La chioma di Berenice (1803)/Coma Berenices/Versi 69-70

Coma Berenices - Versi 69-70

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Sed quamquam me nocte premunt vestigia Divum,
     Luce autem canae Tethyi restituor: 70

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varianti.

Verso 70. Principe, Lux aut cavae Thesei restituo. Mss. Ambros. tre Tethi, uno Tethidi, nel resto corrotti: antiche ediz. 1474, 1487 canae restituor Thetidi; 1488 Thetidi restituor. Stazio lux autem canae Tethyi restituat. Palmerio, Meleagro, e Corradino lo sieguono, ma i primi due cangiano l’ultima parola in restituent, l’altro restituam. Alcune edizioni Luce tamen.

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note.

Me nocte premunt etc. Questo distico a me pare assai bello: l’esametro è tutto omerico fino nella giacitura delle parole e nel suono. L’immagine riesce più sublime appunto perchè è men adorna di parole. È più elegante in Virgilio ma non grande egualmente.

Candidus insuetum miratur limen olympi,
Sub pedibus videt nubes et sidera Daphnis.

Di questa differenza dal bello al grande vedi nella sezione xxxv di Dionisio Longino unico autore da leggersi fra tutti gli istitutori di eloquenza; ma da leggersi schietto al tutto di note. Anche Manilio pone gli eroi, lib. i verso 799, nell’orbe latteo sopra le stelle. Arato coetaneo di Callimaco usò delle stesse parole. Fenom. v verso 459.

                    — θεῶν ὐπὸ ποσσὶ φορεῖται
               Λείψανον Ἠριδανοῖο πολυκλαύστου ποταμοῖο.

Tradotto quasi letteralmente da Manilio v verso i4.

          — premunt vestigia Divûm
     Fluminaque errantes late sinuantia flexus

E Jacopo Sannazzaro recato dal Volpi, egl. iii.

               E co’ vestigj santi
               Calchi le stelle erranti.

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Canæ tethyi restituor. S’idoleggia il sorgere ed il tramontare della costellazione Berenicea la quale nell’orto ed occaso cronico sorge la sera, ed all’alba tramonta. — Non é questa la Theti madre di Achille, come tale interprete scrive, che male le starebbe epiteto di canuta. Fu anzi bellissima; e contese con Medea, e, giudice Idomeneo, riportò il pomo: però Medea tacciò di bugiardo il re di Creta, e nacque il proverbio vigente in Grecia anche a’ miei giorni, e celebre ne’ primi versi di Callimaco, inno a Giove: Κρῆτες ἀεὶ ψεῦσται. Epimenide è forse quel poeta citato da Paolo epist. a Tito, i, verso 12. Εἶπέ τις έξ αὐτῶν ἴδιος προφήτης; Κρῆτεs ἀεὶ ψεῦσται, κακὰ θηρὶα, γαστέρες ἀργαί: Disse un de’ loro stessi profeti: i Cretesi sempre bugiardi, male bestie, ventri poltroni. Theti è anche celebre per le sue belle gambe. Antolog. lib. vii epig. 125 e 127, ove una giovinetta é lodata perchè avea gli occhi di Giunone , le mani di Minerva, le mammelle di Venere, e le gambe di Theti. Questa nostra scrivesi Tethys Τηθὺς e si favoleggia figliuola del Cielo e di Vesta, e talor della Terra, o la Terra stessa, sorella e moglie dell’Oceano, madre delle Dive marine: Ovid. Fast, v verso 81,

Duxerat Oceanus quondam Titanida Tethyn.

E Virgilio adulando, augurò ad Augusto l’impero de’ mari; Georg. i nell’invocazione.

Teque sibi generum Tethys emat omnibus undis.

E la distingue, Eneid. v verso 825, da Theti Θέτις madre di Achille la cui regia marina descrive Catullo nelle nozze di Peleo: distinzione che fa Esiodo nella Teogonia, 244, 362, ed Omero Iliade lib. xiv verso 201, ove chiama la nostra Tethy madre degli Dei. Né Callimaco ed il suo traduttore Latino la chiamano canuta per la ragione che la [p. 130 modifica] spuma del mare è detta canuta. Invenzione è questa de’ poeti raffinali; non mai de’ Greci clhe danno bensì attributi agli Dei personificati tratti dalle cose naturali; ma non danno mai al mare ed agli effetti naturali non personificati, metafore traslate dalle persone. Fredda maniera cara a’ purissimi cinquecentisti i quali con le loro empie tigri in volto umano con i loro molli e leggiadri sassi (squisito elogio di un poeta monsignore alla marchesana di Pescara perch’era della famiglia Colonna), e co’ loro sillogismi rimati aprirono la porta al seicento. Ond’io, ove tu tragga nove poeti italiani, e venti canzoni e sonetti de’ secondi, mi ribello da tutti gli altri. Ma Tethy è detta canuta, come é cantato vecchio l’Oceano marito di lei, perchè si finge madre degli Dei, ed ava delle fanciulle Oceanine. Ovidio Fast, v verso 168.

     Tethyos has neptes Oceanique senis

Licofrone poco dopo il principio. τ

          Γραῖαν ξύνευνον Ὠκεανοῦ Τετηνίδα
          LA vecchia Titanide moglie dell’Oceano.

E mille altri simili luoghi in Esiodo ed in Virgilio. — Τηθύς credono che abbia sorgente da Τηθέω nutrire, forse perché tutto si nutre dall’umore; quantunque Platone dà un’altra etimologia più arcana la quale ora non sa tornarmi a mente, e che i curiosi possono cercare nel Cratilo dove Socrate risponde ad Ermogene: vedi anche Proclo lib. v nel Timeo; e Sallustio il filosofo.

Frattanto quei che leggono i greci tradotti, denno a forza confondere Tethy e Theti; e s’io avessi ozio e pazienza da rileggere le sonore inezie de’ nostri moderni, assai poeti di grido sorprenderei in simili abbaglj; perocchè noi siamo schizzinosi troppo; ed i cruscanti [p. 131 modifica] guerreggiano a spada tratta contro alle lettere aspirative. E sì che i signori Accademici sono schiavi per religione degli amichi, e per animosità provinciale contendono la lingua nostra non italiana ma fiorentina. Or i padri nostri non lasciarono scritto ne’ loro rmanoscritti, e stampato nelle prime edizioni TH, H, Y, CH? Ed i fiorentini non si dilettano forse delle aspirazioni e degli ïati? E se i signori Accademici con questa manifesta contraddizione vollero decretare la loro semplice ortografia, poteano farlo co’ loro libri, e nel loro vocabolario; ma chi concedeva ad essi il diritto di violare le antiche edizioni de’ padri nostri, e stamparle poi alla loro foggia moderna, predicandola sacra? Or a me pare che s’abbia ad ubbidire più a’ primi padri ed alla ragione, che a’ gramatici e all’uso. Quella è più bella lingua che è più evidente e più armoniosa: ed è più evidente quanti ha meno equivoci, e più armoniosa quanto ha più tuoni. Onde scrivo Athos, Tethy, e pronunzio Chalcidico ec. Così i latini supplirono con la Y al υ de’ greci, soave vocale tra la U e la I, naturale a’ lombardi, a’ genovesi ed a’ piemontesi, e supplirono col TH al θ e col CH al κ. Che se la lingua del Lazio che pur non è derivata propriamente dal greco non isdtìegnò le spoglie e spesso le desinenze greche, a che sdegneremo, noi popoletti, l’eredità materna? Parimenti dovrebbesi provvedere al vacabolo colto colpito, colto sorpreso, colto coltivato, colto raccolto, ed altri molti sì fatti che non ponno essere ben pronunziati se non in alcuna città di Toscana. Sarebbero bensì pronunziali bene da tutti gli italiani, e più presto intesi dagli stranieri se fossero scritti con le vocali doppie del Trissino, e co’ circonflessi che tentò [p. 132 modifica] il Salvini nel suo Oppiano; ragionevoli tentativi d’evento infelice. E Torquato Tasso per isfuggire l’equivoco di voto e vôto, perchè scrisse vuoto ebbe ad essere flagellato; né trovo altra colpa in quell’illustre sventurato se non ch’ei s’accorava del guaire di quella ciurma di pedanti invidiosi del grande ingegno, come gli eunuchi invidiano i be’ giovani innamorati. Per l’ortografia derivante dall’antica verrebbe non solo più vigore alla nostra lingua, ma chi volesse scrivere, per non gettare fra le tante voci tratte dal greco e dal latino molte lettere a caso, come oggi comodamente si fa, sarebbe astretto a studiare ed a sapere ad un tempo le origini d’infinite voci d’onde scaturisce spesso la dottrina delle cose antiche. E s’io non ho eseguito nelle altre mie operette, ed in questa, il mio disegno, ciò viene perch’io stimo che un uomo di venticinque anni educato sino all’adolescenza fuori d’Italia non debba arrogarsi il diritto di riformatore. Nè questo metodo prevalerà mai senza novelli vocabolarj, fatti sopra gli antichi e sopra i pochi nuovi eccellenti scrittori, specialmente di soggetti scientifichi, e senza che gli ingegni sommi, come Vittorio Alfieri, non ristampino le loro opere più rinomate o quelle dell’Alighieri, e del Macchiavelli a questo modo. Ed avrebbero più seguaci del Trissino e del Salvini, ambedue dotti uomini per proprio studio, ma che non sortirono dalla natura quello Igneum Vigorem et Caelestem Originem, a cui solo tutte le nazioni e le età, sia letterato, guerriero, o politico, obbediranno sempre. La lingua insomma dev’essere padrona degli ingegni mezzani, ma serva degli uomini supremi.