La chioma di Berenice (1803)/Considerazione IX
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considerazione ix
Deificazioni.
Così dunque Mennone per la sua antichità fu argomento di molte favole, di religione e di miracoli. L’eruditissimo Jablonscki (De Menmnone Ægyptiorum, Syntag. iii, capp. 5-6) discorre della divinità di questo Mennone o Osimande. Ma gran danno è pur quello che ne arrecano gli eruditi, i quali, compilando aridamente e pazientemente le antiche memorie, né le cause indagano, né gli effetti. Tenterò di supplirvi come potrò, valendomi di ciò che la lezione dell’antiche storie e la osservazione de’ miei tempi feracissimi di verità politiche mi hanno somministrato. La necessità d’incutere ne’ popoli il timore dello scettro e delle leggi strinse da prima i principi a collegarsi col cielo, ed a pubblicare gli ordini degli stati per mezzo della voce divina. Però la teologia de’ popoli racchiude sempre i germi della loro legislazione. E Mosè fu legislatore, capitano e profeta delle tribù di Israele; ed i re stessi presso gli Ebrei si chiamavano unti del Signore, ed i Romani erano giureconsulti, magistrati e pontefici ad un tempo, e nel ricorso de’ tempi barbari i re di Francia si chiamavano conti ed abati di Parigi. Aristotele (lib. iv della repubblica) nota che ne’ tempi eroici, Reges dum bellum gererent imperii summam tenebant praeerantque sacrificiis. Le nazioni per la perpetua legge dell’universo alternano la schiavitù e la signoria; questa la si ottiene per lo più dal genio di un uomo solo, l’altra succede con la debolezza che reca il tempo e la vecchiaia di uno stato: ov’è da osservare che le nazioni potenti pel genio di un solo sovra le altre, sono poi schiave di quel solo, e de’ discendenti di lui. Or questa regale famiglia ha d’uopo di collegarsi col cielo per dominare le braccia degli uomini, dominandone il cuore. Con questa ragione si spiega la moltiplicità de’ Numi, e dove si potessero ritrovare tutte le epoche de’ cangiamenti politici del mondo, si troverebbero nuove apoteosi. Seguirò solo le più solenni. Gli Etiopi i quali per un’antica tradizione tennero (Plinio, libro vi, cap. 29) gran parte del mondo, tramandarono Mennone; gli Egizj Sesostri; gli Assirj Belo e Semiramide (Bianchini, Stor. univers., deca iii, cap. 21); i Greci Alessandro; i Romani Cesare. De’ secoli posteriori non parlo: chi di queste cose vede il midollo, può, senza più, arrivare alle mie applicazioni; e chi non lo vede, perderebbe meco tempo e fatica. Del perché Alessandro e Cesare non sieno a noi giunti come numi, si può assegnare tre ragioni: 1° La copia delle storie che non concesse alla ignoranza del volgo di pascersi delle incerte meraviglie dell’antichità; 2° i loro successori nemici fra loro e di diverse famiglie; 3° le religioni armate che sottentrarono alla gentile, come la cristiana a’ tempi di Costantino, e la musulmana dopo le conquiste di Maometto.
Mi fermerò sulle apoteosi delle tre prime regine di Egitto, delle quali ho parlato nel discorso ii. Ognun sa quanto Alessandro affettasse divinità, sino a farsi credere figliuolo di Giove, ed a farsi salutare dal sacerdote indiano con questo nome. Molte medaglie con le corna, che passano sotto il nome di Lisimaco, sono da qualche erudito credute di Alessandro, appunto per quel simbolo di Giove Ammone; e chi volesse vedere i simboli e le effigie del sovrano guerriero, ricorra al libro di Erasmus Froeslich (Annales compendiarii Syriae: Numismatum, tav. i, Vienna 1744). Plutarco, raccontando queste origini divine d’Alessandro, conclude: Dalle parole di lui manifestamente appariva ch’egli non aveva in se medesimo persuasione di essere dio, né superbiva per ciò: ma serviasi di questa opinione della divinità sua per così meglio sottomettersi gli altri. Così i Tolomei, suoi successori, non veggendosi a principio stabilmente signori dell’Egitto, tentarono tutte le vie per associarsi agli dèi. Quindi la favola dell’aquila, di cui parlano Suida, e Diodoro siculo (lib. xvii); quindi le celesti e regali origini di Lago, da noi già notate (discors. ìii, 2), e gli onori divini fatti da’ Rodiani a Tolomeo primo, adorandolo come Salvatore (Diod. sic., lib. xx; Plutarco in Demetrio, Pausan. in Atticis). Ma, perch’ei dovea più sperare dall’opinione che le genti aveano d’Alessandro, che di lui medesimo, egli usò d’armi e d’astuzia per avere il cadavere del Magno, e lo seppellì in Menfi, donde poi Filadelfo lo trasportò in Alessandria (Strab. lib. xvii; Curzio, lib. x, cap. ult.; Diodoro, lib. xviii; Pausan., in Atticis). Dopo di che, Filadelfo fece ascrivere fra gli immortali il padre e la madre Berenice, e fabbricò loro (Teocr., panegirico di Tolomeo ) templi odorati; ed innalzò cospicui simolacri d’oro e di avorio onde sieno aiutatori a’ mortali ed a’ loro devoti. E stabilì loro feste ricorrendo certi mesi, e sacrifici di vittime massime (id. ibid.) Non trovo ricordanza di favole teologiche intorno a Tolomeo primo; bensì i suoi successori comprarono gli uomini scienziati, ed i poeti per istituire un culto a Berenice, fondato sul mirabile. Teocrito idil. xvii, v. 45:
O veneranda e sovra tutte quante
Dee la più bella, o Venere! Tua cura
Fu Berenice, e tua mercè la bella
Non varcò d’Acheronte il molto pianto.
Tu la rapisti pria che al fiume negro
e al sempre triste traghettier de’ morti
Giungesse, e lei nel tuo tempio locavi
Al tuo culto Compagna, onde a’ mortali
Tutti propizia, amor facili spira,
Miti cure concede a chi la prega.
Così, si associò Berenice a Venere, e fu ajutatrice della passione universale dell’uomo. Che se non si fossero perduti gli inni di Teocrito, avremmo più notizie di questo culto dal poemetto ch’ei scrisse sopra la prima Berenice, perché dalle reliquie, che ne restano, appare non essersi la divozione verso il nuovo nume ristretta negli amanti; ma, perché gl’infelici mortali han d’uopo di speranze fuori di questo mondo e di Numi nuovi e diversi (ché gli antichi per lo più li deludono), ella era invocata da’ pescatori e da’ naviganti (Teocr. frammenti). Questa necessità di Numi moltiplicò le apoteosi de’ propugnatori e maestri del cristianesimo, e ben vide chi li santificò; ma, se i sacerdoti possono santificare, i soli principi possono far adorare i santi. Però né culto, né templi ebbe Platone, sebbene cognominato divino e reputato semideo (Agostino de civit. Dei, cap. xv), ed appena i filosofi convenivano per cenare in onore di questo sapiente (Euseb., de praeparat., lib. x, cap. i, ex Porphyrii libro de studioso auditu). Or è da badare come in un tempo cotanto illustre per la filosofia e le arti belle siesi il culto di Berenice propagato in Egitto ed in tutte le province de’ Tolomei. Fu insinuato per mezzo di splendide solennità, sì care a’ popoli e sì necessarie a’ governi. Una delle quali eran le feste e le processioni chiamate Adonie. Teocrito, fest. Adon., verso 106:
O Cipria Dionea, tu Berenice,
Siccome è grido, dal mortale ceto
Festi immortale; perocché nel petto
Stillasti ambrosia della donna bella,
Onde a te, Dea per molti inclita nomi
E per molte are celebrata, or offre
Grazie la pari ad Elena, la figlia
Di Berenice Arsinoe, di mille
E varj doni ornando il bello Adone.
I doni vedili descritti nel poeta e nel suo interprete Varthon. Le feste riuscivano gradite agli Egizj, e per la prodigalità de’ re, e per la pompa, e per la voluttà delle giovinette, le quali in quelle solennità andavano con le mamme scoperte e con tutte le licenze che l’Egitto imitò dagli Assirj (Luciano de Dea Syria). Così la deità nuova diveniva cara e necessaria.
La seconda regina di Egitto fu Arsinoe, quella stessa che fu di macchina nel nostro poemetto, e s’è mostrata deificata a pag. 112, 113.
La terza fu la Berenice dalla bella chioma, la quale, impaziente dell’apoteosi la fece conseguire anzi la morte alle proprie trecce, ed era sin da’ primi tempi del suo matrimonio riputata immortale come le Grazie. Callimaco, epigram. lv:
Quattro sono le Grazie: or s’è creata,
Oltra le prime tre, Grazia novella
Rugiadosa d’unguenti. Oh fortunata
E a tutte invidia Berenice bella,
Che le Grazie non son Grazie senz’ella!
Vedi un altro de’ tanti antichi esempi, ove 3 — 1 = 0.
Frattanto senza ch’io più mi distenda, le medaglie tutte de’ Tolomei (Annales compendiarii Syriae Erasmi Froeslich), le loro statue (Paus., in Atticis), i nomi che le Berenici e le Arsinoi regine davano alle città e alle province (Plin., lib. v, cap. 9; Tolomeo Geograf. Strabone ed altri); le lodi sterminate e più che divine, che i re stessi d’Egitto si arrogavano (Monumentum adulitanum, da noi cit. a pag. 31), dimostrano abbastanza che non solo que’ principi affettavano divinità, ma che l’aveano nell’opinione de’ sudditi conseguita. Da questa considerazione nascono i seguenti corollari: 1° I Numi delle nazioni sono stati di mano in mano i principi, legislatori e sacerdoti. 2° I poeti furono i primi teologi, storici e giurisconsulti delle nazioni. 3° Ogni nuovo stato quantunque in fondo mantenga la religione del paese, deve nondimeno procacciarsi nuove divinità o almen nuovi riti. 4° A questo tendevano gli imperadori primi di Roma e i poeti; e senza Costantino le adulazioni di Orazio e Virgilio, il quale (egl. i, v. 42) chiama praesentes deos fino i cortigiani di Ottaviano Augusto, ci sarebbero giunte non solo come poesia, ma come teologia. 5° Per li lumi sparsi dalla filosofia e dalla storia sulla religione gentile, che, come tutte le umane cose, arrivava alla decrepitezza, non avendosi potuto ne’ popoli istillare la divinità degli imperadori, saggiamente Costantino abbracciò nuova religione, di cui nondimeno o non seppe o non potè interamente valersi.
Note