Pagina:Della Porta - Le commedie I.djvu/233


atto secondo 223


Panurgo. Non viene a me, va dritto alla casa di Facio; deve essere il servo di maestro Rampino: vogliam far prova di torcele?

Morfeo. Eccomi all’ubidire.

Panurgo. Togliamcele calde calde.

Morfeo. Presto presto, che non puzzino.

Panurgo. Nasconditi, ascolta e vieni a tempo.

Morfeo. Mi nasconderò, ascoltarò e uscirò a tempo dall’imboscata.

SCENA VI.

Pelamatti, Panurgo, Morfeo.

Pelamatti. Non si vidde al mondo mai il piú bizzarro uomo di maestro Rampino. Mi pone le veste in spalla e dice: — Vai in tal parte, ché troverai un uomo alto basso, magro grasso, che si chiama Facio; dagli queste vesti. — Se tardo, i gridi vanno al cielo; se non fo l’effetto, gioca di bastonate; se fo errore, guardite Iddio. ...

Panurgo. (Non conosce né lui né la casa. Queste seran mie, se tutto il mondo non m’è contrario).

Pelamatti. ... Ché per potermi ricordar tanto, bisognarebbe un cervello di lionfante, e per camminar tanto, le gambe di dromedario; dove cervello n’ho poco piú d’una oca, e gambe cosí debili che appena mi reggono sovra, e senza scarpe ancora....

Morfeo. (Va troppo carico: ne ha pietade, lo vorrebbe alleggerire).

Pelamatti. ... Oh, trovassi alcuno che me lo insegnasse. Ma ecco il fico selvaggio nel muro: questa è dessa.

Panurgo. Fermati, oh, oh, oh! a chi dico io?

Pelamatti. So che non dici a me.

Panurgo. A te dico io, a te.

Pelamatti. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh?

Panurgo. Volevi tu spezzar quella porta?