La dalmatina/Nota storica

Nota storica

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Atto V
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NOTA STORICA

Il dispetto per la truffa patita, forse nel 1743, per colpa di un autentico o falso ingaggiatore raguseo smalti il nostro autore assai anni dopo goldonianamente — in un’allegra commedia, L’Impostore; nè il malinconico episodio, che gli costò fior di quattrini, scemò in nulla la simpatia ch’ebbe sempre calda per la nazione “tutta cuore” — come scrive Gaspare Gozzi — di quegli uomini “veramente maschi che costumano universalmente su quella riva, alla quale hanno dato il cognome” (Gazzetta Veneta, 18 giugno 1760). A tener viva tale simpatia sarebbe bastata la fida e salda amicizia che lo strinse — a Venezia e da Venezia lontano, sino alla più tarda vecchiaia, perchè ne ritroviamo il nome tra i sottoscrittori delle Memorie — a Stefano Sciugliaga di Ragusa, prima direttore della stamperia Baglioni a Venezia, e dal 1773 segretario sopraintendente alla censura dei libri a Milano. Il quale nell’ardore delle polemiche, suscitate dalla riforma, scrisse in verso e in prosa a difesa del commediografo, e a lui, esule a Parigi, fu mediatore disinteressato e prezioso presso Francesco Vendramin, proprietario del Teatro San Luca. Forse col pensiero rivolto all’amico, il Goldoni nella Calamita dei cuori, libretto per musica, fa dall’eroina Bellarosa una “vezzosa ragusea” fiera della sua città.

Ma testimonianza più efficace dell’interesse suo per i dalmati resta questa sua tragicommedia La Dalmatina — recitata nell’autunno del 1758, che gli sarebbe stata ispirata — dicono le Memorie — da un dramma della Du Boccage, letto probabilmente dal Goldoni nella buona traduzione di Luisa Bergalli Gozzi (1756, Venezia, Bassaglia, col testo originale a fronte).

In questo la scrittrice francese, che deve più al fascino personale che alle sue opere molta parte della sua notorietà anche tra noi, rinnova a suo modo l’antica saga, trattata più tardi con ben altra forza e spirito dal Kleist. Orizia, regina delle Amazzoni e sacerdotessa di Marte, presa d’amore per Teseo, il nemico vinto e fatto prigioniero in battaglia, vorrebbe sottrarlo al sacrifizio, a cui lo condanna la legge del loro regno. Teseo, che s’invaghisce a sua volta e n’è riamato di Antiope, principessa ereditaria del trono, riesce con l’aiuto de’ suoi a liberarsi, e di sorpresa si rende padrone di Temiscira, la città delle Amazzoni; ma, generoso, non le assoggetta. Unico, ambito frutto della sua vittoria è Antiope, che lo segue in Grecia, mentre Orizia, disperata, si uccide.

“J’imaginai une pièce à peu près du même genre” scrive il Goldoni. Ma non è agevole scorgere vera affinità con la favola goldoniana, dove una ragazza dalmata, Zandira, mentre, accompagnata dal padre suo, sta per raggiungere il capitano Radovich, suo sposo, ch’ella ancora non conosce, vien presa e portata a Tetuan dai corsari, il capo dei quali la vuole nel suo serraglio. Ma essa s’è innamorata d’un suo compagno di cattività, il greco Lisauro, [p. 90 modifica] che per farsi amare conoscendo l’avversione dei Dalmati per la sua nazione (Memorie) si spaccia per cittadino di Spalato. In questa figura il Goldoni volle evidentemente rilevare il contrasto fra dalmati e greci delle isole ionie, soggetti tutti e due a Venezia, ma insinceri questi e, al caso, rinnegatori della propria nazione, quanto leali a sè e al proprio governo gli altri. Accorre presto colà il Radovich e libera dall’avidità del governatore con l’oro e dalla tracotanza del corsaro Alì col proprio valore la sposa e gli altri schiavi. Zandira che ha intanto scoperto Lisauro già legato ad un’altra donna, si volge tutta al valoroso capitano, a cui era destinata.

La somiglianza fra i due drammi sta, se mai, nella figura dell’amante, conteso fra due donne — punto del resto onde muove già la Sposa persiana — e in quel tanto di ardimentoso e di guerresco ch’è nel linguaggio e negli atti della protagonista Zandira, che dalla violenza del corsaro Alì si difende con la scure. Ben poca cosa. Il debito che l’autore afferma di avere con la poetessa francese sembra più che altro un complimento alla donna gentile, ch’egli aveva conosciuto nel 1757 a Venezia in casa Farsetti (Recueil des Oeuvres de Mad. Du Bocage, Lyon. 1762, III. p. 159 segg., e Goldoni, Mémoires, II, cap. 34), e il cui salotto frequentò a Parigi (cfr. dedica della Donna di maneggio — Alla celebre e virtuosa, la signora Du-Bocage ecc. e la lettera della Du B., del 24 marzo 1763, all’Algarotti, in Opere del co. A. Venezia, 1794, tomo XVII, p. 127) A buon conto l’accenno alla fonte venne appena nelle Memorie (1787). non nella Premessa alla commedia.

La Dalmatina ebbe assai “felice esito” (L’Autore a chi legge); ma forse più a Venezia che altrove, perchè nella lettera di dedica si legge: “La mia Dalmatina è una di quelle commedie che in Venezia principalmente mi hanno fatto il maggior onore ”. I dalmati, quei “valorosi fedelissimi sudditi della Repubblica di Venezia ”, affollarono quella sera il teatro, non senza un po’ d’apprensione che l’autore si fosse permesso qualche tratto di licenza poetica sul carattere rispettabile della loro nazione (L’a. a chi legge). Restarono invece ben lusingati degli altissimi elogi che il poeta intona alla schietta natura, al valore e alla fedeltà loro a San Marco. E il Goldoni a sua volta si compiacque del loro plauso e più ancora dice nelle Memorie d’aver soddisfatto l’amico Sciugliaga.

Conferma eloquente più d’ogn’altra del buon successo è in una lettera del Vendramin (Mantovani, p. 118). Di fronte al progetto, accarezzato dal Goldoni, di nove commedie, che ciascuna rispondesse al carattere d’una musa, gli scrive: (Mantovani. G. C. e il Teatro San Luca, p. 117) “Circa la sua idea, da me sarà custodita con il maggior de’ secreti; ma la prego a riflettere, che le commedie in presente piacciono quando sono teatrali, e non di parole, o di solo carattere. Nulla più le dico, perchè ella ha veduto, che la sola Dalmatina ha avuto l’assenso del popolo; sicchè la conseguenza è chiara..... Già la Dalmatina era piaciuta, com’erano piaciute le Persiane, la Peruviana, la Bella Selvaggia e si poteva continuare per quella strada. Da buon impresario S. E. Vendramin badava più alla cassetta ricolma che all’arte pura.

Questa volta dunque, pure portando la scena a Tetuan nel lontanissimo Marocco, il Goldoni volle restare un po’ vicino a casa sua e immagina centro [p. 91 modifica] dell’azione una coppia schiavona, quale attenzione affettuosa a quella terra. Non che della Dalmazia avesse proprie esperienze. V’era stato si quel caposcarico di suo fratello Giampaolo, e tutti sanno che con la descrizione del suo soggiorno a Zara. Carlo Gozzi compose i più piacevoli capitoli delle sue Memorie inutili. Ma la vicina provincia, per la presenza di tanti suoi figli militari, barcaioli e negozianti, era famigliare ai veneziani, e più d’una parola illirica s’era intrufolata nel dialetto delle lagune, di che attesta anche qualche commedia del Nostro (Sior Todaro brontolon, II. 4: Morbinose III. 1: Casa nova I, 10). E bensì vero che il Goldoni, patriotta fervidissimo, negli schiavoni così fedeli soldati di Venezia, esalta anzitutto e sempre la sua Venezia, e lo dice: “Si tratta in essa (commedia) di una nazione fedele, e benemerita alla Repubblica Serenissima: si tratta in qualche maniera del nome glorioso de Veneziani, del valor de’ Schiavoni o del rispetto che gli uni e gli altri esigono principalmente sul mare”. E se il capitano Radovich si vanta di portare regolarmente il suo Leone in petto, il Goldoni aggiunge per suo conto: “Questo è quel Leone glorioso, che gelosamente in petto anch’io custodisco, che mi ha animato a scrivere questa Commedia, che mi ha ispirato i tratti e i sentimenti, che hanno formato il maggior piacere della commedia”.

La nota patriottica, frequente a Venezia nelle composizioni del tempo. non era finzione retorica, ma sentimento sincero, come bene avvertiva l’abate Richard, citato da Giuseppe Ortolani (Patria e libertà nei teatri veneziani del settecento, Gazz. di Ven., 2 gennaio 1926): “Colà si trova realmente quell’amor della patria che da tanto tempo si decanta, che dappertutto si loda, e che in nessun luogo come a Venezia” offre esempi”così sensibili gareggiando in esso a prova tutte le classi di cittadini.“

Lo stesso Goldoni aveva composto nel 1752, per l’esaltazione di Francesco Loredan al trono, una serenata, L’amor della patria e con lo stesso titolo composero nel 1758 una tragicommedia il Chiari (L’amore della patria ovvero Cordova liberata da’ Mori) e nel 1775 una cantata Gaspare Gozzi, il quale trovò ampia occasione a sfoghi patriottici anche nei suoi drammi Marco Polo e l’Isaccio liberato. Ma proprio l’anno prima della Dalmatina, all’abate bresciano con una sua commedia eroica, L’amore di libertà, data al S. Angelo, era toccato — pensa Ortolani — forse il suo maggior trionfo, tanto il popolo si esaltava agli ardimenti della schiava Zaira che si getta da un’alta muraglia, incendia un vascello, affronta con un pugnale un gruppo di mori e in un giro di sole passa dal carcere a un trono! Chi sa che la prima idea della sua Dalmatina non sia venuta al nostro autore da quest’avventurosa commedia del Chiari prima che dal classicheggiante dramma francese?

Caldi accenti d’amor patrio danno a questo, tra tutti i drammi esotici dell’autore, un carattere suo. Non che questo sentimento, per sincero che sia, basti a dar vita a un opera di poesia. Con altre commedie, vive oggi come il giorno che nacquero, il Goldoni onorò ben diversamente la sua Venezia che con le tirate patriottiche della Dalmatina, la quale, per ragioni estetiche, non vale certo più delle tragicommedie sorelle. Scarso studio di caratteri, brutti martelliani, stucchevole enfasi ne’ personaggi eroici e patetici, pedestre [p. 92 modifica] realismo nelle figure secondarie, sbalordicenti colpi di scena: combattimento navale con fucili granate e fuochi; un vascello che s’incendia e si sprofonda; zuffe mortali tra schiavoni e africani; l’eroina che dal corsaro si difende con una scure e per isfuggire alle violenze di Lisauro vuol uccidersi con una sciabola.... Ma pure in questo drammone da arena qualche tratto di buona comicità tempra la reboante retorica, e questa volta comicità non triviale o sconcia addirittura, come nella Sposa persiana, ma discretamente garbata. Marmut e Cosimina — quello mercante di schiavi, questa serva di Argenide, la sposa tradita ai voli lirici degli altri personaggi oppongono l’uno la furbizia e il gretto realismo del Brighella goldoniano, l’altra il buon senso popolano d’un’autentica Colombina.

A Ibraim, governatore di Tetuan che chiede trecento zecchini per il riscatto di Zaira, Marmut osserva:

Chieder per una donna trecento ruspi? affè
Trovar un che gli sborsi, si facile non è.
In Europa, signore, non men della Turchia
Abbondano le terre di simil mercanzia,
E dicon gli Europei che mai non s’è trovato
Il sesso femminile cotanto a buon mercato.

Preso egli stesso dai vezzi di Cosimina “serva per accidente, ma di estrazion civile” le fa questo complimento:

Si conosce all’aspetto la stirpe veterana,
Chi sa che non ti riesca di diventar sultana!

E Cosimina pronta:

Davver, se a tal fortuna a caso io mi conduco
Per il tuo vaticinio ti faccio fare eunuco.

Marmut invece le offre senz’altro un posto nel suo serraglio:

Tre mogli ho al mio comando, e fra di noi è poco:
Possoti di buon core offrire quarto loco.

Al che Cosimina, punto lusingata, risponde:

Non ho fatto all’amore finora in vita mia,
E non lo voglio fare all’uso di Turchia,
Con un solo marito quattro consorti unite?
Saran, mi raffiguro, perpetuamente in lite.
E se il costume vostro l’obbliga a star in pace,
Seguir sì bel costume al genio mio non piace.
E se ho da maritarmi da povera figliuola,
Bastami pane ed acqua, ma vuo’ il marito io sola.

La sua padrona, che piange e si dispera per il tradimento di Lisauro. consola assicurandola che la fedeltà non è virtù di nessun sesso; e quando Argenide, se non potrà impietosire l’amante, si prefigge “di morirgli ai piedi”. la serva commenta:

Questo morir da alcuni par che si stimi poco,
Parlano della morte come se fosse un gioco.
Ed io stimo la vita assai più d’un marito.
Non vorrei per un uomo nemmen pungermi un dito.
Credo però che il dicano senza pensarvi su,

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Ma se fossero al caso non lo direbber più.
Sono cose da scena il dir mi voglio uccidere;
Stili, spade, veleni, cose che fan da ridere.

L’autore che per bocca di un suo personaggio mette in canzone la propria enfasi! Di questo e d’altri drammi romanzeschi del Goldoni il Carrer, a cui si deve, in ordine di tempo, la prima monografia biografico — critica del commediografo, giudica; “lo confesso, e forse m’inganno, queste sono tra le commedie di Goldoni quelle che veramente mi vengono a noia, per la discordanza dello stile col soggetto, del soggetto coi personaggi, dei personaggi colla nazione, a cui appartengono” (Saggi su la vita e su le opere di C. G. Venezia, 1825, II, p. 108). Tale giudizio, certo concorde al vero, non tolse più tardi al Carrer poeta di ricordare la Dalmatina, in alcune sue terzine, poco note, a prova ch’egli non “da soli circostanti oggetti aveva saputo trarre l’argomento dei suoi drammi:

La materna lasciata alpestre riva
La dalmata fanciulla ardita move,
E le contese de’ rivali avviva.

(Per nozze Tornielli-Gobbati. Capitolo inedito, Venezia. Cecchini. 1862, p. 21; e C. Musatti. Versi di Carrer per Goldoni, nel Marzocco, 21 marzo 1926).

Al giudizio del Carrer sottoscrive il Meneghezzi (Della vita e delle opere di C. G. Milano, 1827, p. 131), ma un altro critico, Ignazio Ciampi. attenna opportunamente il biasimo che deriva all’autore dalla creazione di così ibridi componimenti: “Lascio le Ircane, le Dalmatine, le Peruviane, Incognite. le Belle Selvagge, portate sulla scena piuttosto per accarezzare fantasie romanzesche che per elezione spontanea del cuore e dell’ingegno” (La vita artistica di C. G., Roma, 1860, p. 67). E chi non ricorda le amare parole del Tommaseo: “Le Spose persiane e le Pamele, sforzi d’ingegno, abbandonato dagli uomini, tradito dai tempi” (Studi critici, Venezia, 1843, II, p. 88)? Dove, se appare ingiusto confondere p. e. Pamela nubile, con lavori per ogni riguardo inferiori, è implicita invece la condanna della Dalmatina, che forse per l’onore voluto rendere dal Goldoni con essa alla sua terra, il grande dalmata ha ritegno di nominare.

Nè in tempi più prossimi a noi suonano meno aspre le censure alla commedia. Sì, il Merz, che erroneamente ritiene svolgersi l’azione in Dalmazia, scrive quasi lodando: “La Dalmatina rintrona tutta della vigoria naturale d’una razza selvaggia, avida di libertà. E fu un pensiero felice del poeta di non portarci questa volta in terre ignote lontane, ma in Dalmazia. paese d’interesse allora vivo per ogni veneziano. La repubblica aveva mandato colà truppe al comando del senatore Andrea Querini per difendere la Dalmazia dai Turchi” (C. G. in seiner Stellung zum franzoesischen Lustspiel. Leipzig, 1903, p. 60). Ma per il Galanti è ben meritato l’oblio dei posteri per questa e altre tragicommedie del Goldoni (C. G. e Venezia nel secolo XVIII, Padova, 1882, p.242), e il De Gubernatis si meraviglia ch’egli “spenda maggiori parole intorno alla Dalmatina commedia esotica... che sui Rusteghi” (C. G., Corso di lezioni, Firenze, 1911, p. 316). Nessuna meraviglia. I [p. 94 modifica]genitori hanno spesso tenerezze particolari per i figli difettosi, e son tante le commedie scadenti del Goldoni che si portano via pagine e pagine delle Memorie!

Il Guerzoni qualifica questo un ”drammaccio“ di genere patetico (Il teatro italiano nel secolo XVIII, Milano, 1876, p. 240) e con altro malinconico peggiorativo, fra le “tragediacce” lo confina A. Sagredo (Di P. Metastasio e di C. G. Commentari due, Venezia, 1834, p. 40). E Giuseppe Sabalich dalmata, esclama: ”Se Goldoni si fosse fermato là (ai quadri di vita veneziana), ma egli volle forzare, e scrivere delle Dalmatine che possono essere giapponesi e delle Spose persione che possono essere anche africane (Chiacchiere veneziane, Fabriano, 1902, p. 263). Quella sciaguratissima Dalmatina — giudica Santi Muratori, preludendo al sonetto del Bezzi, citato più innanzi — che è, credo di non sbagliare, un grossolano pasticcio, la cosa più brutta del Goldoni, tolte alcune scene o parti di scene e gli accenni sentiti e forti, questo sì, alla gloria di San Marco“.

”Non va certo annoverata tra i capolavori del grande commediografo osserva il De Frenzi — È un’opera piuttosto scialba, diluita in brutti martelliani, con l’intreccio melodrammatico ordito sopra un fondo d’ambiente orientale da vecchia stampa sul tipo di quelle varie Ircane e Persiane, con le quali il Goldoni indulgerà di quando in quando al gusto esotico e romanzesco del suo tempo, pur rispecchiandovi un po’ del colore e del sentimento della tradizione levantina di Venezia“ (L’Idea nazionale, 14 ottobre 1920). E P. P. Trompeo, tra i critici recenti quello che di questo dramma diede l’analisi più minuta, scrive dei caratteri della commedia: ”Non ce n’è uno che si possa dire abilmente tracciato. Zandira che è pure il personaggio tra i principali il più vivo non riesce a interessarci che mediocremente: innamorata di Lisauro al primo atto, la vediamo all’ultimo, nel giro di poche ore, sposa felice di Radovich... L’analisi dei sentimenti di Zandira è stata quasi del tutto trascurata dal Goldoni, il quale, insomma, ci mostra la sua eroina sbalestrata dagli avvenimenti d’una fortunosa giornata, ma la storia intima di lei non ce la racconta punto...“. Ma si avverte giustamente: ”Dal grigiastro insieme staccano invece per il loro fresco colorito due gaie figurine di ripieno“, cioè Marmut e Cosimina ”servetta eminente goldoniana. che ha il solo torto di non parlare veneziano“ (La Dalmatina, Le vie del mare e dell’aria, 1919, fasc. 18).

Giova raccogliere altre voci ancora intorno a questa Dalmatina e alle sue compagne? Giuseppe Caprin (”se l’autore non ebbe poi l’animo di rifiutarle dal suo teatro, potremmo farlo noi senza rimorso: C. G., la sua vita, le sue opere, Milano, 1907, p. 293), Marietta Ortiz (“genere di commedie più spettacoloso che verosimile, più confacente all’arte sbalorditoria del Chiari che alla sua semplice e naturale”: Commedie esotiche del G., Riv. teatr. it. Napoli, 1905, p. 12 dell’estr.), O. Marchini Capasso (“l’autore... in queste commedie... si trova per così dire fuori di strada e fa prova infelice”: G. e la comm. dell’arte, Napoli. 1912, p. 147). Cesare Levi (“uno dei peggiori (drammi) del Goldoni ”: Dalmati sulle scene, Il Marzocco, Firenze, 11 maggio 1919), Ida De Cristofaro (“la Peruviana, la Dalmatina ecc... prive di verità e... fredde concessioni”: Tipi e caratteri femminili, Trani, 1919, pp. 97, 98)? Tutte voci, si vede, che suonano decisa condanna. [p. 95 modifica]

Quanto si resse sulla scena questa tragicommedia dopo la fortunata prima al Teatro di San Luca, nell’autunno del 1758 (Ed. Pitteri, vol. IX. p. 11)? Nell’Autore a chi legge sono gli elogi agli esecutori e in primo luogo alla protagonista Catterina Bresciani, già famosa Ircana nella Sposa persiana.

Quando a Parigi, in cerca di soggetti da fornire ai comici del Théatre Italien, il Goldoni cominciò a rivangare nel proprio ubertoso campo, si rammentò anche di questa sua Dalmatina. In lettera del 15 agosto 1763 all’Albergati si legge: “Ho dato a questi comici un’altra commedia scritta, che ho tratto dalla mia Dalmatina”. Lo stesso annuncio è in questi versi a Giovanni Fontana, segretario d’Ambasciata a Parigi (Componimenti diversi, Venezia, 1764, tomo II. pp. 226, 228):

                    ...or per sentire un’opera novella
                    Ho gl’Italiani comici d’intorno
                    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
                    Di quest’opera mia tratto ho il soggetto
                    Dalla mia Dalmatina, a voi ben nota,
                    Che in Venezia produsse ottimo effetto.
                    E al nome Vinizian ligia e divota
                    La Musa mia vuol che a Parigi ancora
                    Sulle pubbliche scene onor riscuota.

Questa Dalmatina rifatta sarà con ogni probabilità l’Esclave généreuse, comédie en trois actes, en prose, ricordata nel Catalogue des pièces in coda ai Mémoires. Il Rabany (C. G., ecc., Paris-Nancy, 1896, p. 366) la cita col sottotitolo où la générosité de Camille, che non sappiamo a che fonte attinga. Elle n’a pas été jouée, aggiunge il Catalogue citato, il che non stupisce, per essere il soggetto assai poco adatto a quei comici. Se mai, n’avrebbero fatto lo strazio che fecero, secondo la Correspondance del Grimm (22 ottobre 1772), della Sposa persiana. È vero che non sappiamo quali cambiamenti vi avesse operato l’autore.

Nel carnevale del 1768 la Dalmatina si recitò nel Teatro del Collegio San Carlo di Modena, certo in qualche riduzione ad hoc (Modena a C. G. nel sec. centenario d. sua nascita, Modena, 1907, p. 240). E si continuò a rappresentare per tutto il settecento. Francesco Bartoli narra (Notizie istoriche de comici italiani, ecc. Padova, (1781), vol. I, p. 162) che nel novembre del 1774, a Cagliari, Ignazio Casanova, in compagnia di Ignazio Patriarchi, cadde colpito da apoplessia ancora “vestito degli abiti teatrali” che aveva indossato nella Dalmatina.

Di due recite a Venezia, nel 1788 (Comp. Belloni) e nel 1793 — l’anno in cui così tristemente finiva la sua gloriosa esistenza l’autore — informa la Gazz. urb. ven. (1788, 26 genn., n. 8, e 1793, p. 768). E di nuovo a Venezia si rappresenta (Comp. Perotti) il 6 marzo 1817 (Gazz. priv. di Ven.) Si recitò nella prima metà dell’800 anche a Milano (Teatri, Milano, T. II. P. II. p. 525).

La Dalmatina non fu mai eseguita — e lo notano i goldoniani dell’altra sponda — in Dalmazia. “E quella Dalmatina che il Goldoni trasse dalle Amazzoni della Du Bocage? Chi la conosce? I Dalmati del Dall’Ongaro sì, la Dalmatina no? Ma si capisce. Il lavoro è scadente” (G. [p. 96 modifica] Sabalich, Goldoni nel passato teatrale di Zara. Il Dalmata, Zara, 27 febbraio 1907) “Come mai quando i drammi romanzeschi andavano a cielo e i martelliani non mettevano ancora orrore ai comici e al pubblico, nessuna compagnia pensò a disseppellire a Zara quella Dalmatina che il Goldoni scrisse proprio per esaltare i ”valorosi schiavoni“, i più fedeli sudditi della Serenissima?... Ma in quel dramma manca pur troppo interamente il color locale nelle figure e nell’intreccio” (E. Maddalena, Il Teatro Nobile di Zara, La Lettura, 1 dicembre 1923, p. 899).

Di traduzioni questa tragicommedia ne ha una sola, portoghese:

Comedia nova, intitulada Os dois amantes em Africa ou A escrava venturosa, composta pelo doutor Carlos Goldoni no idioma italiano e traduzida em portuguez (Lisboa, Aquino Bulhoens, 1791), che resta testimonianza eloquente della celebrità dell’autore allora in Europa, se i traduttori non vollero ignorare neanche questa mediocre composizione. E tra le modeste fortune sue aggiungiamo ancora questo sonetto d’un arcade ravennate, il conte Fabrizio Nicolò Bezzi (1692-1776) che ammiratore entusiasta del Goldoni, ne scrisse ben novanta per altrettante sue commedie (Santi Muratori: Un arcade di buon gusto e C. G., Felix Ravenna, XXXI, 1926, p. 25 dell’estr.):

Goldon, la Dalmatina alfin l’Amante
     Cede, e ripudia; e per un traditore
     La Greca ha l’Alma in sen sempre costante;
     Ora tu dimmi: In chi più bello è il core?
Tu la gran lite metti al Mondo avante:
     Dici: Ei decida in chi sia più valore.
     Ma le più pure leggi, e le più sante
     Seguirà il Mondo in giudicar d’amore?
Cedere un core ad altro cor legato
     È dover; ma gran sforzo alle tradite
     Donne costa l’amare un core ingrato.
Quindi indecisa deh lasciam la lite:
     Perchè non abbia il mondo appassionato
     Con questa a suscitarne altre infinite.

Il Goldoni non dedicò questa come sarebbe stato naturale attendersi — e nessun’altra sua commedia a Stefano Sciugliaga; ma se l’edizione Pasquali non fosse rimasta interrotta, pensiamo che quest’onore, di cui il dalmata, così caldo amico e partigiano del Nostro, era tanto degno, non gli sarebbe mancato. La Dalmatina andò invece intitolata a Gian Francesco Pisani, per la cui elevazione a Procurator di San Marco il Goldoni in quello stesso anno (1763) compose un sonetto e tre capitoli (Componimenti diversi, cit., II. 220-232, e Spinelli, Bibliografia Goldoniana, Milano 1884, pp. 224-237). Nei quali, come sempre nei poemetti d’occasione che il Goldoni mandava da Parigi, in mezzo agli elogi del festeggiato la cui stesura doveva essere faticosa a lui come ne è oggi a noi la lettura offre in piacevole modo notizie della sua vita colà.

Quando dopo la grande guerra suonarono alte le voci nel dibattito per la contesa Dalmazia, questo dramma del Goldoni, tolto alla molta polvere sotto cui dormiva da tanto, riebbe un momento di notorietà. Già il [p. 97 modifica] Tommaseo citava volentieri a gloria della sua terra (Intorno a cose dalmatiche e triestine, Trieste, 1847, p. 65 segg.: Strenna dalmatica, Zara, 1847, p. 13 segg.) quei versi dove Zandira l’esalta ("In illirica terra nacqui, non lo nascondo, Ho nelle vene un sangue noto e famoso al mondo" ecc.), e allorchè nel bicentenario della nascita i Veneti d’ambedue le sponde s’unirono nelle manifestazioni d’amore al Goldoni, anche il Molmenti volle ricordare (C. G. e i Dalmati, Piccolo, Trieste, 25 febbraio 1907) il simpatico tributo d’affetto reso dal maggior figlio di Venezia a quei valorosi schiavoni che ancora nel 1797, mentre i pavidi patrizi in procinto di decretare la fine della Serenissima li avevano fatti imbarcare per togliere ogni pericolo di resistenza, spararono dalle navi un ultimo saluto alla morente Repubblica.

Anche i buoni studi, già citati, del De Frenzi, del Trompeo e di Cesare Levi ebbero primo movente la ragione politica. Scrive il primo a commento dei versi di chiusa, dove Zandira, l’eroina, inneggia alla lealtà della propria gente e alla gloria di Venezia: "E il più veneziano dei veneziani che rivolge ai custodi gagliardi e devoti dell’"adriaco impero" una parola fervida di amore e di gratitudine: quello stesso tenace amore, quella gratitudine vicendevole che troveranno il loro segno perpetuo nell’invocazione disperata dei Dalmati dopo Campoformio: "Ti con nu, nu con ti". Nè i Dalmati possono ancor oggi desiderare un elogio più caloroso di quello che il Goldoni tessè delle loro virtù native". E il Trompeo alla sua critica aggiunge: "Non ci sarebbe altro da dire, se da questa mediocre "comédie larmoyante" non si levasse su, intera e schietta, la nobile immagine della Dalmazia veneta. Storica dunque e non artistica è l’importanza della Dalmatina, e tanto più oggi E il suo studio conclude: "Non sarà stato inutile... aver ricordato che Dalmati e intendo parlare non già degl’Italiani di Dalmazia, ma degli Schiavoni proprio hanno una gentile ambasciatrice accreditata presso le nostre lettere e un valido patrono in Carlo Goldoni ". Cesare Levi, che la sua indagine estese a tutti i drammi ch’hanno dalmati tra i loro personaggi (art. cit.). notò che in essi, dal Goldoni al Dall’Ongaro (La Danae), sono messe nella luce migliore le qualità istintive della razza: ardimento che non indietreggia dinanzi alle più perigliose imprese, generosità di sentimenti e nobiltà di carattere, e sopratutto amore alla patria ed orgoglio di essere associata alla secolare gloria di Venezia.

E. M.



La Dalmatina usci la prima volta a Venezia nel 1763, nel tomo IX dell’edizione Pitteri, e fu ristampata l’anno stesso a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino). Altre ristampe ebbe a Venezia stessa (Savioli, t. IX, 1773 e 1774; Zatta, cl. 3, t. VII, 1792), Torino (Guibert e Orgeas, t. IX, 1776), a Livorno (Masi, t. XXII, 1792), a Lucca (Bossignori, t. XXX, 1792) e forse altrove nel Settecento. La ristampa presente fu condotta, com’è naturale, sull’ed. Pitteri, ma si tenne pur conto delle principali edizioni posteriori.