La chioma di Berenice (1803)/Considerazione VI
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considerazione vi
Scavo del monte Athos.
Verso 45. — Cicerone (de finib., ii, cap. 34) memora lo scavo dell’Athos; Diodoro Siculo (lib. xi), Properzio (lib. ii, eleg. 11, 20), Plinio (lib. iv, 10), Pomponio Mela (de sit. Orb., lib. ii, 2), ed altri; oltre a questi versi di Callimaco, ed i due primi narratori Erodoto (lib. vii, 22) e Tucidide (lib. iv, cap. 109). Nondimeno i cementatori del poemetto tacciono: madama Dacier reca il testimonio di un viaggiatore del secolo xvi: Belonius tamen ait se numquam ulla vestigia divisionis in illo monte animadvertisse: onde il Volpi da buon gramatico, chiosa anch’egli: De hac sive historia sive fabula etc.; e, dove ei ci annoja con le sue dissertazioni sull’abbicì, di tanto fatto non degna di scrivere una parola. Fra gli antichi unico, ch’io mi sappia, è Giovenale, a cui sembra che lo scavo dell’Athos sia uno degli argomenti contro la fede della storia greca. Sat. x, v. 173.
— Creditiir olim
Velificatus Athos, et quidquid Graecia mendax
Audet in historia, e seg.
L’esame di questo fatto restituirà, spero, la fede dovuta a Tucidide.
Omero (Iliad. xiv, 229) e dopo lui Strabone (lib. i, poco dopo il principio), Mela (loc. cit.) e Stefano, chiamano Tracio il monte Athos, perché non era disgiunto dalla Tracia se non dal golfo Strimonio. Più ragionevolmente Plinio (lib. iv, 10) e Tolomeo, seguiti da’ moderni, lo ascrivono alla Macedonia, perché, sebbene le sia disgiunto a mezzogiorno dal golfo Singitico, tocca il suo continente per mezzo di una lingua di terra, che si prolunga dall’occidente del monte all’oriente della Macedonia. L’Athos era dunque una penisola, e tale è descritto nella Grecia antica tratta dal Sofiano (Tesoro gronoviano delle antichità greche, vol. iv): né diverso è l’Athos di cui parlano i viaggiatori recenti (Sonini, voyage en Turquie, ii, cap. 3S). Ov’è dunque la fossa operata da Serse per le sue navi? Il Belonio non la vide; e, se il monte fu sempre come è, Erodoto, Tucidide e Callimaco spacciarono a’ posteri favole. Ma poteano spacciarle a’ contemporanei? Sappiamo da Strabone (Excerpta, lib. vii) e da Plinio (lib. iv, 10; lib. vii, 2) che l’Athos era abitato per cinque grossi borghi. Per lo scavo di Serse i borghi divennero isola (Erod., vii, 22). Dunque i persiani non possono avere scavato se non l’istmo che univa il monte al lato orientale della Macedonia, e dove il Sofiano segna la città di Acanto. Tucidide ed Erodoto (loc. cit.) pongono Sana città su l’istmo, e la fossa tra Sana e le città dell’Athos: chi vorrà dunque supporre che sia stato tagliato il monte, anziché l’istmo? Ma Erodoto stesso non dice: ὀρύσσειν ἐκέλευε διώρυχα τῇ θαλάσσῃ: comandò che si scavasse la fossa al mare? Anzi l’interprete latino (ediz. Vesseling) traduce, jussit isthmum intercidi. Né Serse avea d’uopo se non di quell’apertura, onde sfuggire di costeggiare tutto l’Athos. I persiani avean tre anni addietro perduta intorno all’Athos un’armata navale (Erod. loc. cit., Eliano, hist. var., i, 15). Essendo l’Athos prominente sul mare ed orrido di rocce e di scogli, riusciva pericolosa la navigazione in quei tempi, quando tutta stava nel costeggiare. Gettando per la sua altezza e per li due golfi da’ quali è bagnato venti repentini, concitava l’Egeo, che portava le navi a rompere sulle radici del monte. Serse nell’anno i dell’olimpiade lxxv, fatto cauto dal primo naufragio, aprì la fossa di cui non appajono più vestigi. Ma non per questo sono bugiardi gli storici. L’istmo tagliato non era più lungo di dodici stadi (Erod., lib. vii, 22). Lo scavo era appena sì largo, che potessero passare due triremi, remigando del pari (ibid.). La fossa né potea livellarsi a’ fondi del mare, né i persiani ne abbisognavano; e bastavano otto o dieci piedi al più, poiché tanto incirca pescavan le antiche triremi.
Ora in assai luoghi e tuttodì nelle paludi di Venezia si vede che il mare, retrocedendo, lascia banchi di arene ed isolette. Atene oggi sei miglia lontana dalla marina, è pur quella stessa Atene (e lo confermano le sue antiche reliquie) sì vicina al Pireo. Il mare usurpando nuovi regni cede gli antichi; perocché anch’egli obbedisce a quella legge universale della natura che ne’ perpetui cangiamenti delle cose nulla scemi e nulla cresca. Così l’istmo dell’Athos, essendo fra due golfi inquieti sempre per li venti da terra, e specialmente lo Strimonio per quei della Tracia, detta da’ poeti sede di borea (Orazio, Epod. xiii, v. 4, ed altri), potea facilmente ricongiungersi, stante il perenne e violento ondeggiare che sforza il mare a ritirarsi; e molto più in un canale non più lungo di quattro miglia, largo appena per lo remeggio di due triremi e dieci piedi profondo. E forse la necessità di commerciare più agevolmente col monte, che fu sempre ed è tuttora abitato, strinse le città ed i borghi vicini all’istmo ad aiutare la natura con l’arte.
A queste opposizioni degl’interpreti e de’ viaggiatori prosciolte, s’aggiungono due altre: una di Ubbone Emio (De Graecia veteri, lib. v), riferendo Strabone ove descrive l’Athos di tanta altezza, che dalle sue cime si vede il sole assai prima che sorga: però il moderno geografo taccia di favoleggiatore l’antico. Ma l’orizzonte solare cresce sempre in proporzione quadrata dell’altezza da cui si guarda, perché, nel volgersi della terra, le alture incontrano prime i raggi del sole: perciò sulla sera vediamo ultimi ad oscurarsi i vertici de’ monti. Tanto più dunque può ciò avverarsi nell’Athos, il quale siede sull’Egeo, ed il piano orizzontale, che più ampiamente percorra, è il mare dall’oriente. I poeti lo chiamano figliuolo di Nettuno e di Rodope, perché è tutto cinto dal mare, ed il nome Rodope è composto da ῥόδον rosa, attributo dell’aurora, e da ὄπτομαι, ὄψομαι vedere, appunto perché l’aurora appare più presto in quei monti che nelle vicine pianure. L’altra opposizione è mossa dal Sonini. Viaggiò costui per ordine del re Luigi xvi, e scrisse il suo itinerario. Ma, con quell’enfasi tutta propria de’ viaggiatori, e de’ viaggiatori francesi, ei stenta a credere che l’Athos fosse quel monte che dovea essere eterno monumento della statua d’Alessandro immaginata da Dinocrate (voyage en Grèce et en Turquie, tom. ii, cap. 38). Plutarco scrive Stasicrate nella vita di Alessandro; Vitruvio, nel proemio del lib. ii, Dinocrate; Strabone Chinocrate; Giustino, lib. xii, Cleomene. Dovea quel colosso tenere nella sinistra mano una città di diecimila abitanti, e versare dalla destra un fiume, che dall’alto cascasse nell’Egeo (Plutarco, loc. cit.). Né fa motto il Sonini dell’altre storie, per cui quel monte è nobilitato; anzi pare ch’ei tenga da poco tutte le antiche memorie. Ma, se pur fosse vero che l’Athos, come ei lo vedeva, o gli parea di vederlo, smentisse la magnificenza con che gli storici ne parlarono, non doveva essergli ignoto che i monti decrescono coll’andare de’ secoli. Ch’ei fosse altissimo lo sappiamo dalle tradizioni di età immemorabili, poiché sulle sue vette si salvò Deucalione dall’acque che innondarono quella parte del mondo (Platone nel Timeo, sul principio). Plinio scrive che l’ombra dell’Athos cadeva sino a Lenno (lib. iv, 10), appunto dentro il foro di Mirina, borgo; Belonio sino a Mitilene, sei miglia men lontano. Da’ greci de’ miei giorni è anzi annoverato fra gli altissimi monti, ed è abitato da innumerabili monaci, che si governano in forma di repubblica. Un monumento, che s’incontra nel tomo primo delle antichità greche compilate dal Gronovio, rappresenta il genio dell’Athos con la testa che posa sulla mano, e con gli occhi rivolti alla terra. La quale immagine credesi dagli eruditi simbolo del diluvio da cui quel monte salvò i mortali.