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218 la fantesca

SCENA IV.

Panurgo, Alessio.

Panurgo. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno.

Alessio. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro.

Panurgo. Tu, Alessio, sei l’istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.

Alessio. M’uccidi tardando tanto a dirmi che vogli.

Panurgo. Essandro vi prega, straprega e scongiura che l’accommodiate per un giorno d’una veste da dottore.

Alessio. A che vuole egli servirsene?

Panurgo. Lo saprete poi: non lo dico adesso per non dar fastidio a questi che stan qui, che l’hanno inteso un’altra volta.

Alessio. A questo potrò servirti agevolmente; ché Facio mio padre se n’ha fatto far certe nuove per andare a leggere a Salerno nello Studio, e or sta in casa aspettando maestro Rampino che gli le porti. Partito che sará, che fia tra poche ore, ti potrò accomodar di quelle che lascia, per parecchi giorni.

Panurgo. Per chi le mandarete?

Alessio. Per Tofano, mio servidore, che vi conosce; o ne cercará altre in presto. Attendete all’altre cose da farsi, ché subito partito mio padre, le manderò; sol fate che non vi abbi a cercare.

Panurgo. Io abito qui presso: fate solo che compaia qui, che sará veduto.

Alessio. Cosí farassi.

Panurgo. Ma quello di che ti aremo maggior obligo, è la prestezza, ché non è cosa di che abbiamo maggior bisogno. Al vostro servo promettete la mancia da nostra parte, accioché corra e usi diligenza.

Alessio. Vado.

Panurgo. E se non possiamo per adesso darvene piena ricompensa, almeno conosceremo il beneficio e resteremo con obligo di riservirvelo; e perdonateci del fastidio che vi diamo.