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222 la fantesca


Morfeo. Piú che da vero.

Panurgo. E tu conoscesti la veritá mai?

Morfeo. L’ho inteso nominar cosí cosí; ma fu sempre mia capitalissima inimica.

Panurgo. La cagione?

Morfeo. Non ho mai doglia di testa se non quando son forzato dirne alcuna. E chi volesse a mezzo gennaio farmi sudar di sudor della morte, sforzimi a dire alcuna veritá. Né pensar che cosí sia io: cosí fu mio avo, bisavo, trisavo, ventavo e settantavo.

Panurgo. Orsú, ho trovato il bisogno. Conosci tu Gerasto medico, un certo uomo da bene?

Morfeo. Io non conosco niuno uomo da bene. Che ho a far io con loro? io non prattico se non con ribaldi, perché mi dánno da mangiare. Ma perché non andiamo a tavola e diamo una batteria a quel tuo apparecchio?

Panurgo. È troppo mattino.

Morfeo. Anzi mangiando presto la mattina, ogni cosa ti riesce a proposito quel giorno. Vuoi che vada a toccarli il polso, se avesse la febre?

Panurgo. La febre la devi aver tu nella gola per divorartelo; ma tu non assaggierai boccone se non prometti servirmi, anzi dopo servito.

Morfeo. Ti servirò a quel che tu vuoi, e ti loderai dell’opra mia.

Panurgo. Bisogna che tu finga esser uno sposo; e sconcierai la bocca, il viso e tutta la persona, di sorte che veggendoti il padre della sposa ti prenda a schivo e rivochi lo sponsalizio.

Morfeo. Se non mi saprò sconciar bene, piglia una ascia e sconciami a tuo modo. Ma, di grazia, avendomi a sconciar la bocca, fammi mangiar prima.

Panurgo. Mentre stiamo aspettando Alessio, un certo amico che ne manda le vesti a questo effetto, vuoi che te insegni a fingere quel che abbiamo a fare?

Morfeo. Imparami d’altro che di fingere: questo fu mio primo essercizio. Ma ecco il servo che ti porta le vesti.