La commedia degli equivochi/Atto quinto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUINTO
SCENA I.
La stessa.
Entrano il Mercante e Angelo.
Ang. Son dolente, signore, di avervi trattenuto, ma vi assicuro che la catena gli fu consegnata da me, sebbene egli sia tanto villano da negarlo.
Mer. Come vien riguardato quell’uomo in questa città?
Ang. Si dice avventatissimo, quantunque goda di un credito illimitato. Io gli darei tutto quello che possiedo sulla sua semplice parola.
Mer. Parlate sotto voce: mi sembra di vederlo. (entrano Antifolo e Dromio di Siracusa)
Ang. È esso appunto, e porta al collo quella medesima catena che giurava di non aver ricevuta. Buon signore, seguitemi, ch’io gli parlerò. — Messer Antifolo, io stupisco che voi mi abbiate fatto tale oltraggio, ponendomi in simile impaccio: disdicevole era codesto al vostro onore. Negare con tuono sì fermo, con tanti giuramenti d’aver ricevuta quella catena, che ora senza verun riguardo portate! Oltre la vergogna e la prigionia che m’avete fatta subire, voi siete stato di danno ancora a questo onesto amico, che a cagione del nostro litigio non è potuto partire. Voi riceveste da me quella catena, potreste negarlo?
Ant. Non l’ho mai negato, nè mai lo negherò.
Mer. Sì, voi lo negaste, signore, ed anche con giuramento.
Ant. Chi lo dice?
Mer. Io che vi intesi. Voi siete un miserabile, ed è una vergogna che respiriate l’aere che respirano le persone oneste.
Ant. Tu sei un furfante a darmi tale accusa: sosterrò il mio onore e la mia probità, finchè mi rimanga una stilla di sangue.
Mer. Accetto la sfida; e vi proverò che siete un malandrino. (sguainano le spade; entrano Adriana, Luciana, la Cortigiana ed altri)
Adr. Fermatevi, nol ferite, in nome di Dio! perchè egli è pazzo! Impadronitevi di lui: toglietegli quella spada. Legate Dromio ancora, e conduceteli a casa mia.
Drom. Fuggiamo, padrone, fuggiamo in nome di Dio. Qui v’è un ospizio sacro, cerchiamovi asilo, o saremo perduti. (si ricovera con Ant. dentro un’abbazia, entra l’Abbadessa)
Abb. Calmatevi, buona gente: perchè vi accalcate qui?
Adr. Per cercarvi il mio povero sposo, che è pazzo: entriamo, e procuriamo di ricondurlo a casa.
Ang. Ben sapeva che egli era fuor di senno.
Mer. Duolmi ora d’avere sguainata la spada contro di lui.
Abb. Quanto tempo è che è così insensato?
Adr. Tutta questa settimana si era mostrato malinconico, addolorato, tristo, e ben diverso da quello che è naturalmente: ma fino ad oggi però ei non aveva mai dato in tali impeti.
Abb. Non ha sofferte grandi disgrazie in mare? Non ha perduto qualche caro amico? Agitato non è stato da qualche illegittima passione, vicende a cui van soggetti i giovani che troppo s’abbandonano ai loro fuochi naturali? Quale di questi accidenti gli è accaduto?
Adr. Nessuno, se non forse l’ultimo. Vuo’ dire qualche amore che l’allontanava spesso da casa.
Abb. Avreste dovuto fargli vive rimostranze.
Adr. Le feci.
Abb. Ma non abbastanza forti.
Adr. Forti per quanto la modestia poteva consentirle.
Abb. In privato, è possibile.
Adr. E in pubblico ancora.
Abb. Ma non con gran frequenza.
Adr. Fra l’eterno tema dei nostri colloquii. A letto nol lasciavo dormire a motivo di ciò, a mensa nol lasciavo mangiare: se eravam soli, gliene parlavo sempre; se in compagnia facevo a questo frequenti allusioni: io gli ripetevo ad ogni momento, che era una cosa vergognosa e rea.
Abb. Ed ecco come è accaduto che vostro marito è divenuto pazzo: gli acri clamori d’una donna gelosa spandono sul cuor di un marito un veleno più orribile, che non è quello del cane idrofobo. La vostra inquietudine ha turbato i suoi sonni, e il suo cervello si è alterato. Voi dite che ogni suo pasto era condito coi vostri rimproveri? Siffatti banchetti producono cattive digestioni, e alimentano i delirii della febbre, che altro non è che un impeto di follìa. Voi dite che le vostre grida gli risuonavano incessanti, ed ecco la conseguenza di un soverchio rigore. L’agitazione, il disordine, l’inquietudine, conducono necessariamente l’uomo alla follìa: i vostri rimbrotti gelosi han privato vostro marito dell’uso della ragione.
Luc. Essa gli faceva ogni sua rimostranza colla maggiore dolcezza, allorchè egli irrompeva nelle maggiori brutalità. — Perchè tacete, sorella, udendo tali accuse?
Adr. Questi suoi rimproveri hanno svegliati quelli della mia coscienza. — Entrate, buona gente, e impossessatevi di lui.
Abb. Alcuno non entrerà in questo santuario.
Adr. Fate allora che i vostri servi conducan fuori mio marito.
Abb. Neppure; egli ha preso ricovero in quell’asilo sacro, e dev’essere garantito dalle vostre mani fino che ritornato sia in sè, o ch’io abbia gettate le mie fatiche, facendo opera di soccorrerlo.
Adr. Vuo’ starmi vicino a mio marito, vuo’ essere la sua guardiana assidua; tocca a me il curarlo, e non ad altri: lasciate ch’io lo riconduca a casa.
Abb. Contenetevi, io nol lascierò escire, se prima non ho adoperati tutti i rimedii salutari, tutti i segreti efficaci che posseggo, non che le preghiere, per ristabilirlo nel suo stato naturale: è una parte del mio voto: un dovere pio della nostra istituzione: ritiratevi, e lasciatelo a me.
Adr. Non mi muoverò di qui, non lascierò qui mio marito. Mal si addice al vostro santo ministero il separare lo sposo dalla sposa.
Abb. Tali parole sono inutili: ritiratevi. (esce)
Luc. Venite a chieder giustizia al duca di tale oltraggio.
Adr. Andiamo: mi getterò ai suoi piedi, e non mi rialzerò se ottenuto non abbia, colle mie lagrime e le mie preci, che venga egli medesimo a questo ospizio, e costringa l’abbadessa a rendermi mio marito.
Mer. Se non m’inganno son le cinque, e il duca deve andar frappoco al campo della giustizia, posto poco lungi di qui.
Ang. A che fine?
Mer. Per veder mozzar la testa a un povero mercante di Siracusa, che ha avuta la sventura di por piede in questa baia, infrangendo con tale imprudenza le leggi e gli statuti della città.
Ang. Eccoli di fatti; vedrem noi pure l’esecuzione.
Luc. Gettatevi ai piedi del duca, prima che passi l’abbazia. (entra il Duca con seguito; Egeone col capo nudo, il Carnefice e molti soldati).
Duc. Gridate anche una volta, che se v’è qualcuno che voglia pagare la somma per lui, ei non morrà, tanto c’interessiamo alla sua sorte.
Adr. Giustizia, venerabile duca, contro l’Abbadessa.
Duc. È una donna virtuosa; è impossibile che vi abbia offeso.
Adr. Vogliate ascoltarmi: Antifolo mio sposo, che ho fatto signore di me, e di quanto possedevo a istanza vostra, è caduto oggi in un impeto di follia dei più violenti. Egli è corso per le strade, seguito dal suo servo pazzo al par di lui, oltraggiando i cittadini, entrando per forza nelle loro case, rubando anelli, e quant’altro gli veniva sotto mano che gli piacesse. Son giunta a farlo legare una volta, e a farlo condurre in casa mia, e sono andata tosto a riparare il male che egli aveva commesso qua e là. Con mia sorpresa (non so come sia potuto fuggire) ei s’è sottratto a quelli che lo custodivano, e seguito dal servo suo, agitati entrambi da una passione sfrenata, colle spade nude, ci son venuti sopra, e ci han costretti a correr via, finchè fatti abbastanza forti per non temerli siam venuti a termine di legarli di nuovo: allora essi sono entrati in quell’abbazia, in cui li abbiamo inseguiti. Ma l’abbadessa ne chiude le porte, e non vuole che v’entriamo; onde benefico duca, valetevi della vostra autorità per far sì ch’ei sia tolto da quell’ospizio e condotto a casa sua, per ricevervi i soccorsi opportuni.
Duc. Vostro marito ha servito lungo tempo nelle mie guerre, ed io vi ho data la mia parola di principe, allorchè l’avete sposato, di farvi tutto il bene, e di concedervi tutti i favori che potessero dipendere da me. Su dunque, qualcuno batta a quella porta, e dica all’abbadessa di venire qui. (entra un Domestico)
Dom. Oh, padrona, padrona, fuggite, salvatevi! Il signor mio e il suo servo sono stati riposti in libertà; essi han bistrattati i domestici e legato il dottore, e gli han accesa la barba coi zolfanelli: poi per estinguere l’incendio, v’han gettato sopra fango, che l’ha reso l’uomo più miserabile di questo mondo. Il padrone lo schernisce, e il servo lo percuote; certo se non mandate un pronto soccorso, ammazzeran l’esorcista.
Adr. Taci, insensato, il tuo padrone e il suo servo son qui, e tutto questo bel racconto che ne fai non è che una favola.
Dom. Padrona, sulla mia vita, vi dissi la verità. Dacchè ho veduta sì fatta scena, son corso senza trar fiato. Egli impreca al vostro nome e giura, che mal per voi se vi prendo (grida al di dentro) udite, udite, è esso; è il padrone: fuggite per carità.
Duc. State vicina a me, e non temete nulla. Guardie, apparecchiate le armi.
Adr. Oimè! è mio marito! Voi siete testimoni ch’ei ricompare qui come uno spirito invisibile: un istante fa lo vedemmo entrare in quell’abbazia, ed ecco che da un’altra parte ritorna: questo fatto è inconcepibile. (entrano Antifolo e Dromio di Efeso)
Ant. Giustizia, grazioso duca, accordatemi giustizia. In nome dei lunghi servigi che vi ho resi, e delle ferite che ho ricevute per voi, in nome del sangue che ho per voi sparso, accordatemi giustizia.
Eg. Se il timore della morte non mi toglie il senno, questi è il mio figlio Antifolo ch’io veggo, e quegli è Dromio.
Ant. Giustizia, amabile principe, contro costei! Essa, che voi medesimo mi deste per sposa, mi ha oltraggiato e disonorato coll’offesa più crudele. È superiore ad ogni descrizione quello ch’ella oggi mi ha fatto provare.
Duc. Spiegatevi, e mi troverete giusto.
Ant. In questo dì medesimo, potente duca, ella mi ha tenute chiuse le porte della mia casa, intantochè con alcuni libertini si abbandonava alla gioia e all’ebbrezza di un banchetto.
Duc. Grave è questo fallo: rispondete, donna: avete fatto quel ch’ei vi rimprovera?
Adr. No, mio degno signore. Io, egli e mia sorella abbiamo pranzato oggi insieme. Sciagura all’anima mia, se la nota ch’ei vuol darmi non è falsa.
Duc. Ch’io non rivegga mai più la luce del dì, ch’io non gusti mai più il riposo della notte, se ella non parla il vero.
Ang. Oh donne spergiure! Come mentite entrambe. Io pure son testimonio della vostra onta.
Ant. Mio sovrano, io vi parlo con calma, e so quello che dico. Ebbro, non sono nè furioso, sebbene tanta impudenza potesse fare smarrir la ragion al più saggio: questa donna mi ha tenuto oggi fuor di casa, sicchè io non ho potuto pranzarvi, e questo orefice lo può dire che meco era, e che mi lasciò per andar a prendere una catena che portar mi dovea poco dopo, quantunque poi non venisse ed avesse la temerità di giurare che data me l’avea, facendomi per tal cagione subire un arresto. Giunto prigione fu mandato il mio domestico a casa per prendervi danaro, ma ei ne è ritornato senza. Allora accumulando mille argomenti ho determinato l’Uffiziale ad accompagnarmi ei medesimo fino alla mia dimora, e lungo la via abbiamo incontrato mia moglie e sua sorella con una torma di scellerati in lega fra di loro. Costoro conducevano certo Pinch, specie di scheletro scarno, vil ciarlatano, furfante che la fa da esorcista, e che guardandomi cogli occhi fissi e toccandomi il polso, ha osato sostenere ch’io era posseduto dallo spirito maligno. A questo dire tutti i malandrini mi son venuti addosso, mi han legato insieme col mio servo, e mi han cacciato in una umida e tenebrosa carcere. Quivi rompendo coi denti le mie funi, son riescito a liberarmi, e son corso ai piedi di Vostra Altezza; vogliate darmi un’ampia soddisfazione per tutti questi oltraggi che ho patiti.
Ang. Mio principe, quello solo di cui sono testimonio, e ch’io posso dire, è ch’ei non ha pranzato in casa, e che ne ha trovata chiusa la porta.
Duc. Ma gli avete voi data sì o no quella catena di cui parla?
Ang. Sì, mio principe, e quando correva per le strade, queste oneste persone gliel han veduta intorno al collo.
Mer. Di più potrei giurare, che colle mie orecchie io vi ho inteso (a Ant.) confessare che avevate ricevuto da lui quella catena, sebben poscia l’abbiate con giuramento negato, ed è in tale occasione che ho sguainata la spada contro di voi. Allora voi siete fuggito in quell’abbazia, da cui non siete potuto escire che per un miracolo.
Ant. Non mai io sono entrato in quell’abbazia, non mai voi avete sguinata la spada contro di me: non mai ho avuta la catena di cui parlate: così il Cielo mi assista, com’io dico la verità e come tutto quello che voi mi attribuite non è che menzogna.
Duc. Quale strano enigma è questo! Io credo che voi tutti abbiate bevuto alla tazza di Circe. S’ei fosse entrato in quella essa, vi si sarebbe trovato: s’ei fosse pazzo, non patrocinerebbe la sua causa con tanta eloquenza. Voi dite (a Ang.) che egli ha pranzato in casa, e l’orefice lo nega. — E tu, valletto, che dici tu?
Drom. Signore, egli ha pranzato con quest’altra donna in una osteria.
Cor. Dove poi mi ha rapito quell’anello che gli vedete.
Ant. È vero, mio principe, quest’anello è suo.
Duc. Lo vedesti tu entrare nell’abbazia?
Cor. Sì, mio sovrano, com’io veggo Vostra Grazia.
Duc. Strano in verità! Ite, e chiamate l’abbadessa. Io credo da senno che deliriate tutti. (esce uno del seg.)
Eg. Potentissimo duca, concedetemi la libertà di dire una parola. Forse ho io qui un amico che riscatterà la mia vita colla somma necessaria.
Duc. Parlate liberamente.
Eg. Non vi chiamate voi Antifolo, e non è questi il vostro servo Dromio?
Drom. A che diavolo pensa egli?
Eg. Son sicuro che voi entrambi vi ricordate di me.
Drom. Ci ricordiamo di noi stessi guardandovi, signore, perchè alcuni istanti fa, noi eravamo legati come voi ora lo siete: sareste voi ancora un paziente di Pinch? Lo sareste, signore?
Eg. (a Ant.) Perchè affisi su di me quello strano sguardo? Tu ben mi conosci.
Ant. Non mai vi vidi prima d’ora.
Eg. Il dolore avrà stranamente mutato il mio viso, dacchè non m’avete veduto: il tempo avrà alterati assai tutti i miei lineamenti. Ma non conoscete voi la mia voce?
Ant. No, per mia fè.
Eg. E tu, Dromio?
Drom. Nè io tampoco, ve n’assicuro.
Eg. Ed io son certo che tu la riconosci.
Drom. Ed io son certo di no, e lo dovete ben credere ad un uomo che vi parla con tanta sicurezza.
Eg. Non riconoscer la mia voce! Oh tempo distruttore! hai tu dunque così cambiato il mio accento in sette anni, che un figlio mio più non lo debba rammentare? Sebbene l’inverno degli anni agghiacci il mio vigore, sebbene la neve dei capelli bianchi ch’è caduta sulla mia testa, e mille affanni più d’ogni altro abbiano distrutto in me l’antico uomo, pure in questa fosca notte in cui sta sepolta la vecchiaia, un raggio di memoria luce ancora; il pallido fanale della mia vita tramanda ancora qualche scintilla, le mie orecchie non son prive interamente della facoltà d’udire, e tutti questi testimonii, invecchiati con me e istruiti da una lunga esperienza, depongono (nè v’è inganno) che tu sei Antifolo mio figlio.
Ant. Non ho mai veduto mio padre dacchè son vivo.
Eg. Non son sett’anni ancora, o giovine, lo sai, che ci separammo a Siracusa: ma forse tu arrossisci a dovermi riconoscere in questa condizione.
Ant. Il duca e molti nostri concittadini possono far fede che v’ingannate: io non son mai stato a Siracusa.
Duc. T’assicuro, Siracusano, ch’egli dice la verità: veggo che la vecchiaia e le sventure han turbata la tua ragione. (entra l’Abbadessa con Antifolo e Dromio di Siracusa)
Abb. Potentissimo duca, voi vedete qui un uomo molto oltraggiato. (tutti rimangono colpiti di stupore)
Adr. Veggo due mariti, o i miei occhi m’ingannano.
Duc. Uno di questi uomini è certo il genio dell’altro: così è anche fra i due servi. Qual d’essi è l’uomo vero, e quale lo spirito? Chi può distinguerli?
Drom. di S. Io, signore, son Dromio, comandate a lui d’andarsene.
Drom. di E. Io, signore, son Dromio, vi prego di lasciarmi stare.
Ant. di S. Non sei tu Egeone, o l’ombra sua?
Drom. di S. Oh mio vecchio padrone! chi v’ha legato così?
Abb. Qual che si sia quegli che l’ha legato, io lo scioglierò dai suoi ceppi e racquisterò uno sposo ponendolo in libertà. Parlate, vecchiardo, se voi siete l’uomo ch’ebbe un tempo una moglie chiamata Emilia, il di cui seno vi fece padre di due bei fanciulli... Se quell’Egeone siete, parlate all’Emilia vostra.
Duc. Il racconto di stamane è ora illustrato: quei due Antifoli sì somiglianti, e quei due Dromj, eguali l’uno all’altro... di più, quel ch’esso mi disse del suo naufragio in mare... sì certo quest’è il padre, la madre e i figli, che il caso ha oggi radunati.
Eg. Se un sogno non mi delude, tu sei la mia Emilia; se quella sei, dimmi dov’è quel figliuolo che scomparve dagli occhi miei fra le onde?
Abb. Egli ed io, ed uno dei gemelli Dromj, fummo accolti dagli abitanti d’Epidamno: ma un momento dopo, feroci pescatori di Corinto rapiron loro per forza Dromio e il figliuol mio, e me lasciarono in quella città. Quel ch’essi divennero poscia, non saprei dirlo: me la fortuna collocò nello stato in cui mi trovate.
Duc. Antifolo, voi veniste qui da Corinto?
Ant. di S. No, principe, venni da Siracusa.
Duc. Ritirati; io non potrei distinguerti dall’altro.
Ant. di E. Io venni da Corinto, mio grazioso signore.
Drom. di E. Ed io con lui.
Ant. di E. Condotto in questa città dal duca Menacone, vostro illustre zio.
Adr. Chi di voi due ha pranzato con me oggi?
Ant. di S. Io, gentil signora.
Adr. E non siete mio marito?
Ant. di E. No, io sostengo di no.
Ant. di S. Ed io pure lo sostengo, sebbene con tal titolo ella mi chiamasse, e questa bella fanciulla, sua sorella, mi dicesse germano. Quel ch’io narrai oggi, spero di potervelo un giorno confermare, se tutto quel che veggo e ch’odo non è un sogno.
Ang. Ecco la catena, signore, che voi riceveste da me.
Ant. di S. È ben vero; nol negherò.
Ant. di E. E voi per quella catena, signore, mi faceste arrestare.
Ang. Credo che v’apponiate, e n’ho dolore.
Adr. Io vi mandai un gruppo di danaro, signore, col mezzo di Dromio, perchè vi servisse di cauzione, ma credo ch’egli non ve lo recasse.
Drom. di E. Nulla voi mi deste.
Ant. di S. Io ricevei da voi questa borsa di ducati, e fu Dromio, il valletto mio, che me la portò: veggo ora che cambiammo i domestici; io fui preso per l’altro Antifolo, com’egli fu preso per me, e da ciò derivarono tanti errori.
Ant. di E. Vadano questi ducati pel riscatto di mio padre qui presente.
Duc. Ei non ne avrà bisogno, tuo padre è in libertà.
Cor. Signore, voi dovete darmi quel diamante.
Ant. di E. Eccovelo, e molto vi ringrazio del banchetto che m’offeriste.
Abb. Illustre duca, degnatevi farne la grazia d’entrare con noi in quest’abbazia: voi udirete la storia intera delle nostre avventure; e voi tutti, ragunati in questo luogo, che sofferto avete qualche danno a cagione degli equivochi scambievoli di questi dì, accompagnateci, e otterrete piena soddisfazione. — Per venticinque anni interi io ho sofferti i dolori della maternità per partorirvi, o miei figli, e solo adesso giungo a sgravarmi di voi. Il duca, mio marito, i miei due figli e voi (ai due Dromi) che segnate il momento della loro nascita colla vostra, venite a partecipare alla festa dei loro natali. A tanti dolori debbo succedere una splendida festa.
Duc. Con tutto il cuore verrò con voi. (esce coll’Abb., Eg., la Cor., il Mer., Ang., e il seg.)
Drom. di S. Padrone, debbo andar a riprendere i vostri bagagli dalla barca?
Ant. di E. Di quali bagagli e di qual barca favelli, Dromio?
Drom. di S. Dei vostri bauli che avevate all’albergo del Centauro.
Ant. di S. È con me ch’ei vuol parlare: io sono il tuo padrone: andiamo, vieni con noi, noi provvederemo a tutto: abbraccia tuo fratello, e rallegrati seco. (escono i due Antifoli con Adriana e Luciana)
Drom. di S. V’è nella casa del vostro padrone una grossa quaglia che voleva cuocermi oggi a pranzo credendomi voi. Ora diverrà mia sorella, e non mia moglie.
Drom. di E. Parmi che voi siate il mio specchio, e non mio fratello. Veggo nel vostro volto ch’io ho una bella faccia. Volete che noi pure entriamo per partecipare alla festa?
Drom. di S. Tocca a voi l’andare innanzi, che siete il maggiore.
Drom. di E. Tal cosa è incerta: come la risolveremo?
Drom. di S. Giudicheremo a pari o caffo la nostra maggiorità: infino a quella decisione, passa tu primo.
Drom. di E. No no; siamo entrati nel mondo come due fraelli, e dobbiamo entrar qui del pari tenendoci per mano, e non l’uno dinanzi all’altro. (escono)
fine del dramma.