La chioma di Berenice (1803)/Considerazione VII
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considerazione vii
Calibi.
Verso 48. Iuppiter, ut Χαλύβων omne genus pereat!
Giustino (lib. xliv, cap. 3) scrive: — «I Calibi prendono il nome dal fiume Calibe in Gallecia, paesi fertili di miniere, principalmente di ferro, che diventa più forte per l’acqua del fiume, ov’eglino lo tempravano: né usavano di armi, se prima non erano infuse in quell’onde». — Apollonio Rodio (lib. ii, vers. 375) li pone nella Scizia oltre il regno delle Amazzoni, autorità seguita da Vincenzo Monti nel Prometeo (Canto ii, inedito):
Come presserò il suolo, a cui dier fama
I calibi operosi, ecco, dicea,
Ecco una terra, a cui le colpe avranno
Obbligo molto. Un popolo malvagio
L’abiterà, che nei profondi fianchi
Delle rigide rupi andran primieri
A ricercar del ferro i latebrosi
Duri covili, e con fatal consiglio
A domarlo nel foco, a figurarlo
In arnesi di morte impareranno.
L’Ire, gli Odij, i Rancor, le Gelosie
E l’Erinni, che pigre ed incruente
Andar vagando fra’ mortali or vedi,
Allor di spada armate e di coltello
Scorreran l’universo, e non il seno
Del ritroso terren, non l’elce e l’orno,
Ma l’uman petto impiagheran crudeli,
E di sangue, più ch’altri, bagneransi
Re feroci e tiranni sacerdoti,
cui son le colpe necessarie . . .
Ovid., fast. iv, 405:
Æs erat in pretio: chalybeïa massa latebat;
Heu quam perpetuo debuit illa tegi!
Plinio (lib. vii, 56) scrive: Ærariam fabricam alii Chalybas, alii Cyclopas (putant monstrasse). Ferrum Hesiodus in Creta eos qui vocali sunt Dactyli Idaei. Strabone (lib. xii) narra che i Calibi furono Caldei, i quali passarono a fondare le colonie di Smirna, di Cuma, e le vicine, tenute poi dai Greci. Rispetto a’ Dattili idei, detti talor Cureti, talor Coribanti e Telchini, è universale opinione nelle antiche memorie che fossero i primi signori di Creta; e di Strabone (lib. x) che fossero dalla Frigia chiamati in Grecia da Rea per nutrire Giove. Ma che da questi fosse trovato il ferro non è sola opinione di Esiodo e di Plinio; l’abbiamo chiaramente ne’ celebri marmi d’Oxford. Ecco la traduzione letterale italiana, lasciando i frammenti a lor luogo. = Epoca xi. «Da che Minos pr . . . (supplisci primo) regnò e fabbricò . . . donia (Cidonia) e fu il ferro ritrovato nell’Ida (monte di Creta); trovatori gli Idei Dattili, Celmi e Damnaneo, anni mclxvii; regnante in Atene Pandione». Epoca che viene a cadere dcli anno prima di Roma. Eccoti intanto trovato e lavorato il ferro dagli Iberi, dai Siciliani, dagli Sciti, da’ Caldei, da’ Greci, tutti tenendo gli stessi nomi di Calibi e Telchini; il che mi porta a credere che, essendosi da varie genti in varie parti del mondo trovato il ferro, sia poi restato il nome χάλυβς dal ferro temprato, che e nella Grecia ed in Roma chiama vasi Chalybs, acciaio. Onde leggesi nell’Eneide viii, 446.
Volnificusque chalybs vasta fornace liquescit.
Ed Eschilo più poeticamente nel Prometeo verso 133.
Κτύπου γάρ ἐχώ χάλυβος διῇξεν ἄντρων
Il suono dello stridente calibe penetrò gli antri.
Se non che forse trovandosi in Ispagna il fiume Calibe nominato da Giustino (loc. cit.), dove temprato il ferro acquistava violenza, si può sospettare che que’ popoli ricchi e prepotenti per quest’arte passassero a fondare colonie e ad insegnarla alle altre nazioni; onde l’acciaio ebbe poi nome di Chalybs. Χαλκός prendesi dai Greci per rame, per armi e per moneta; χαλκεύω fabbricare rame; χαλκεῖον officina de’ fabbri ferraj; e χαλύμος venefico: voci tutte che veggonsi tratte da una sola radice, e che non disconvengono agli usi, ai danni, ed all’arte del ferro. I Cureti, detti anche Dattili Idei, educatori di Giove, e che Strabone (lib. x), Lucrezio (lib. ii, 229) fanno discendere dalla Frigia, sono da Giustino (loc. cit.) descritti vicini a’ Calibi, e primi trovatori del mele. Donde venne la favola di Giove da’ Cureti allevato, e lo strepito delle armi per celare i suoi vagiti al divoratore Saturno (Ovid. fast. iv, 207 e sg.; Lucrezio, loc. cit.; Callimaco, in Giove), e la tutela di cui Giove, riconoscente a’ Cureti, favorì le api (Virgil. georg. lib. iv, 149); però le api svagate ritornano al suono del rame. Lamento di Cecco da Varlungo, stanza xxxi— xxxii.
E le mie pecchie son tutte scappate
Su quel di Nencio, e sur un pioppo andate.
Picchia teglie e padelle a più non posso
Di raccattarle e’ non c’è verso stato,
Ma le mi s’enno difilate addosso,
E m’han con gli aghi lor tutto forato.