Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Appartamento delle due sorelle.

Giuseppina e Dorotea.

Giuseppina. Venite pur, signora, già il vecchio è uscito fuore.

Possiam liberamente parlar senza timore.
Dorotea. Timor di che? si provi. Ora son io venuta
Di fare un precipizio disposta e risoluta.
Può darsi un can più perfido, un can più furibondo?
Una bestia compagna non ho veduta al mondo.
Cacciarvi in un ritiro? chiudervi con violenza?
Un zio colla nipote usar tal prepotenza?
E per chi, maladetto? per chi? Per una serva,
Per una femminaccia ridicola, proterva.

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Giuseppina. Maledizion, cospetti, e poi cosa si fa?

Noi ci perdiamo in chiacchiere, e il tempo se ne va.
Cara zia, compatitemi, gridar non mi suffraga1.
Voglion essere fatti.
Dorotea.   Affè, voi siete vaga!
Che volete ch’io faccia? Altro far non mi resta.
Che dare a questo vecchio un colpo sulla testa.
Giuseppina. Lo strapazzar, signora, ed il menar le mani,
Son cose da plebei, son cose da villani.
Se altro non sapete trovar per aiutarmi...
Dorotea. Dunque, se non vi comoda, lasciate di seccarmi.
Giuseppina. Non si potria piuttosto..?
Dorotea.   A ogni cosa si oppone.
Si perde con costoro la lisciva e il sapone.
Giuseppina. Nel caso mio conviene...
Dorotea.   Tutto è la cosa istessa.
Giuseppina. Parlare, maneggiarsi...
Dorotea.   Vuol far la dottoressa.
Giuseppina. E ritrovare il mezzo...
Dorotea.   Non la posso soffrire.
Giuseppina. Lasciatemi parlare. (con caldo)
Dorotea.   Cosa vorreste dire?
Giuseppina. Dico così, signora, che vuole il caso mio.
Che al governo si vada ad accusar mio zio.
A dir che di una serva l’inganno e la malizia
Fa ch’egli alla nipote commetta un’ingiustizia.
Che l’unico rimedio per riparare il male,
È il far che si presenti in corte un memoriale.
E domandar giustizia, e far quel che va fatto,
E fuor di questa casa uscire ad ogni patto.
E trovar protezione di nobili soggetti,
E non sfiatarsi invano coi strilli e coi cospetti.
(con forza e sdegno).

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Dorotea. Or perchè vi scaldate? (placidamente)

Giuseppina.   Vedo che il caso mio...
Dorotea. Parlate con amore, come vi parlo anch’io.
Dite bene, al Governo ricorrere possiamo;
Facciasi il memoriale, e a presentarlo andiamo.
Giuseppina. Ma vi vuol protezione.
Dorotea.   Che protezion! venite.
Voglio che a questo vecchio promovasi una lite.
Vo’ che restituisca quel che ha il fratel lasciato,
E vo’ che renda conto di quel che ha maneggiato.
E a forza di litigi vo’ farlo intisichire.
Voglio che me la paghi, se credo di morire.
Giuseppina. E intanto che si litiga, ch’io maltrattar mi senta.
Dorotea. Che diavolo vi vuole per rendervi contenta?
Giuseppina. Giustizia, protezione, e andarmene di qua. (con ira)
Dorotea. Un malan che vi colga, giustizia vi sarà.
Giuseppina. Ma se voi...
Dorotea.   Ma se io...

SCENA II.

Fulgenzio e dette.

Fulgenzio.   Con licenza, signore.

So che il signor Fabrizio di casa è uscito fuore;
Onde di riverirvi presa ho la libertà,
Perchè bramo d’un fatto saper la verità.
Giuseppina. Certo; lo zio pretende che in un ritiro io vada.
Dorotea. Ma con un memoriale gli troncherem la strada.
Fulgenzio. Non parlava di questo, perchè lo so benissimo,
Che a simile violenza lo schermo è facilissimo.
Desidero sapere come la cosa è andata,
Come fu la sorella da Ippolito sposata. (a Giuseppina)
Giuseppina. Rosina?
Fulgenzio.   Sì, signora.
Dorotea.   Sposata?

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Fulgenzio.   Nol sapete?

Dorotea. Non lo so, e non lo credo.
Giuseppina.   Signor, v’ingannerete.
Fulgenzio. Come poss’io ingannarmi, se il vecchio adesso adesso
In Spezieria del Cavolo l’ha raccontato ei stesso?
E nominò il notaro che ha fatto l’istrumento,
E d’abiti e di gioje va a far provvedimento.
Giuseppina. Questa mi giunge nuova.
Dorotea.   Credo che voi sognate.
Fulgenzio. Si ha da saper s’è vero.
Dorotea.   Rosa dov’è? Aspettate. (parte)

SCENA III.

Fulgenzio e Giuseppina.

Fulgenzio. Questo sarebbe un torto alla maggior sorella.

Giuseppina. E che l’abbia permesso codesta ignorantella?
Fulgenzio. Non sarebbe gran caso che avesse acconsentito.
Qual è quella fanciulla che sdegni aver marito?
Giuseppina. E che si sia sposata senza dir nulla a me?
Fulgenzio. In casi di tal sorte ciascun pensa per sè.
Per comprar un vestito la donna si consiglia,
Ma se le danno un sposo, sta zitta, e se lo piglia.
Giuseppina. Crederlo ancor non posso.
Fulgenzio.   Diranlo i labbri suoi.
Ma s’ella si è sposata, sposatevi anche voi.
Giuseppina. S’ella fatto lo avrà, il zio sarà contento.
Fulgenzio. Non vi sarà bisogno del suo consentimento.
Da me il Governatore di tutto è prevenuto,
Ha promesso di darvi il necessario aiuto.
Esser non può tiranno lo zio colla nipote;
Vi dovrà per giustizia concedere la dote.
Subito dovrà farlo, se l’altra è collocata.
Giuseppina. E sarà la minore prima di me sposata?
Fulgenzio. Quello ch’è fatto, è fatto.

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Giuseppina.   Ma fatto non sarà.

Fulgenzio. Ecco qui la sorella.
Giuseppina.   Se è ver, mi sentirà.

SCENA IV.

Dorotea, Rosina e detti.

Dorotea. Eccola la sfacciata, ecco l’impertinente.

Giuseppina. Come, sorella ingrata, si fa senza dir niente?
Rosina. Oh, questa sì ch’è bella! Se me lo voglion dare,
Se dicono che il prenda, non me l’ho da pigliare?
Giuseppina. Siete sposata adunque.
Rosina.   Sposata? Io non lo so.
Fulgenzio. Non faceste la scritta?
Rosina.   La scritta? Signor no.
Giuseppina. Ma non venne il notaro?
Rosina.   Per me non è venuto.
Dorotea. Ha sottoscritto il vecchio?
Rosina.   Il zio non l’ho veduto.
Giuseppina. Chi ha fatto il matrimonio?
Rosina.   Vi dirò come è stata.
La donna di governo mi ha in camera chiamata.
Vi era il signor Ippolito. Mi ha detto qualche cosa.
Mi ha detto, se di lui voleva esser la sposa.
Mi vergognai da prima, sentendo a dir così.
Ma poi...
Dorotea.   Che avete fatto?
Rosina.   Ma poi dissi di sì.
Giuseppina. E si fece il contratto.
Rosina.   Non si fece niente.
Giuseppina. Vi erano testimoni?
Rosina.   Non vi era alcun presente.
Giuseppina. Che dite di notaro? Che dite di contratto? (a Fulgenzio)
Fulgenzio. Disse il signor Fabrizio, che il matrimonio è fatto.
Giuseppina. Sentite? (a Rosina)

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Rosina.   Io non so altro. Ippolito è partito,

E ha detto Valentina, che sarà mio marito.
Giuseppina. Sarà? Dunque non è. Se Ippolito andò via,
Dunque ci convien credere che sposo ancor non sia.
Dunque, signor Fulgenzio, non intendeste bene.
Dorotea. Se lo dico, Fulgenzio è un pazzo da catene.
Fulgenzio. La signora Rosina, care padrone mie,
Sappiam che dica il vero?
Rosina.   Oh, non dico bugie.

SCENA V.

Tognino e detti.

Tognino. Certo signor Ippolito vorria la padroncina.

Giuseppina. Facciamolo venire.
Rosina.   Chiamate Valentina. (a Tognino)
Tognino. Valentina, signora, è in camera serrata.
Picchiai, non mi rispose. La credo addormentata.
Anche il signor Ippolito volea parlar con essa.
Rosina. Dov’è il signor Ippolito?
Tognino.   Eccolo ch’ei s’appressa.
Rosina. Anderò io.
Giuseppina.   Fermatevi.
Dorotea.   La sciocca si è svegliata.
(a Rosina con derisione)
Rosina. Vi darò la risposta, quando sarò sposata.

SCENA VI.

Ippolito e detti.

Ippolito. Rosina... Uh quanta gente! Servo di lor signori:

(con timidezza)
Giuseppina. Venga, signor Ippolito.
Ippolito.   Grazie dei suoi favori.

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Fulgenzio. Amico, mi consolo. Siete alfin maritato.

Ippolito. Non ancora.... ma spero...
Fulgenzio.   Non siete voi sposato?
Ippolito. Sposato no, promesso. Non è vero, Rosina?
Rosina. È vero.
Ippolito.   Ho ben speranza di farlo domattina.
Fulgenzio. Ma il notar Malacura steso non ha il contratto?
Non faceste la scritta?
Ippolito.   Non ne so niente affatto.
Giuseppina. Ecco, signor Fulgenzio, codesta è un’invenzione.
Dorotea. Ma se l’ho sempre detto che Fulgenzio è un minchione.
Fulgenzio. Ora son nell’impegno. Voglio vedere un poco
Se ritrovo il notaro; so del suo studio il loco.
Vado e vengo, signore. Vi prego ad aspettarmi.
Dorotea. Andate, scimunito.
Fulgenzio.   Se è ver, saprò rifarmi.
(a Dorotea, e parte)

SCENA VII.

Giuseppina, Dorotea, Rosina, Ippolito e Tognino.

Ippolito. Cara la mia Rosina. (facendole uno scherzo)

Giuseppina.   Ehi, state con rispetto. (ad Ippolito)
Ippolito. Non è mia?
Giuseppina.   Non ancora.
Ippolito.   Oh muso benedetto, (a Rosina)
Giuseppina. Credetemi, signore, sì facile non è.
Che veggasi Rosina sposar prima di me.
Ippolito. Eh signora cognata, si sposi quando vuole.
Le auguro di buon core pace, salute e prole.
Dorotea. E potrà darsi ancora che della cara sposa
Vadan le nozze in fumo.
Ippolito.   In fumo? per che cosa?
Rosina. Non crederei.
Dorotea.   Può darsi.

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Rosina.   Davver?

Dorotea.   Ve lo protesto.
Rosina. Comanda lei?
Dorotea.   Fraschetta! so quel che dico.
Ippolito.   Io resto.
Giuseppina. L’affar chi ha maneggiato?
Ippolito.   Valentina, signora.
Giuseppina. Parlaste collo zio?
Ippolito.   Non l’ho veduto ancora.
Dorotea. Le nozze colle serve si trattano così?
No, non si farà niente.
Ippolito.   Or ora io casco qui.
Rosina. Non temete di nulla. (ad Ippolito)
Ippolito.   Davver? (con allegria)
Rosina.   Fino ch’io viva,
Sarò vostra.
Ippolito.   Davver?
Rosina.   Ve lo prometto.
Ippolito.   Evviva.
(saltando per allegrezza)

SCENA VIII.

Fulgenzio, il Notaro e detti.

Fulgenzio. Ecco, ecco il notaro. Il signor Malacura

Vi dirà da se stesso, se fatta ha la scrittura.
Notaro. Sì, signori, l’ho fatta, non son tre ore ancora.
Fulgenzio. Sono io il scimunito2? Che dice la signora? (a Dorotea)
Dorotea. Han sottoscritto i sposi? (al Notaro)
Notaro.   Certo, di mano in mano
Hanno il nuzial contratto soscritto di lor mano3.
Dorotea. E voi, signor bugiardo (a Ippolito), e voi, sciocca
  insolente, (a Rosina)
Venite a dire a tutti che non sapete niente?

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Rosina. Io ho firmato la scritta? (al Notaro)

Ippolito.   Io ho sottoscritto? (al Notato)
Notaro.   Oibò.
Giuseppina. Non sono questi i sposi? (al Notato)
Notaro.   Questi? Signora no.
Dorotea. Oh bella!
Giuseppina.   Oh, questa è buona!
Fulgenzio.   Dunque chi sono stati?
(al Notaro)
Notaro. Mi par, se mi ricordo... Ecco, li ho qui notati:
(tira fuori un taccuino)
Valentina Marmita e Baldissera Orzata.
Giuseppina. La donna di governo.
Dorotea.   L’amico l’ha sposata.
Fulgenzio. L’equivoco è curioso.
Dorotea.   Che sì, che siete sordo?
Fulgenzio. Ma se Fabrizio istesso...
Dorotea.   Eh via, siete un balordo.
Fulgenzio. È un po’ troppo, signora...
Giuseppina.   Ma come mai può darsi.
Che il vecchio di tal cosa non abbia ad isdegnarsi?
Dite, signor notaro, l’ha saputo il padrone?
Notaro. Anzi vi ha posto anch’egli la sua sottoscrizione.
Giuseppina. Come diavolo mai?... V’è dote nel contratto?
(al Notaro)
Notaro. Sì, quattromila scudi...
Giuseppina.   Egli è impazzito affatto.
Dorotea. Guarda se vi è il padrone. (a Tognino)
Tognino.   Sì signora.
Dorotea.   Cammina.
(a Tognino)
Tognino. (Voglio veder, s’io posso avvisar Valentina).
(da sè, e parte)
Notaro. Quand’io salia le scale, mi par, se non ho errato.
Che il padrone di casa sia nel cortile entrato.

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Dorotea. Andiam, venite meco; andiam, vo’ che parliamo.

Se c’è, facciamo subito, s’egli non c’è, aspettiamo.
Che parli di rttiro, che torni a far il pazzo;
Che il diavolo mi porti, se anch’io non lo strapazzo.
(parte)
Giuseppina. Andiam, signor Fulgenzio. Vo’ che mi senta il zio.
Se vuol dotar la serva, non lo ha da far col mio.
Per darlo a quella indegna, toglierlo a me procura;
Ma si farà dal giudice stracciar quella scrittura.
Mia zia fa gran parole, ma io farò dei fatti.
La giustizia per tutto sa castigare i matti. (parte)
Fulgenzio. Venga, signor notare.
Notaro.   Dove?
Fulgenzio.   Venga con noi.
Venga; ricompensati saranno i passi suoi.
(L’aspetto della sorte spesso cambiar si vede,
E talor da un disordine un ordine procede).
(da sè, e parte)
Notaro. (Per quello che si sente, par vi sia dell’imbroglio.
Per me basta che paghino, altro cercar non voglio).
(da sè, e parte)
Ippolito. Ci hanno lasciati soli. (a Rosina)
Rosina.   Andiamcene ancor noi.
Ippolito. Non potrei un pochino solo restar con voi?
Rosina. Signor no, non conviene; soli staremo allora
Che saremo sposati.
Ippolito.   Cara, non vedo l’ora. (partono)

SCENA IX.

Altra camera.

Valentina sola.

Povera me! che sento? La trama è già svelata.

Manco mal che Tognino di tutto mi ha avvisata.
Sanno il mio matrimonio, e credono sinora

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Che il padrone lo sappia, e sia d’accordo ancora;

Ma se con lui si abboccano, se parlan di tal fatto,
Come potrò, se il chiede, nascondere il contratto?
La carta è in mano mia, posso celarla... è vero;
Ma sospettoso il vecchio lo crederà un mistero.
Sono in un brutto impaccio. Ah sorella malnata,
Tu sei la mia rovina, tu m’hai precipitata.
Fin ch’io fui da me sola, mi ressi in questo loco,
Tentando e migliorando la sorte a poco a poco.
Ella, sia per amore, oppur per interesse,
Uscir mi ha consigliato da quelle vie permesse.
Il cielo, il ciel permette, pel mal che noi facciamo,
Che la ragion si perda, che ciechi diveniamo.
E quel che intesi dire, or nella mente ho fisso,
Che in un abisso entrando, si va nell’altro abisso
Or che sarà di me, di lei, di Baldissera?
Tutti precipitati saremo a una maniera.
Ma il perdere, pazienza, la grazia del padrone;
Perderò in faccia al mondo la mia riputazione.
Ed io che tanto feci per esser rispettata.
Dovrò di questa casa uscir disonorata?
Povera me! Vien gente. Vo’ a mettermi in un canto.
Quel ch’io debba risolvere, mediterò frattanto.
S’esco da tal pericolo, giuro di mutar vita.
Giuro, per fin ch’io viva, di vivere pentita.
Ah se alcun mi sentisse, direbbe: il marinaro
Si scorda del pericolo, quando passato ha il faro.
Ma io no certamente. Farò una mutazione.
Bastami di salvare la mia riputazione. (parte)

SCENA X.

Giuseppina, Dorotea, Rosina, Fulgenzio,
Ippolito, il Notaro.

Fulgenzio. Non ci vuole in sua camera, vuol che aspettiamo qui.

Dorotea. Non mi parto, se credo star fino al nuovo dì.

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Giuseppina. E dov’è Valentina, che non si vede intorno?

Dorotea. Sarà col caro sposo a consumare il giorno.
Ippolito. Anch’io colla sposina un dì mi tratterrò.
Rosina. Ecco lo zio; parlategli. (ad Ippolito)
Ippolito.   Oh, mi vergognerò.

SCENA XI.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Che nobile congresso!

Dorotea.   Siam stanchi d’aspettare.
Fabrizio. Se siete stanca, andate; con voi non ho che fare.
Giuseppina. Orsù, non siam venuti per taroccar.
Fabrizio.   Domani
Voi nel ritiro andrete. (a Giuseppina)
Dorotea. (Mi pizzican le mani). (da sè)
Giuseppina. Io dunque nel ritiro andar son destinata.
E Rosina, signore?
Fabrizio.   Rosina è maritata.
Giuseppina. Pria di me si marita?
Fabrizio.   Quello ch’è fatto, è fatto.
Ecco appunto il notaro che ha steso il suo contratto.
Notaro. Io, signor? Non è vero.
Fabrizio.   Come! avete bevuto?
Notaro. Ad un par mio, signore? Sono un uom conosciuto.
Il contratto ch’io feci, non fu per questi qui.
E voi ben lo sapete.
Fabrizio.   Oh cospetton! per chi?
Notaro. Se poi sposar volete la signora Rosina,
Per lei farò la scritta. (a Fabrizio)
Fabrizio. Zitto (al Notaro), ov’è Valentina?
(guardando intorno)
Valentina, ove siete? Sento tremarmi il cuore.
Valentina. Chiamatela.

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SCENA XII.

Valentina e detti.

Valentina.   Eccomi qui, signore.

Fabrizio. Cosa dice costui? (accennando il Notaro)
Valentina.   So quel che dir volete.
Se mi udirete in pace, tutto, signor, saprete.
Ascoltatemi voi, m’oda la terra e il cielo.
Il carattere mio sinceramente io svelo.
Nacqui in bassa fortuna, del mio destin mal paga
La condizion servile di migliorar fui vaga,
E in queste soglie istesse i conquistati onori
Mi guadagnai coll’opera, e mi costar sudori.
Che non fec’io, signore, per acquistar concetto?
Che non fec’io per essere gradita in questo tetto?
Tutti servir m’accinsi, e le padrone istesse
Potean de’ miei servigi esser contente anch’esse.
Ma per destino avverso da voi fui troppo amata,
E l’amor del padrone render mi fece odiata.
L’odio l’odio eccitando, anch’io di sdegno accesa,
La vendetta schernita colla vendetta ho resa,
E l’animo ripieno di femminil dispetto,
Disseminai pur troppo discordie in questo tetto.
Ma questo è il minor fallo, più desta il mio rossore
Fiamma che ho coltivato di un imprudente amore.
Venni a servir qua dentro dal primo amor piagata.
Gli occhi di Baldissera m’aveano innamorata;
E a voi celando il foco che ardea ne’ petti nostri,
Piacevole un po’ troppo mi resi agli occhi vostri.
Una povera figlia senza sostanza alcuna
Cercò mal consigliata di far la sua fortuna.
So che l’error fu grande, ma mi sedusse il cuore
Il comodo, l’esempio, la povertà, l’amore.
Giunsi coll’amor mio soverchiamente ardito
Far creder di Felicita quel ch’io volea in marito;

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E da un error passando a più studiati eccessi,

Giunsi a sposar l’amante sugli occhi vostri istessi.
Era per me il contratto. A voi da me fu letto,
Tacciando de’ vostri occhi il debole difetto.
Sostituito ho il nome, e i scudi diecimila
Letti da me con arte non son che quattromila.
Di quattromila scudi son ricca a vostre spese;
Renderli son disposta a voi senza contese.
Povera son venuta, povera tornar voglio.
Detesto le menzogne, detesto il folle orgoglio.
So che merto castigo, so che un’ingrata io sono.
Eccomi a’ vostri piedi a domandar perdono.
(si getta a’ piedi di Fabrizio)
Fabrizio. (Sì mostra confuso fra la rabbia e l’amore, facendo alcuni movimenti che mostrano le due passioni.)
Ah trista!... (oh me infelice!...) Vattene... (Ah mi martella!)
Che tu sia maladetta... Alzati... (Oh sei pur bella!)
Dorotea. Brava, signora sposa!
Giuseppina.   Valentina garbata!
Valentina. Abbastanza, signore, son io mortificata.
La caritade insegna non avvilir gli oppressi.
Tutti abbiamo bisogno di esaminar noi stessi.

SCENA ULTIMA.

Felicita, Baldissera e detti.

Felicita. Sorella, cos’è stato? (a Valentina)

Baldissera.   Cos’è stato, cognata? (a Valentina)
Fabrizio. Fuor di qua, manigoldo. (a Baldissera) Fuor di qua, scellerata.
(a Felicita)
Baldissera. A me? che cosa ho fatto?
Felicita.   A me? siete impazzito?
Valentina. Sorella, Baldissera si sa ch’è mio marito.
E voi che a questo passo mi avete consigliata.
Meco a parte sarete della fortuna irata.

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Baldissera. La dote? (o Valentina)

Valentina.   Quanto ho al mondo, vo’rendere al padrone.
Baldissera. Rendimi dunque tosto tu pur l’obbligazione.
(a Felicita)
Valentina.   Che obbligazion?
Baldissera. Per fare ch’io fossi tuo marito,
Di quattrocento scudi l’obbligo mi ha carpito.
E il notar l’ha soscritto. (accennando il Notaro)
Notaro.   Io fei quel che m’han detto.
Valentina. Rendigli quello scritto. (a Felicita)
Felicita.   Fattene un fazzoletto.
(dando la carta a Baldissera, e parte)
Dorotea. E ben, con quest’istorie, signor, cosa faremo?
(a Fabrizio)
Fabrizio. Non mi rompete il capo.
Dorotea.   Noi ci rimedieremo.
Si farà un memoriale, e si vedrà in poch’ore,
Se possa più in Milano voi o il governatore.
Fabrizio. Non mi seccate più, fate quel che volete.
Andate, andate subito al diavol quanti siete.
Ah strega disgraziata! (a Valentina)
Valentina.   (Pure ancor mi vuol bene). (da sè)
Dorotea. Orsù, nipoti mie, risolvere conviene.
Ecco pronto il notaro; non mancan testimoni!
Senza seccar lo zio, facciamo i matrimoni.
(il Notaro prende in nota i nomi dei quattro sposi)
Fabrizio. Avesti cor?... Briccona. (a Valentina, singhiozzando)
Baldissera.   (Ritornerà qual fu).
(piano a Valentina)
Valentina. (Ma di quell’arti indegne io non mi vaglio più).
(a Baldissera)
Baldissera. (S’ha da mangiar).
Valentina.   (Lavora).
Baldissera.   (Basta. Si proverà).
Valentina. (Se sarai galantuomo, il ciel t’aiuterà).

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Baldissera. (Almeno aver procura da viver per un poco).

Valentina. (L’anello? I cento scudi?)
Baldissera.   (Ah, li ho perduti al gioco).
Valentina. (Ah Felicita indegna! m’ingannò ancora in questo).
Baldissera. (Oh gioco maladetto! ti lascio e ti detesto).
Dorotea. Bene, signor notaro, distenderà i contratti.
Già ha inteso delle doti le condizioni e i patti.
Intanto per non perdere questa giornata in vano,
Tutti quattro gli sposi si porgano la mano.
Giuseppina. Signor zio, si contenta? (a Fabrizio)
Fabrizio.   Sì, vi do la licenza. (arrabbiato)
Fulgenzio. Permette, signor zio? (a Fabrizio)
Fabrizio.   Sì. (arrabbiato) (Non ho sofferenza).
Rosina. Signor, mi fa la sposa? (a Fabrizio)
Fabrizio.   Ma sì, ma sì, l’ho detto.
(come sopra)
Ippolito. Mi farebbe la grazia?... (a Fabrizio)
Fabrizio.   Lo fanno per dispetto.
(battendo i piedi, ed Ippolito si spaventa)
Dorotea. Cosa occorre che andate a rendergli molestia?
Non lo sapete ancora che Fabrizio è una bestia?
Fabrizio. Una bestia? una bestia?
Dorotea.   Siete gentile, umano.
Via, via, che si finisca; porgetevi la mano.
(ai quattro sposi)
Fulgenzio. Siete mia. (dando la mano a Giuseppina)
Giuseppina.   Sono vostra. (dando la mano a Fulgenzio)
Ippolito.   Ecco la man. (a Rosina)
Rosina.   Pigliate, (ad Ippolito)
Dorotea. Cento miglia lontani da quel demonio andate.
(accennando Fabrizio)
Fabrizio. No, un diavolo non sono, io sono un insensato,
Or che da quella ingrata son stato assassinato.
Barbara, hai tanto cuore? Non ti fo compassione?
Potrai abbandonare il povero padrone?

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Baldissera. (Urla, e fa cenno a Valentina che si raccomandi.)

Valentina. Or che son maritata, signor, vuol l’onor mio,
Che di qua me ne vada con mio consorte anch’io.
Seguir voglio il costume delle consorti oneste.
Mi ricorderò sempre del ben che mi faceste.
Quel che ho male acquistato, vi rendo immantinente.
Fabrizio. No, portate via tutto. Da voi non vo’ niente.
Godetevelo in pace. Il ciel vi dia quel bene.
Che a me per causa vostra sperar più non conviene.
Vi perdono ogni cosa, mi scordo delle offese.
Venite a ritrovarmi almen due volte al mese.
Valentina. Accetto volentieri il generoso invito.
Sì, verrò a ritrovarvi unita a mio marito.
Nuovamente vi chiedo perdon di vero cuore.
Chiedo, di quel che ho fatto, perdono alle signore;
Lo chiederò umilmente a chi mi soffre e onora,
Perdon da chi mi ascolta il mio rispetto implora.
Se donne di governo mi avessero ascoltata.
Lo so che giustamente mi avranno criticata.
Dal teatro alla casa vi corre un gran divario,
Un carattere è il mio del tutto immaginario.
L’ha sognato il poeta, e poi l’ha posto in scena,
Che di femmine buone tutta la terra è piena.

Fine della Commedia.


Note

  1. Edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc.: gridare non suffraga
  2. Ed. Zatta: Son io lo scimunito?
  3. Ed. Pitteri: di sua mano.