La casa del poeta/Borse
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BORSE
Ai tempi del comunismo, il sor Pio ciabattino aveva procurato qualche dispiacere ai signori, e specialmente alle signore della contrada. Per conto suo, egli non si moveva dal suo bugigattolo, ch’era nel sottosuolo d’una casa all’angolo fra due grandi strade nuove: ma grosso e austero, imponente, salvo il paragone, come un pontefice in trono, tra un foro e l’altro della sua lesina, fori che egli praticava con gusto lento e perverso come si trattasse di farlo sulla pelle dei suoi clienti ricchi, predicava la rivoluzione sociale.
L’uditorio era sempre composto di serve, dei loro spasimanti disoccupati, di ragazzine povere già andate a male, e di monelli.
Le conseguenze erano che questi ultimi davano senza tregua l’assalto alle cancellate dei giardini intorno, e con canne e uncini devastavano le piante e i rosai dei signori: una ragazzina diede senz’altro fuoco ad una catasta di legname di una casa in costruzione, e le serve, d’intesa ferrea fra di loro, domandarono l’aumento dei salari.
Sebbene orgoglioso di quest’ultimo risultato, il sor Pio guardava egualmente arcigno le intraprendenti ragazze: anzi le odiava più che i loro stessi padroni: eccole lì che scendono come alci la scaletta del sottosuolo dove lui, circondato dalla plebaglia delle scarpe sgangherate dei clienti che possono aspettare, lavora vestito di cuoio, cupo, duro e tondo più di un rinoceronte: scendono mettendo in vista fin dove si può le gambe calzate di rosa, con pacchetti bene avvolti fra le mani massacrate dai geloni.
— Oh, bellissimo sor Pio, bisogna che questi tacchi siano pronti per stasera: altrimenti il signorino mi accoppa.
— Andate a morire ammazzati, tu, il tuo signorino e tutta la sua razza ruffiana e bastarda.
La cameriera, una biondina anemica per il troppo ballare, svolge dalla carta gli scarponcini gialli col tacco appena ròso, e tenta di sedurre l’uomo parlando male dei suoi padroni.
— Buono, sor Pio, non è oro tutto quello che luce. Il signorino, con tutto il lusso della madre e il da farsi del padre, non ha che questo paio di scarpe. Adesso è in casa che studia, in pantofole.
Il ciabattino dà uno sguardo di traverso, prima alle scarpe in questione, poi all’esercito boccheggiante e vinto delle ciabatte povere che aspettano.
— Vedi che ho da fare? E di’ al tuo signorino che queste scarpe le può mettere benissimo ancora: verrà un giorno in cui andrà anche lui scalzo, a faticare coi contadini e i lavoratori dei porti, e si bacerà il gomito se avrà la sua razione di pane e il suo rifugio per la notte.
— E noi, sor Pio?
Egli non risponde: probabilmente neppure lui sa dove si andrà a finire.
*
Infatti adesso i tempi sono cambiati. Le serve della contrada diminuite di numero; diminuiti i quattrini, le chiacchiere, ed anche le scarpe da aggiustare: e queste terribilmente devastate.
Anche quelle del signorino, portate senza tanti involgimenti dalle ruvide mani della sora Concetta, faccendiera di tutto il quartiere, hanno i tacchi ben consumati e una spaccatura fra le rughe del tomaio.
— Che la pezza non si veda, mi raccomando — dice la donna con la sua voce da ubbriacona.
Il sor Pio guarda con pietà le scarpe: con pietà; eppure cupamente beffardo domanda:
— Che, deve andare a sposarsi, con queste calzature?
La sora Concetta è una romana papale, di quelle che danno del pane a lo pane, e del vino a lo vino: non ama quindi gli scherzi, e battendosi l’indice sulla fronte dice all’uomo:
— Sei già vecchio, ma la tua capoccia è sempre da affittarsi.
Questa considerazione lascia il ciabattino pensieroso.
Sì, invecchiando, egli sentiva nel suo cervello turbolento qualche spazio vuoto, e non riusciva più a riempirlo col collocare a modo suo i ranghi dell’umanità. Si vedono succedere certe cose, nel mondo! Le rivoluzioni avvengono senza che nessuno si scomodi a farle, e, a parlare all’antica, il mondo è proprio fatto a scale: chi le scende e chi le sale.
La famiglia del Signorino le scendeva, anzi le aveva già scese più che a metà. E il ciabattino, slegando i lacci delle scarpe mortificate che odoravano ancora del piede delicato del giovine, risaliva coi suoi ricordi questa scala: rivedeva ancora il corteo di lusso, che uscendo dal villino di fronte al suo bugigattolo, aveva condotto al battesimo il bel bambino vestito di azzurro; rivedeva la balia nera e sgargiante come un’ottentotta da fiera; poi la bambinaia tedesca dura e lunga che pareva avesse inghiottito un palo da telegrafo; e infine rivedeva lui, solo, il bambino dai riccioli chiari, arrampicato alle balaustrate delle loggie, sporgersi in giù con le braccia aperte come un uccellino che vuol tentare il primo volo. Di bambino divenuto ragazzo, si era poi allungato e imbrunito; ed un giorno di autunno, dopo la solita assenza estiva, il ciabattino lo aveva veduto irrompere fuori del cancello come un giovane levriere sfuggito al laccio, alto e agile, con le gambe nude ed un pacco di libri sotto il braccio.
Andava a scuola: e tanto andò a scuola che si trasformò in professore. Neppure sotto questo aspetto si impose al sor Pio: era troppo bello, troppo fresco, troppo fortunato, per farsi amare o almeno rispettare da lui.
C’erano giorni, anzi, che l’odio più schietto e le imprecazioni più romanesche del vecchio troglodita lo accompagnavano. Erano i giorni di sole, d’inverno, quando l’uomo sbucava dalla sua caverna come l’ippopotamo dal fondo melmoso del fiume, e, trasportati i suoi strumenti e le sue ciabatte sul marciapiedi caldo, mentre con le mani e con la bocca lavorava di lesina, di spago, di pece e di rabbia, vedeva a fianco del villino di fronte, in uno spazio battuto e recinto ad uso sportivo, il giovine, vestito di bianco e con le scarpe di silenzio, esercitarsi con gli amici e le amiche, ai giuochi più snodati e smossi. Tutti erano vestiti di bianco, anche le ragazze, fatte della sola bellezza efebica del loro viso, sospese sempre sulla punta dei piedi e con le braccia frullanti come le stecche iridate delle ali della libellula, con qualche nota di rosso o di verde che pareva un riverbero della loro ebbrezza di vita. Nel silenzio montano del mattino d’inverno, i loro gridi risonavano metallici come vibrazioni lontane, di un mondo assolutamente separato da quello del marciapiedi opposto: eppure succhiavano il cuore del sor Pio come di notte i gridi spasimanti dei gatti in amore. Egli s’incocciava a non guardare che la scarpa calda del suo lavoro, squarciata e dolorante come una malata povera sotto i ferri di un chirurgo indifferente; ma vedeva lo stesso, in una luce di turchino esasperato, i giovani giocatori che si piegavano e si allungavano e correvano di continuo, col braccio teso e la racchetta sempre in aria in atto di offesa e di difesa; belli, felici e pazzi come angeli ai quali il Signore severo ha dato un’ora di piena libertà.
*
Poi vennero i tempi della decadenza. Un funerale di prima classe, con comete di garofani e cavalli che parevano generali negri di qualche tribù selvaggia, si partì dal villino, col padrone addormentato sotto una coltre di viole: qualche tempo dopo si videro tipi grifagni di uscieri battere alla porta, e le serve feline portarono dentro la buca del sor Pio le notizie del disastro.
— Tutto apparenza, era: tutto debito e anche truffa: adesso si vende tutto.
Eppure il signorino e la madre rimasero nel villino. Fu il tempo della sora Concetta, la quale ogni tanto usciva dalla casa dei padroni con un fagotto o una valigia in mano, ed alle maligne insinuazioni del ciabattino, un giorno, esasperata, rispose:
— Non sono io che porto via la roba, mannaggia a te ed ai mortacci tuoi; è la signora che la manda al fresco.
— Al Monte — egli tradusse, colpito. — Ma perchè non vendono o non affittano il villino? Che se ne fanno, loro due soli, di tanto locale?
— Che ne so io? Perchè non vai ad informarti tu di persona, se te ne preoccupi tanto?
Egli se ne preoccupava davvero: era una sua fissazione, e ci pensava anche alla notte, quando sognava di appiccicare una pezza alla scarpa del signorino in modo che non la si vedesse.
— I signori sono fatti così. — E ricordava di aver sentito dire che certi nobili spagnuoli, antichi, pur di conservare un fasto esterno, si contentavano di mangiare pane e cipolle.
*
Un giorno anche la sora Concetta sparì. Allora il sor Pio vide la signora del villino uscire spesso di casa, sempre vestita bene, composta ed elegante, con un mantello di seta o la pelliccia severa. Tornava, con passo elastico eppure stanco, come se le sue gambe fossero una giovane e l’altra vecchia, e pareva che quelle passeggiate la facessero ingrassare: il figlio invece stava sempre in casa; lo si vedeva spesso affacciarsi alla loggia con un libro in mano, come studiasse eternamente una lezione: qualche volta si esercitava giù, nel giardino, da solo, con palle di gomma che sbatteva al muro. Gli amici e le amiche erano spariti come falene quando il lume è spento.
*
E una sera ancora calda di ottobre il sor Pio credette di sognare. Era l’ora del desinare, quando le strade sono deserte ed i lumi già accesi contro il rosso e il glauco del crepuscolo.
Anche il ciabattino è stato dal salumaio suo amico: dal barile accanto alla porta ha preso per la coda due aringhe d’oro brunito, e buttandole sulla bilancia ha fieramente ordinato:
— Pesami questi due polli.
Adesso le squartava, in fondo al suo antro che puzzava tutto di lucido come una scarpa nuova, quando il chiarore della porticina si oscurò. Egli si volse, sdegnato che non lo si lasciasse in pace neppure a quell’ora; spalancò gli occhi, poi d’istinto si pulì le mani col fazzoletto.
La testa gli girava; tutte le coppie delle scarpe addormentate qua e là come un gregge disperso, si misero a camminare, andando incontro alla donna che scendeva la scaletta: una donna che più scendeva più sembrava alta, con un mantello i cui lembi indoravano gli scalini come le stelle filanti lo spazio che attraversano. Il suo viso bianco illuminò di una luce fantastica la casa del ciabattino. Era la signora del villino di fronte.
Col gesto lento di quando lo faceva nel salotto delle sue amiche, si slacciò il bavero del mantello, e il sor Pio vide che dalla borsa di lei sbucavano senza paura le teste bionde di due filoncini di pane e il collo di cigno d’una bottiglia di latte. Con la mano inguantata ella intanto gli porgeva un’altra borsa, di pelle marrone, in forma di libro, chiusa a chiave, di quelle che si usano per le carte di valore.
— Guardate un po’, sor Pio, se la si può ridurre più piccola e leggera: togliere, per esempio, lo scompartimento di mezzo.
Sor Pio! Ella lo chiamava così, come un’antica conoscenza. Ed anche lui sentiva d’un tratto sprofondarsi la distanza che li separava, sbalzati assieme nello stesso rango d’umanità povera e quindi fraterna.
Tuttavia accigliato, palpò la borsa, la guardò sotto e sopra come una scarpa da rimontare: gli parve un lavoro un po’ difficile per lui, ma non lo disse.
— Per quando le occorrerebbe?
— Possibilmente per domani mattina. Serve a mio figlio, per la scuola.
— La scuola?
Ella sorrise, con dentro gli occhi azzurri la fiammella di riflesso di quelli meravigliosamente ingenui di lui.
— La scuola la va a fare lui. Filosofia e lettere, in un Liceo — aggiunse, per intendersi bene.
*
Egli lavorò tutta la notte; e gli pareva di disfare e rifare finalmente il mondo a modo suo, come aveva sognato. Sentiva che anche dentro la vecchia pelle del suo corpaccio, il mondo si rinnovava: lo scompartimento dove si nascondevano i cattivi documenti veniva soppresso: eppure non intese bene lo scopo di tutto quel lavorìo se non quando, nel raggiante mattino di ottobre, vide il giovine con la borsa sotto il braccio, passargli davanti come un fante in corsa di battaglia, e lo seguì con gli occhi velati di lagrime.