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atto secondo 219


Alessio. Or queste parole sí, che mi dánno fastidio; ché non potrei aver consolazione a par di quella che ricevo, che Essandro si avaglia dell’opra mia.

Panurgo. Ma io veggio Morfeo parasito che vien verso qua; non potrebbe comparir a tempo piú opportuno.

SCENA V.

Morfeo parasito, Panurgo.

Morfeo. Son omai stracco e non ho trovato ancora chi mi inviti a pranso: non ci è piú caritá né piú cortesia al mondo. Un tempo era invitato da quattro e da sei, chi mi strascinava di qua e chi di lá; e or sto un mese che non sono richiesto. Non mi servono piú i motti arguti, non le buffonarie, non il dir mal d’altri per dar spasso a' convitati.

Panurgo. (Sta morto di fame a punto come io desiava, benché la fame non l’abbandoni mai; ché non ho miglior mezzo per condurlo a quanto desidero).

Morfeo. E se pur m’invito da me stesso, tutti si trovano con una parola in bocca: che mangia altrove o non ave ancor digerito o vòl perdere quel pasto o che digiuna. O che ogni volta che dicono queste scuse gli cadesse un dente di bocca! Almeno la natura mi avesse fatto polpo, che nella gran fame potessi mangiarmi le braccia proprie.

Panurgo. (Farò vista di non essermi accorto di lui e di far un apparecchio, accioché gli aguzzi e susciti l’appetito). Olá, apparecchiate la tavola e ponetevi quei presciutti e verrine fredde; ...

Morfeo. (Dice bene, ché se non son cotti duo giorni prima, non vagliono. Gran filosofo deve esser costui delle cose della buccolica).

Panurgo. ... fate che quel gallo d’India sia piú pelato del pelatoio e tutto infilzato di fettoline di lardo, accioché cocendosi pian piano, venghi tenero, ben cotto e non disseccato; ...

Morfeo. (Questi vuol far frollo me, non quel gallo, ché sentendo questo apparecchio, tutto mi sento intenerire).