fusse venuto a noia, mutassi nell’altro fresco e senza pagar pigione.
Morfeo. (Con questa burla ha saltato il fosso, il poltrone).
Pelamatti. Poiché aspettavate me, come mi chiamo?
Panurgo. Malaventura.
Pelamatti. Mala ventura arei da vero, se te le dessi. Io mi chiamo Pelamatti.
Panurgo. Tu ti chiami cosí, per scherzo, Pelamatti, perché poco pelo metti in barba.
Pelamatti. Di che etá è questo maestro Rampino?
Panurgo. Non l’ho mirato in bocca. Ma m’accorgo che tu hai poca voglia di darmele.
Pelamatti. Perché n’hai soverchia di riceverle.
Panurgo. Come se dicessi ch’io ti volessi rubar queste vesti.
Pelamatti. Come tu lo dicessi e io me lo vedessi.
Panurgo. Altri che tu m’arebbe credito di mille scudi.
Pelamatti. Tu potresti esser tesoriero del re, che non ti arei credito di un quadrino.
Panurgo. Ancora non mi è stata fatta tanta ingiuria!
Pelamatti. Il maestro m’ave ordinato che consegni queste vesti al padrone, non che le butti via. In questa terra si fan delle burle: veggio ch’hai la febre quartana d’averle nelle mani. Ma io perdo qui le parole.
Morfeo. (Giá è tempo uscir dagli aguati).
Panurgo. Ecco il servo che ho mandato per esse.
Morfeo. Padrone, maestro Rampino m’ha detto che un pezzo fa ve l’ha mandate per Purgamatti o Pelamatti suo servo.
Panurgo. Haigli tu dato i danari della fattura e de’ finimenti?
Morfeo. Sí bene, ecco la poliza della ricevuta.
Panurgo. È restato sodisfatto del tutto?
Morfeo. Sodisfattissimo.
Panurgo. Haigli tu rotta la testa, come t’ho detto, in farmi aspettar tutta questa mattina?
Morfeo. Signor no, perché mi disse avervele inviate, e datomi tante buone ragioni che mi parve degno di scusa.
Panurgo. Io la vo’ adesso rompere a te che non fai quello che ti comando.
Morfeo. Eh, padron, per amor di Dio, quel che non è fatto, pur siamo a tempo di farlo: ci andrò adesso. Ma quel delle vesti va via.
Panurgo. Dagli tanti calci su lo stomaco fin che vomiti il sangue.
Pelamatti. Non son tuo schiavo.
Morfeo. Perdonagli, padrone, che maestro Rampino m’ha detto che è un grossolano: non vedete che visaccio da bufalo? quella ciera parla e grida che è la magior bestia del mondo.
Panurgo. Giá mi era venuta la stizza al naso.
Morfeo. Daglile in nome... che non voglio dire, ché non so come abbi avuto tanta pazienza. Egli prima gioca de mani che de lingua. Padrone, è forastiero, non è uso a trattar con gentiluomini, tratta al modo del suo paese.
Panurgo. Andiamo a maestro Rampino; e s’egli in mia presenza non gli rompe la testa, la spezzerò a tutti duo.
Morfeo. Non andate, di grazia, padrone, ché costui le vuol dare a me. Dagliele.
Pelamatti. E ti par che gli le dia?
Morfeo. Ancor dici: mi pare?
Pelamatti. Salvi e contenti...
Morfeo. ...da’ mille cancheri che ti divorino o t’avessero divorato duo anni sono!
Pelamatti. Ecco te le dono. Ma fate che non venghi in bottega.
Morfeo. Camina, sgombra, fuggi, ché la tua presenza gli accresce rabbia.
Pelamatti. Se ho fatto errore, non mi manca la testa rotta. Orsú, ti lascio, ...
Morfeo. Che cosa?
Pelamatti. ... perché mi vo’ partire.
Morfeo. Mi pensavo che mi volessi lasciar qualche cosa: lascio io te.
Pelamatti. Non ho che lasciarvi se non miserie e povertá.
Panurgo. Non le voglio, portale teco.
Pelamatti. Voleva dir: ti lascio con bona ventura che ti aiuti.
Morfeo. N’hai tu piú bisogno di noi: che il maestro non ti rompa la testa, come s’accorgerá che sei stato burlato. Che ti par, so ben fingere?
Panurgo. Tanto bene che l’aresti dato ad intendere ad altra persona che non è lui. Oh, come ci ha giovato costui! Giá si può tener disfatto il matrimonio.
Morfeo. Andiamo a magnare, ché le vivande si guastano, e di qua ne sento la puzza.
Panurgo. Andiamo a travestirci, ch’Essandro ne deve aspettare.
SCENA VII.
Gerasto, Santina, Nepita.
Gerasto. (Questa mattina al far dell’alba ho fatto un sogno giocondissimo. Parevami che fussi divenuto un gatto rosso che avemo in casa, e stava innamorato d’una gatticella detta Bellina; e questa era guardata da una cagna rabbiosa. Parevami la cagna si partisse; la gattolina veniva a me, e mentre la facea miagolar come fussi mezzo gennaio, pareva che divenisse maschio come io. Ecco la cagna, la gatta fugge: cosí mi sveglio. Son stato strologando gran pezza che può significare, e l’interpreto cosí. Il gatto rosso son io, ch’ardo per Bellina, cioè Fioretta, guardata da una cagna rabbiosa — questa è mia moglie, piú rabbiosa d’ogni cagna; — quando si partirá di casa, la goderò. Quel divenir maschio non posso pensar altro se non che la impregnarò d’un figlio maschio. Or me ne vo in casa, ché questa mattina mia moglie disse volersi partire; e il mio sogno ará effetto).
Santina. Fate che quel gatto rosso si castri, e se non potete, strangolatelo e buttatelo in un cesso, come merita; ché non vo’ che vada su per i coppi de’ vicini.
Gerasto. (Oimè, che tristo augurio è questo? non lo potea sentir da peggior bocca!).
Santina. Nepita, Nepita!
Nepita. Signora.
Santina. Vien qui. (Io non mi parto di casa mai ch’io non lasci Fioretta serrata in camera con mia figlia col chiavistello, accioché, venendo mio marito in casa e non vi essendo io, non mi facesse qualche burla).
Nepita. (La gelosia ha posto cento diavoli adosso a questa vecchia: mi chiama la notte e il giorno mille volte per saper Fioretta dove sia).
Santina. Come hai tardato tanto?
Nepita. Avea il pistone in mano, l’ho forbito e riposto.
Santina. Dove è Fioretta?
Nepita. In camera con Cleria.
Santina. (O sia benedetto Iddio! come sta volentier con mia figlia, non se le distacca da lato mai; però l’amo piú del dovere). E che fa?
Nepita. Lavorano insieme.
Santina. Lavora volentieri?
Nepita. È tanto gonfia di voglia e sta tanto col pensiero dritto a quel lavoro, che par non vorrebbe mai far altro; né si riposa se non va tutta in sudore.
Santina. Da vero?
Nepita. Adesso l’ha posto l’aco in mano, e fanno quel lavore del punto brisato: piglia un filo e duo ne lassa de fuori.
Santina. Digli ch’io trovi finito lo staglio quando ritorno.
Nepita. Non bisogna dircelo, ché giocano a chi piú fa. Ma Fioretta lavora tanto gagliardo che Cleria gli cede e si dá per vinta.
Santina. Dille che si serrino dentro e ponghino il chiavistello.
Nepita. Ce l’han posto.
Santina. Non ci l’ho inteso entrare.
Nepita. Ci è dentro, vi dico.
Santina. Or esco con animo quieto. Tu sali su. Ben si dice che amor fa diventar gli uomini pazzi; poiché Gerasto mio marito, da che è intrato in questo farnetico d’amore, è uscito di gangheri, che non so come i fanciulli non gli tirino i sassi dietro. ...
Gerasto. (O che amorevol moglie, come ben cuopre i difetti del suo marito! Che deve dir di me, quando ha chi le ne domanda, ché or non sapendo a chi dirlo, lo va dicendo per le strade?).
Santina. ... Va attillato su la vita, profumato. Giunto a casa toglie lo leuto, canta, suona, sospira. La notte non dorme mai; e io per gelosia che non vada a Fioretta, sto sempre desta: mi dá la veglia. Non attende piú alla cura degli ammalati; ha due figlie in casa che gli paiono sorelle, e non prende cura di casarle; e se per altrui diligenza ne abbiamo maritata una, e aspetta lo sposo che d’ora in ora viene a casa, ne prende quella cura come se non venisse nella sua. ...
Gerasto. (Beato me, se nella mia morte avesse un oratore come costei, che onorasse i miei funerali!).
Santina. ... Ben fu infelice quel giorno che lo tolsi! ...
Gerasto. (Ben la tolsi io in mal punto per me!).
Santina. ... Che mi avessi rotto una gamba piú tosto, ...
Gerasto. (Mi avessi rotto il collo io!).
Santina. ...Sventurata me! ...
Gerasto. (Anzi me!).
Santina. ... ché non si trova piú sciagurato uomo!
Gerasto. (Ché non si trova la piú fastidiosa e bizarra diavola di te! E il peggio è che bisogna farle carezze contro mia voglia, per non farla suspetta del fatto. Orsú, bisogna far buon animo, come si avesse a tòrre una medicina). Ben trovata la mia moglie carissima, non posso tenermi che non ti baci un par di volte per amorevolezza!
Santina. «Chi ti fa quello che far non suole, o t’ha ingannato o ingannar ti vuole».
Gerasto. Non si può star sempre ad un modo, moglie mia cara.
Santina. Oh come odori di muschio, mi pari una profumeria.
Gerasto. Passando per la bottega di maestro Cesare profumiero, mi spruzzò un poco d’acqua nanfa sul volto.
Santina. Non so chi mi tiene la lingua.
Gerasto. Lasciamo il ragionar di questo adesso. Maritata che sará nostra figlia con questo romano, ci vogliam menare una vita la piú felice del mondo.
Santina. Come será questa vita felice?
Gerasto. Maritaremo subito Fioretta e la caveremo di casa, ché non è buona per servire: è troppo delicata, pare una gentildonna; ne troveremo una piú rustica, che possa spezzar legna, carriarle, far la bucata, star in cocina e sovra tutto, bisognando, toccar delle bastonate.
Santina. Fioretta l’ho maritata giá.
Gerasto. L’ho maritata io con un mio amico con men di dugento ducati di dote.
Santina. Io con men di cento.
Gerasto. Io con men di cinquanta.
Santina. Io con men... .
Gerasto. Lasciami finir di parlar, se vuoi. Colui se la torrá nuda.
Santina. Questo mio gli fará la sovradote.
Gerasto. Il mio gli dará cento ducati di piú.
Santina. Il mio, dugento.
Gerasto. Il mio... .
Santina. Anzi il mio... .
Gerasto. Tu non sai che voglio dire, e passi innanzi.
Santina. E tu dici prima che altri risponda.
Gerasto. Hai detto?
Santina. Sí bene.
Gerasto. Invano hai detto, perché l’ho maritata io prima che tu.
Santina. Io l’ho maritata e dato la mia fede, né posso contravenire al giuramento.
Gerasto. A te non sta maritarla, ma al padron della casa.
Santina. Impácciati tu di maschi, che a me tocca la cura delle femine.
Gerasto. Tu non ti intendi di matrimoni, a pena sai filare; attendi a filare.
Santina. E tu attendi a medicare. Ma qualche cosa ci è di sotto: non stimi ch’io abbi prima pensato a quello che tu pensi? Se tu mi tenti... .
Gerasto. Che cosa?
Santina. Vuoi che dica?
Gerasto. Di’ tosto.
Santina. Quella...
Gerasto. Chi quella?
Santina. ... che tu sai...
Gerasto. Che so io?
Santina. Tu non sai chi dico io, eh?
Gerasto. Ben fu grande la mia sventura aver te per moglie! che seccaggine, che febre, che inferno è questo? Che sia maladetto colui... , non lo voglio dire.
Santina. Che si fiacchi il collo chi fu il primo a farne parola!
Gerasto. Che fussi piú tosto morto che incorso in simil sciagura!
Santina. Non è stata né sará mai la piú infelice femina di me per esser maritata a tal uomo! Mira a chi ho data cosí bella dote e cosí grande intrata...
Gerasto. Tanto grande che la metá mi soverchieria; me ci affogo dentro.
Santina. ... e bella e profumata,...
Gerasto. Puzzulente piú d’una carogna.
Santina. ... senza quello che vi vien dietro, ché me l’hai guasto e consumato.
Gerasto. Menti per la gola! parla piú chiaro, bestia!
Santina. Non m’hai guasto e consumato tutto il correrio che hai avuto dietro la dote?
Gerasto. Quattro stracci fradici.
Santina. Non sono io nobile? non sei tu un povero medicaccio?
Gerasto. Se non fusse stato per me, i tuoi parenti sarebbono morti mille volte di fame.
Santina. Or vo’ cominciare a farti conoscere chi son io.
Gerasto. O misero me, quando questi sassi si rompono di stracchezza, ella adesso vuol cominciare! quando finirá, se adesso comincia? in ogni modo, tu hai da star di sopra.
Santina. Forse non son io la peggior femina trattata del mondo?
Gerasto. Ti batto, forse?
Santina. Guai a te, se avessi tanto ardire!
Gerasto. Di che dunque ti lamenti?
Santina. Mi fai star tutta la notte in un canton del letto, sola; e se per disgrazia ti tocco le gambe, subito: — Fatti in lá, che mi rompi il sonno, mi fai caldo. — Io non sono storpiata né mi puzza il fiato.
Gerasto. Tanti figli che abbiam fatto, dimostrano se ti abbi trattato male.
Santina. Questo fu cosí nel principio.
Gerasto. Or son vecchio, la complession non mi aiuta: vuoi che mi muoia?
Santina. Ci è altro sotto: lasci il tuo terreno incolto per cacciar il vomero nell’altrui terreni; ma s’io me ne accorgo, farò le mie vendette.
Gerasto. Su su, finiamola, ché saresti per durarla tutto oggi. Dove ti eri avviata?
Santina. Io non ho da uscire, vo’ tornarmene a casa.
Gerasto. Entriam, su presto.SCENA VIII.
Essandro solo.
Essandro. Veramente, i spassi amorosi sono i piú dolci che fioriscono ne’ giardini della gioventú, menáti dalla primavera degli anni. È degno che un sol momento di quelli s’acquisti con lunga e penosa servitú d’anni; perché questo sol piacere par che eguagli il sommo diletto che si può trovar qui in terra, e mentre si bacia il viso della amata donna, si ha quello contento compito che possa da noi gustarsi in terra. O felici e sovramodo felici coloro che in lieta coppia, da pari ardor feriti, amor gli annoda, e senza sospetto alcuno di gelosia si godono felici insino alla morte! Entrato che fui dentro, le persuasi il mio fatto; non ebbi molta resistenza. Baciandola, diceva che ii mio fiato sapea di quel di Fioretta; allora gli scoversi come io e Fioretta eravamo una cosa medema, e l’inganno che avea usato per servirla. Le dispiacque non avercelo scoverto al principio; ché senza inganno arei avuto da lei quello che in sí lungo tempo avea acquistato, né saressimo stati tanto tempo ociosi. E mi cercò perdono se mentre la serviva, non sapendolo, m’avesse offeso. Ahi, quanta sarebbe la mia gioia, se non fusse interrotto da questo romano! Ahi, che quanto è stato piú smisurato il piacere, tanto sará piú senza pari il dolore, sapendo che ho da lasciarla. O fortuna, che fusse nato senza cuore, ché or non seria ricetto di tante fiamme! Ma farò prima tutto quello che sará possibile, accioché i loro desidèri non abbino effetto. Andrò a travestirmi, ridur quelli a casa e attendere al fatto mio.