La commedia degli equivochi/Atto quarto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUARTO
SCENA I.
La stessa.
Entra un Mercante, Angelo e un Uffiziale.
Mer. Voi sapete che la somma mi è dovuta dalla Pentecoste in poi, e che da quel tempo in qua non vi ho infestato; non lo farei neppur ora, se non stessi per partire per la Persia, e se non avessi bisogno di danaro pel viaggio. Vogliate dunque pagarmi subito, o io vi farò arrestare da quest’uffiziale.
Ang. La medesima somma di cui vi son debitore mi è dovuta da Antifolo: allorchè vi incontrai gli avevo consegnata appunto la mia catena. A cinque ore ne riceverò il prezzo: fatemi il piacere di venir con me passeggiando fino a casa sua, e sconterò il mio impegno, unendovi i miei ringraziamenti. (entrano Antifolo di Efeso e Dromio di Efeso)
Uff. Potete risparmiarvi tal fatica: eccolo che viene.
Ant. Intantochè vo dall’orefice, tu corri a comprare una corda. Ne farò dono a mia moglie e ai suoi amici, in compenso d’avermi chiusa la porta. Ma ecco là l’orefice. — Vattene, e fa quello che ti ho detto.
Drom. Vi obbedisco. (esce)
Ant. Un uomo che conta su di voi confida bene. Aspettavo quella catena e non ho veduto nulla. Forse voi temevate che l’amore non durasse di troppo fra me e la mia sposa, se l’incatenavate colla vostra catena, e perciò non me l’avete portata?
Ang. Con vostra licenza, in questa nota sta scritto il peso della vostra catena fino all’ultimo carato: la qualità dell’oro e il prezzo dell’opera, che tutt’insieme sale a tre ducati di più che io non debbo a quest’onest’uomo. Ve ne prego, fatemi il piacere di pagarmi subito, perchè egli vuole imbarcarsi, e ha da essere soddisfatto.
Ant. Non ho con me la somma necessaria: inoltre ho molto da fare in città. Signore, conducete questo forestiere in mia casa, portate con voi la catena, e dite a mia morte di pagarvene il costo: io vi raggiungerò fra breve.
Ang. Volete che gliela porti io la catena?
Ant. Sì, per ogni buon rispetto.
Ang. L’avete con voi?
Ant. Credo che l’avrete voi: altrimenti non so come fareste per ricevere il danaro.
Ang. Su via, signore, ve ne prego, datemi la mia catena. Il vento e la marea chiamano quest’onest’uomo e io l’ho fatto ritardare anche troppo.
Ant. Mio caro signore, voi usate di questo pretesto per scusare la vostra mancanza di parola: toccherebbe a me il garrirvi. Ma adoperate da un uomo franco.
Mer. Il tempo fugge: signori, affrettatevi.
Ang. Voi siete testimoni come ei mi beffa... Fuori la catena.
Ant. Portatela a mia moglie, e ricevetene il prezzo.
Ang. Voi ben sapete che ve la diedi mezz’ora fa; o restituitemela, o datemi il mio danaro.
Ant. Spingete la celia troppo oltre: dite dov’è la catena?
Mer. I miei negozii non mi consentono tanti aggiornamenti. Mio caro signore, dichiarate se volete garantire per lui o no, e se non volete, io lo lascierò fra le mani di quest’uffiziale.
Ant. Garantire per lui? e di che?
Ang. Della catena che vi ho data.
Ant. Quando me l’avrete data, allora guarentirò.
Ang. Voi sapete che ve la diedi.
Ant. Nulla mi deste, e mi offendete con questo discorso.
Ang. Voi mi offendete di più smentendomi. Pensate che ci va dell’onor mio.
Mer. Uffiziale, a mia istanza, arrestatelo.
Uff. Vi arresto, e vi comando in nome del duca di obbedire.
Ang. Simile oltraggio non doveva toccarmi. Acconsentite a pagare la somma che mi dovete, o farò arrestare voi pure.
Ant. Acconsentire a pagare il prezzo d’una cosa che non ho mai ricevuta? Fammi arrestare, furfante, se l’osi.
Ang. Ecco per le spese. — Arrestatelo, Uffiziale. Non perdonerei neppur a mio fratello, s’ei m’insultasse con tal disprezzo.
Uff. Vi arresto, signore, e sapete a inchiesta di chi.
Ant. Vi obbedirò fino a che vi abbia data una cauzione. — Ma voi mi pagherete questa ingiuria con tutto l’oro della vostra officina.
Ang. Signore, le leggi di Efeso stanno per me, e sarete condannato. (entra Dromio di Siracusa)
Drom. Padrone, v’è una barca di Epidamno che sta per salpare: vi ho portato il nostro bagaglio, ed ho fatto le necessarie provviste. La nave è apparecchiata, un vento propizio spira da terra: i marinari non aspettano più che il capitano e voi per mettersi in via.
Ant. Che dici, insensato? di che vascello parli? che cosa farnetichi?
Drom. Il vascello di cui m’avete mandato in cerca.
Ant. Stolto, ti ho mandato a cercare una corda, e ti ho anche detto quello che volevo farne.
Drom. Voi non mi avete parlato di corde, mi avete mandato a cercare una barca.
Ant. Esaminerò con maggior agio questa cosa, e insegnerò alle tue orecchie ad ascoltare con miglior attenzione. Va da Adriana, furfante; parti tosto, recale questa chiave, e dille che nello scrigno, che è coperto di un tappeto turchino, sta una borsa piena di ducati: dille che me la mandi; che sono stato arrestato per strada, e che mi abbisogna subito una cauzione: parti. — Uffiziale, io verrò con voi in prigione fino a che egli ritorni. (escono il Mer., Ang., Uff. e Ant.)
Drom. Da Adriana! cioè in casa di quella da cui abbiamo pranzato, e dove una donna mi ha reclamato per marito. Spiacemi di dover tornare dinanzi a quella demente, ma pure sarà forza ch’io obbedisca. (esce)
SCENA II.
La stessa.
Entrano Adriana e Luciana.
Adr. Tali cose ti ha detto? e parlava da senno? era ciò possibile?
Luc. Prima di tutto negò che voi aveste alcun diritto sopra di lui.
Adr. Perchè egli tutti li violava.
Luc. Poscia mi giurò che era qui forestiero.
Adr. E giurò il vero.
Luc. E quando presi le vostre difese...
Adr. Ebbene, che disse?
Luc. L’amore che reclamavo per voi, lo dimandò per sè.
Adr. Con quali ragioni sollecitava il tuo affetto?
Luc. Con argomenti, che in una domanda onesta avrebbero potuto fare impressione. Prima vantò la mia bellezza, poi il mio spirito.
Adr. E gli hai tu risposto con amore?
Luc. Abbiate pazienza, ve ne supplico.
Ar. Nol posso, e nol voglio. Bisogna che la mia lingua si sfoghi, se il mio cuore nol può. Egli è contraffatto e deforme, vecchio e aggrinzito, vizioso, ingrato, stravagante e brutale, lurido di corpo, e più lurido di anima.
Luc. E perchè esser gelosa di tal mostro! Un mal perduto non si compiange.
Adr. Ah sì! ma io penso ben meglio di lui che non ne parlo: e nondimeno vorrei che fosse deforme a tutti gli occhi. L’augello si stordisce colle proprie strida allontanandosi dal suo nido. Intantochè la mia lingua lo maledice, il mio cuore innalza voti per esso. (entra Dromio di Siracusa)
Drom. (chiamando) Venite qui. Lo scrigno, la borsa, mie care signore, presto, presto.
Luc. Perchè sei così trafelato?
Drom. Dal gran correre.
Adr. Dov’è il tuo padrone, Dromio? Sta egli bene?
Drom. È disceso nei limbi del Tartaro, peggio che in inferno. Un diavolo lo ha afferrato: un diavolo il di cui cuore è rivestito d’acciaio, un genio maligno, feroce, spietato: peggio ancora, un bufalo. Un amico falso e traditore che vi sorprende alle spalle, un fantasima che sta nell’imboccatura delle strade; un mastino che fiuta le vostre orme: un serpe che vi avviluppa colla sua coda, senza che possiate più liberarvene.
Adr. Ma che fu?
Drom. Non lo so, ma so che fu arrestato.
Adr. Arrestato? a istanza di chi?
Drom. Non saprei dirvelo. Volete per riscattarlo mandare a prendere quei ducati che stan nello scrigno?
Adr. Corri a cercarli, sorella. (Luc. esce) Stupisco che egli abbia debiti a me sconosciuti. Dimmi fu arrestato per un’obbligazione...
Drom. No, per una catena.
Adr. Per una catena...
Drom. Sì, sì, avrete poi più ampii schiarimenti. Il tempo stringe, e non posso ora fermarmi.
Adr. Corri dunque, eccoti il danaro. (accennandogli Luciana che entra) Portargliene subito, e riconducilo subito a casa. — Vieni, sorella, la mia anima ha bisogno dei tuoi conforti. (escono)
SCENA III.
La stessa.
Entra Antifolo di Siracusa.
Ant. Non incontro un uomo che non mi saluti, come s’io fossi suo intimo amico, e che non mi chiami per nome. Uno mi esibisce danaro, l’altro mi invita a pranzo; v’ha chi mi ringrazia dei servigi ch’io gli ho resi; chi mi prega di continuargli il mio favore; chi mi rammenta le promesse passate. — Tutto questo è certamente un incantesimo, illusione, malìa, e le streglie di Lapponia son venute a fermar qui la loro dimora. (entra Dromio di Siracusa)
Drom. Padrone, ecco l’oro che mi mandaste a prendere.... Come! siete già sprigionato?
Ant. Che diavolo dici?
Drom. E dov’è ito l’uffiziale, che come un cattivo angelo venne a rapirvi la dolce libertà?
Ant. Tu mi hai del demente.
Drom. Che avvenne di colui che dà riposo alle genti affaticate, che ha pietà dei falliti e dei miseri, che un ricetto offre a tutti gli infortunii umani?
Ant. Ma di chi parli, malandrino?
Drom. Di quell’uffiziale che vi aveva arrestato.
Ant. Ah! via, rimanti nella tua follìa. — V’è qualche vascello che parta questa sera? Potrem noi una volta andarcene da questa città dove tutti delirano?
Drom. Sì, signore; e già vi dissi che una barca stava per mettere alla vela, ma l’uffiziale allora v’impediva di badarmi, e non sapevate più dove foste.
Ant. Tu hai smarrito il senno, ed io pure; e noi non passiam qui che d’errore in errore. Potenze del Cielo! toglieteci da questi luoghi. (entra una Cortigiana)
Cor. Ben trovato, messer Antifolo. Avete veduto l’orefice? Dov’è la mia catena?
Ant. Vattene, Satana! Ti vieto di tentarmi.
Drom. Padrone, è questa madonna Satana?
Ant. È il diavolo.
Drom. È peggio ancora, è la dama del diavolo, e qui viene in leggiadro arnese e con sembianze luminose per tirarci tutti nelle reti del suo amato.
Cor. Siete ammirabili entrambi, signori. Volete venir con me? Faremo un po’ di gozzoviglia.
Drom. Padrone, sa dovete assaporare di una vivanda che si mangia col cucchiaio, chiedete un cncchiaio dal manico lungo.
Ant. Perchè, Dromio?
Drom. Perchè occorre un cucchiaio lungo a chi deve mangiare in compagnia del diavolo.
Ant. Via da me, furia! Che mi vieni tu a parlar di mangiare? Tu sei, come tutte le pari tue, una strega: io ti esorcizo, e ti comando di lasciarmi.
Cor. Rendetemi dunque l’anello che m’avete preso a pranzo, o per il mio diamante datemi la catena che mi avete promessa, e allora vi lascierò, signore, e più non v’infesterò.
Drom. Vi sono certi diavoli che non chieggono che un’unghia, una spilla, un capello, una goccia di sangue; ma costei più arida vorrebbe una catena. Padrone, siate cauto, se le date una catena, essa la scuoterà, e vi farà spavento.
Cor. Ve ne prego, signore, il mio anello o la mia catena. Spero che non avrete voluto ingannarmi.
Ant. Vuoi tu lasciarmi, strega? Su, Dromio, partiamo.
Drom. Fuggi l’orgoglio, dice il pavone: è bene che lo sappiate, madonna. (esce con Ant.)
Cor. Non v’è più da dubitarne, Antifolo è impazzito, altrimenti non si sarebbe comportato in tal guisa: egli ha un mio anello del valore di quaranta ducati, e mi aveva promesso una catena d’oro: ora mi niega l’uno e l’altra, ciò che m’induce a credere ch’è affatto demente. Quello che mi afforza sempre più in tal concetto è il discorso che oggi mi tenne, che non era potuto rientrare in casa, che gli era stata chiusa la porta, ed è probabile che sua moglie, conoscendo i suoi impeti di follìa, non l’abbia voluto ricevere. Ciò che debbo fare dunque ora è di correr da sua moglie per dirle ch’ei mi ha rapito un anello, e farmene restituire: troppo mi dorrebbe ch’io avessi da perder così quaranta ducati. (esce)
SCENA IV.
La stessa.
Entra Antifolo di Efeso e un Uffiziale.
Ant. Non temete, non fuggirò: vi darò prima di lasciarvi il danaro che chiedete. Mia moglie sarà di pessimo umore, e non crederà sì di leggieri al messo che le avrà detto ch’io fai arrestato per debiti: di tale novella, non potrà restar capace. (entra Dromio di Efeso con una corda) Ecco il mio domestico; spero mi rechi il necessario. Ebbene, Dromio, hai quello che ti mandai a prendere?
Drom. Ecco di che pagarli tutti. (dandogli la corda)
Ant. Ma dov’è il danaro?
Drom. Il danaro lo spesi per la corda.
Ant. Cinquecento ducati, furfante, per una corda?
Drom. Ve ne porterò cinquecento simili a questa, per un tal prezzo.
Ant. Perchè ti comandai io di correre a casa?
Drom. Per prendere un po’ di corda, ed è per portarvela che son tornato.
Ant. E sia questo il tuo accoglimento. (battendolo)
Uff. Signore, siate paziente.
Drom. Tocca a me l’esserlo: io che sono nelle avversità.
Uff. Frena la lingua.
Drom. Persuadetelo piuttosto a frenar le mani.
Ant. Mariuolo, vile, mentecatto, insensato.
Drom. Vorrei essere insensato, signore, per non sentire i vostri colpi.
Ant. Tu non senti, come i ciuchi, altro che le percosse.
Drom. E un ciuco sono in fatti, lo potete provare dalle mie lunghe orecchie. Io l’ho servito dall’istante della mia nascita in poi, e non ho ricevuto da lui in mercede altro che colpi: allorchè ho freddo, ei mi riscalda battendomi, allorchè ho caldo, battendomi mi raffredda. È colle botte ch’ei mi sveglia quando dormo, che mi fa sorgere quando siedo, che m’invia a qualche messaggio, che mi riceve al mio ritorno. I suoi colpi cadono perennemente sul mio dorso, e credo che finirà per rendermi storpio ed imbelle. (entrano Adriana, Luciana e la Cortigiana con Pinch ed altri)
Ant. Venite meco; veggo mia moglie che s’avanza.
Drom. Padrone, respice finem, badate al termine; o piuttosto, come corre la profezia, badate alla corda.
Adr. (a Drom.) Vorrai tu sempre parlare? (battendolo)
Cor. Che ne dite ora? Non è pazzo vostro marito?
Adr. La sua inurbanità ne è una nuova prova. Buon dottor Pinch, voi che siete esorcista, riponetelo in senno, ed io vi darò quello che mi chiederete.
Luc. Oimè! come feroci e scintillanti sono i suoi sguardi.
Cor. Guardate come trema nei suoi furori.
Pinch. Datemi la vostra mano, e lasciate che io vi senta il polso.
Ant. Eccovela, e le vostre guancie giudichino se è potente. (dandogli uno schiaffo)
Pinch. Ti comando, Satana, di escire dal corpo di quest’uomo, e di ricader tosto nei tuoi abissi tenebrosi: esci, te lo impongo in nome delle mie preghiere e di tutti i santi del cielo.
Ant. Taci, stolto, non sono indemoniato.
Adr. Piacesse al cielo che nol fossi, povera anima!
Ant. Riserbatemi la vostra compassione, graziosa signora. Era questi l’uomo che stava oggi con voi, e ne interdiceva l’accesso in casa mia? Era questa faccia di croco?
Adr. Oh marito! Dio sa che voi avete oggi pranzato con me, e se foste restato con me fino ad ora, non sareste andato soggetto a questi oltraggi.
Ant. Io ho pranzato in mia casa? Che ne dici, furfante?
Drom. Per dir la verità, signore, non avete pranzato in casa vostra.
Ant. Le mie porte non erano chiuse, mentr’io ne stavo fuori?
Drom. Certamente, certamente.
Ant. E non mi scherniva ella intanto?
Drom. Vi scherniva.
Ant. E la sua ancella non diceva corna di me?
Drom. Certo, diceva; quella bella vestale da cucina.
Ant. E pieno di sdegno non mi partii io di colà?
Drom. Sì, ciò faceste, e le mie ossa possono attestarlo: esse che di poi sentirono tutto il vigore della vostra rabbia.
Adr. (a Drom.) Sta egli bene il secondare la sua follìa?
Pinch. In ciò non v’è male; ei così la renderà più mite.
Ant. Tu subornasti l’orefice per farmi arrestare.
Adr. Oimè! io vi mandai anzi il danaro per farvi riporre in libertà. Dromio, che sta qui, venne con ansia a prenderlo.
Drom. Io? io non so quello che diciate.
Ant. Non andasti tu da lei, per aver una borsa di danaro?
Adr. Sì, ed io gliela diedi.
Luc. Posso far testimonianza, che questo è vero.
Drom. Dio mi è testimonio, che non fui mandato a prender che una corda.
Pinch. Signora, il padrone e il servo stan del pari in potestà del diavolo. Lo veggo dal loro pallore, dai loro occhi infossati. Bisogna legarli, e metterli in qualche stanza buia.
Ant. Dimmi, perchè tu mi chiudesti oggi la porta? (a Adr.) e perchè nieghi d’aver ricevuto quel danaro? (a Drom.)
Adr. Io non ti chiusi la porta, sposo mio.
Drom. Ed io non ricevei danaro, padrone; ma però confesso che foste chiuso fuori.
Adr. Perverso bugiardo, tu mentisci villanamente.
Ant. Mendace prostituta, tu sei in tutto falsa: tu ti sei posta in lega con una schiera di scellerati, per insultarmi e cuoprirmi d’onta, ma con quest’unghie io ti strapperò quegli occhi perfidi, che si piacciono di vedermi in tanta vergogna. (Pinch, assistito dagli altri, lega Ant. e Drom.)
Adr. Oh! legatelo, legatelo, ch’ei non mi venga vicino.
Pinch. Soccorso, soccorso! Il demonio che gli sta dentro è dei più forti.
Luc. Oimè! pover’uomo come diventa pallido.
Ant. Volete uccidermi? Io sono tuo prigioniero, uffiziale, e lasci fare tale strazio di me?
Uff. Scioglietelo, signori; egli è mio prigioniero.
Pinch. Legate anche costui, è del pari insensato.
Adr. Che pretenderesti tu, uffiziale? Avresti piacere di vedere un miserabile a farsi ingiuria da se stesso?
Uff. Egli è mio prigioniero; se lo lascio a voi dovrà scontare il debito per cui fu arrestato.
Adr. Il debito lo pagherò io: conducimi dal suo creditore. Mio caro dottore, fate ch’ei sia trasportato con sicurezza fino a casa mia. — Oh sventurato giorno!
Ant. Oh vil prostituta!
Drom. Padrone, eccomi legato per cagion vostra.
Ant. Lungi da me, carnefice! Tu mi renderesti frenetico.
Drom. Volete dunque esser legato per nulla? Siate pazzo, padrone, e gridate al diavolo.
Luc. Dio assista quelle povere anime! Come delirano.
Adr. Conduceteli via. — Sorella, venite meco. (esce Pinch coi suoi assistenti, Ant. e Drom.) Ditemi ora a istanza di chi fu arrestato?
Uff. Dell’orefice Angelo: lo conoscete?
Adr. Lo conosco; qual somma gli deve?
Uff. Duecento ducati.
Adr. E perchè glieli deve?
Uff. Per prezzo di una catena che ha ricevuta da lui.
Adr. Egli ordinò una catena per me, ma poi non l’ebbe.
Cor. Quando vostro marito frenetico è entrato oggi in mia casa, e mi ha rapito l’anello che testè gli ho visto in dito, un momento dopo l’ho trovato colla catena.
Adr. Sarà, ma io non l’ho mai veduta. — Venite, ufficiale: conducetemi da quest’orefice, ardo dal desiderio di conoscer bene questa faccenda. (entra Antifolo di Siracusa colla spada sguainata, e Dromio di Siracusa).
Luc. Misericordia! Guardate chi viene.
Adr. Chiamate soccorso per farli legar di nuovo.
Uff. Fuggiamo, perchè ne ucciderebbero. (esce con Adr. e Luc.)
Ant. Veggo che queste streghe han paura della spada.
Drom. Quella che voleva essere vostra moglie, fugge ora da voi.
Ant. Andiamo al Centauro, prendiamo le cose nostre: non veggo il momento di esser partito di qui.
Drom. Restiamo anche questa notte, nulla di sinistro ne potrà accadere. Vedeste che ne parlarono amichevolmente, che ne diedero ore: io credo che siamo in mezzo ad un buon popolo, e senza quella pazza femmina che mi vorrebbe per marito, acconsentirei a restar qui sempre, e a divenire stregone come tutti gli altri.
Ant. Non mi fermerei un’ora di più in questa città per tutto l’oro del mondo; andiamo all’albergo, e facciamo portar in barca tutti i nostri bagagli. (escono)