La bella selvaggia/Nota storica
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NOTA STORICA
“Sono quindici giorni, ch’io mi riduco a pranzar col lume per lavorare da bestia” scriveva il Goldoni all’abate Vicini il giorno 24 dicembre 1757. E in una lettera precedente, dei 9: “Il Carnovale è cortissimo, i comici hanno due commedie ancora da imparare a memoria” (Lettere di C. G. con note di E. Masi, Bologna, 1880, pp. 120 e 123). Forse alludeva alla Bella selvaggia e alle Morbinose. Che la Bella selvaggia si rappresentasse nel carnovale del ’58 afferma l’edizione Pitteri dove ra stampata la prima volta: che ottenesse un esito buono ci dicono la prefazione e le Memorie (“un succès étonnant” è forse troppo: Mem.es P. 2, ch. XXXIII).
Solamente da queste ultime sappiamo che il Goldoni ricavò il soggetto (“le fond”) dai Viaggi dell’abate Prévost La popolarissima Histoire générale des Voyages ou Nouvelle Collection de toutes les Relations des Voyages par Mer et par Terre ecc. cominciò a uscire a Parigi nel 1746; e ne parlarono a Venezia le Novelle della Repubblica Letteraria per l’anno 1747, nel num. 19, e l’anno dopo nel num. 10, e nel 1750 nei numeri 4 e 25. Com’è noto, i primi sette volumi sono tradotti dalla New General Collection of Voyages and Travels di John Green, usciti a Londra dal 1745 al ’47 (H. Harrisse, L’abbé Prévost, Paris, 1896, pp. 363-5, 371, 395-8, 417), ma il Prévost continuò poi da solo per altri otto volumi. Nel 1751 il Valvasense ne iniziava a Venezia la traduzione con l’aiuto di Gasparo Gozzi, sotto gli auspici di Marco Foscarini (Nov.le Rep.a Lett.ia, num. 36). Ma nessuno finora, nemmeno la signorina Maria Ortiz nel suo diligente saggio sulle Commedie esotiche del Goldoni (Napoli, 1905), ha osato ricercare nella copiosissima raccolta lo spunto poco importante della Bella selvaggia.
La descrizione della Guiana trovasi nel tomo XIV della Histoire générale, edito a Parigi nel 1757, dove si legge la famosa relazione di Sir Walter Ralegh (o Raleigh). A pag. 354 il Cacico Topiauari manifesta al Ralegh il suo odio contro gli Spagnoli: “Il ajouta que les Espagnols cherchoient aussi l’occasion de le traiter comme son Neveu, qu’ils avoient fait périr par un infâme supplice; qu’ ils n’avoit pas oublié avec quelle rigueur ils l’avoient tenu dans les chaînes, et promené comme un chien... Ils ont enlevé un de mes Neveux, nommé Aparacano, qu’ ils ont fait baptiser, sous le nom de Dora Juan; ils l’ont armé et vêtu à l’Espagnole”. Poche righe dopo, dice Ralegh: “Il fallut réprimer notre passion pour l’or, qui nous avoit attiré, comme aux Espagnols, la haine et le mépris de ces Indiens... Le Cacique me confia son propre Fils”. A pag. 388 certo M. Banère afferma che gli Indiani della Guiana sono tutti antropofagi. Nessun’altra notizia ha da che fare con la Bella selvaggia: spunti simili il Goldoni poteva anche attingere dall’edizione veneziana del Dictionnaire géographique del La Maitinière fatta dal Pasquali, o più semplicemente dal Grand Dictionnaire del Moreri, ristampato dal Pitteri e da altre compilazioni simili. Forse il Goldoni da vecchio si compiacque di attribuire autorità storica alla sua misera tragicommedia; ma è strano che nel raccontare brevemente l’azione si dimostri molto inesatto e dimentichi il personaggio principalissimo di don Alonso.
Vero è che oggi, chi abbia la pazienza di leggere la Bella selvaggia, è costretto a pensare alla famosa Alzira (1736) di Voltaire che nel Settecento fu voltata ben sette volte in italiano, e venti volte fu stampata tradotta, gareggiando di fortuna con la Zaira (v. Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII, saggio bibliografico di Luigi Ferrari. Paris. Libr. Champion, 1925, pp. 13-24): recitata a Bologna da cavalieri e dame fin dal 1737, un anno dopo la stampa, nella splendida villa Ercolani alla Crocetta e nel ’63 nella deliziosa villa Camaldoli: recitata nel carnevale del ’38 a Venezia nel teatro di S. Samuele, e dai comici francesi nel 1780; e un po’ dappertutto nelle sale pubbliche e private: quell’Alzira in cui il terribile Voltaire celebrò il trionfo “del vero spirito religioso” come dice nella prefazione (e si deve intendere della religione cattolica) “sulle virtù di natura”: quella tragedia per noi così falsa e inverosimile, artificiosa e ingenua al tempo stesso, ma commovente fino alle lacrime nel Settecento e seducente ancora oggi, la quale termina con un verso che fu caro, certo, al Manzoni: “... Aux volontés d’un Dieu qui frappe et qui pardonne”. Ricordiamo che a Chateaubriand pareva un capolavoro e che lo stesso Guglielmo Schlegel, arcigno romantico, la lodò al di sopra della Zaira.
Ora anche il Goldoni dice nella prefazione di aver avuto un intento religioso (curiosa religione!); anche qui il contrasto fra i cristiani europei e gli americani idolatri (invece del Perù la Guajana; invece degli Spagnoli troviamo i Portoghesi); anche qui la stessa lotta d’amore (Deimira è Alzira, Zadir è Zamoro); anche qui la generosità di un governatore (don Alonso somiglia a don Alvarez) e la ribellione dei selvaggi. Ma la Bella selvaggia non soltanto rimane lontanissima dall’Alzira, ma deve porsi per originalità al di sotto della Sposa Persiana e delle due Ircane, anzi cede alla stessa Peruviana con la quale mostra qualche affinità, e si confonde con le misere produzioni dell’abate Chiari. Deimira è una “filosofessa” sul tipo delle donne che s’incontrano nel teatro e ne’ romanzi dell’abate bresciano, benché meno virile e furente; e forse quella pseudo-filosofia di cui l’autore si vanta nella lettera di dedica e nella prefazione, incusse rispetto ai Veneziani che non osarono maltrattare l’insulsa tragicommedia.
Convien tuttavia notare che il Goldoni, a differenza del Voltaire, celebra di nuovo in Deimira, come già nella Peruviana, le belle e semplici virtù di natura sognate dal Settecento e care ne’ suoi romanzi all’abate Prevost, prima che al Chiari (v. Schroeder, L’abbé Prevost, Paris, 1898, pp. 247 e agg.i). Che il Goldoni, scrivendo nel ’57, conoscesse le dottrine di Gian Giacomo Rousseau, come sembra affermare il Rabany (C. Goldoni, Paris, 18%, pag. 366), non si può ammettere: solo più tardi si ebbero nel teatro la Jeune Indienne (1764) di Chamfort, da lui ricordata, e il romanzo degli Incas (1778) di Marmontel. E però non è esatto Attilio Momigliano quando accenna alla Bella selvaggia e la dice “volutamente e ingenuamente russoniana da capo a fondo” (I limiti dell’arte goldoniana, nel volume di Scritti vari ecc. in onore di R. Renler, Torino, 191l, pag. 87): nemmeno parmi che il Goldoni si proponesse davvero in questa commedia dei problemi seri che non seppe risolvere (ivi, pag. 86). Ma delle filosofesse e delle virtù primitive dei selvaggi se ne rideva Carlo Gozzi nelle sue fiabe teatrali; e tentò di mettere in derisione Rousseau il vecchio marchese Ferdinando Obizzi di Padova nel suo Bel selvaggio, commedia per la villa, stampata a Padova nel 1766.
L’anno prima, nel tomo XII della Biblioteca Teatrale Italiana scelta e disposta da Ottaviano Diodati, patrizio lucchese, usciva una ristampa della Bella selvaggia del Goldoni (edita nel 1761 a Venezia, nel t. VII dall’ed. Pitteri) “con le aggiunte e le variazioni del Signore N. N.” probabilmente del Diodati stesso “per uso de’ Signori Accademici della Comica del Teatro di Lucca” Una recita troviamo pure nel Collegio S. Carlo di Modena, nel carnevale del 1769 (Cronistoria dei Teatri di Modena del maestro A. Gandini ecc.. Parte 2a, Modena, 1873, pag. 251). Invano tentò di farla risorgere la compagnia Venier e Asprucci recitandola ai 5 novembre del 1805 nel teatro di S. Benedetto a Venezia (Giornale dei teatri comici di Venezia dall’anno 1801, di Velli e Menegatti, pag. 98). Come alle altre commedie orientali, non poteva mancare a questa la fortuna d’essere tradotta e rappresentata a Lisbona. Nel Catalogo generale della Raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi è in fatti segnata: “A Bella Salvagem, Comedia nova composta no Idioma italiano pelo autor Carlos Goldoni, e traduzida na Lingua Porlugaeza, para se representar no Teatro do Baino Alto, Lisboa, na officina de Simao Thaddeo Ferreira, 1778” (una ristampa uscì nel 1788, presso Felippe da Silva e Azevedo).
In certi sonetti che appartengono al 1758, Carlo Gozzi, deridendo il Goldoni e il molto suo sapere, allude alla Sposa Persiana e alla Bella selvaggia con questi versi: “Sa che in Persia a ber l’oppio sono usati, — Ch’è furioso un Selvaggio sbarbato, — E sa come il caffè va preparato...” (Opere, ed. Colorabani, VIII, 1774, pag. 189). Pur troppo basta a teatro, per far ridere, anche la barba di Schichirat.
Sarebbe inopportuno ricordare, a proposito di Schichirat ubbriaco (atto IV, scene 5 e 6), l’avventura di Renzo nell’osteria della “Luna piena”. I discorsi sconclusionati del povero Renzo non ci offendono, anzi destano indulgenza e pietà, perchè il sentimento tempera il riso. Le risa sguaiate che provoca Schichirat simili a quelle che accompagnano nell’Ircana in Ispaan la sordità di Vaiassa, appartengono al comico volgare dell’arie, come la balbuzie di Grazioso nel Conte di Bucotondo (o Nobiltà vuol ricchezza) del Fagiuoli.
Sulla fine del settecento, G. Gh. De Rossi ne’ suoi “ragionamenti” Del moderno teatro comico italiano, e del suo restauratore C. G., ricorda le tre commedie persiane e la Bella selvaggia senza nessun disprezzo (Bassano, 1794, pag. 105). E il Pignatorre nel suo Elogio a Goldoni (Venezia, 1802) scrive che “i Persiani e gli Americani stessi non isfuggirono alle inevitabili ricerche del suo talento indagatore, e alle pennellate originali della sua mano maestra” (pag. 17; vedi pure a p. 38 n.). Anche Gio. Gherardini nelle note che aggiunse alla sua versione del Corso di Letteratura drammatica del Sig. A.W. Schlegel (Milano, 1817, t. II, pag. 325), osa affermare che "nella Sposa Persiana, nell’Ircana in Ispaan, nella Bella selvaggia, nella Pamela, egli commuove e fa piangere”. Ma, poco dopo, il Menegnezzi afferma, d’accordo col Carrer, che nelle commedie orientali e storiche del Goldoni, compresa la B. s., i costumi delle varie nazioni sono rappresentati “così superficialmente” che quei popoli “appena si riconoscono per quelli ch’esser dovrebbono” e vi si incontrano troppi “accidenti” (Della vita e delle opere di C. Goldoni, Milano, 1827, pag. 131).
D’altro avviso era Francesco Salfi:”... E quando pure” il Goldoni, scriveva il professore napoletano, “tradisca il vero in questa parte, e perda di vista i colori locali, egli non dimentica mai il tipo del carattere e della passione che si propone di sviluppare. Quindi appare sì vero e sì naturale in tutto il resto, che gli si perdonano volentieri le indicate imperfezioni; e non cessano perciò di piacere La Sposa persiana, l’Ircana in Ispaan, La Bella selvaggia, La Pamela ecc.” (Saggio critico della commedia italiana, Milano, 1829, pag. 50). Così Carlo Ritorni, confondendo insieme la Scozzese e la Peruviana, la Bella selvaggia e la Pamela, riusciva a scoprire nella commedia sentimentale del Goldoni non solo”l’imitazione della natura”, ma”la morbidezza e amenità dello stile” (Annali del Teatro della Città di Reggio, Bologna, 1826, pag. 41). Oggi non vi scopriamo che la noia. Nè solo noioso, ma ridicolo nella sua ingenuità sembra in questa commedia il Goldoni a Riccardo Schmidbauer (Das Komische bei G., Muncher, 1906, pag. 152). Si veda pure Chatfield-Taylor nel suo bel volume sul commediografo veneziano, tradotto or ora in italiano (Goldoni, Bari, 1927, pp. 193 e 245).
Eppure anche di recente Deimira trovò un’ammiratrice nella signorina Filomena Adamo, la quale vede in lei una “creatura purissima, che ci riempie l’animo di dolcezza ineffabile... Deimira è la donna quale l’ha fatta natura; ecco appunto la creatura del Goldoni, senza le ipocrisie, le finzioni ecc.” (La donna del Settecento e la donna del G., Girgenti, 1921, pp. 69-63). Ebbene, anche noi possiamo sinceramente applaudire al Goldoni che, molti anni dopo la Pamela, nel ’58, fa dire in faccia a qualche nobiluccio borioso e ignorante:”Fra queste selve oscure dove siam tutti eguali, — Il merto non consiste nel sangue e nei natali ecc.” (atto III, sc. 7; vedasi anche a. I, sc. 5 e II, sc. 3 e III, sc. 5); e nella Venezia del Settecento esalta dal palcoscenico le più belle virtù dell’animo: ma pur troppo non ci riesce di trovare nei versi del buon Veneziano nessun”possente impeto” nè alcuna”luce" che ci mostri la donna "innalzata ai cieli dell’Olimpo". Solo chi vorrà studiare di nuovo e più seriamente, dopo il Falchi, l’efficacia sociale del teatro goldoniano, non dimenticherà l’infelice Delmira.
Probabilmente fin dal 1759, quando presentò all’ufficio de’ Riformatori il volume settimo del suo Nuovo Teatro Comico, perchè ne fosse approvata la stampa, il Goldoni aveva scritto la lettera di dedica della Bella selvaggia alla giovane nobildonna Caterina Dolfin Tiepolo. Nata a Venezia l’8 maggio 1736 da Gio. Anti Dolfin (di S. Margherita in campo, n. 19 maggio 1710) e da Donada Salomon (sposa nel 1732, m. 1785), era allora nel fiore dell’età, dello spirito e della sua bionda bellezza. Nella villa paterna lungo il Sile aveva trascorso i mesi più lieti della fanciullezza imparando sotto la guida del genitore, amante dello studio e delle arti, le scienze e le lingue antiche. Dicesi leggesse Plutarco nel testo greco; certo aveva divorato i libri francesi d’ogni genere; coltivava il disegno e la pittura, la poesia e il ricamo; cavalcava, dilettavasi della caccia e della pesca. Le morì il padre nel ’53 (11 febbraio, in contrada di S. Marcuola), e lo cantò in alcuni affettuosi sonetti (editi molto più tardi a Padova, 1767): due anni dopo, non ancora diciannovenne, diede la mano di sposa a Marco Ant Tiepolo (di S. Polo, in calle de Ca’ Centoni, n. 26 marzo 1722), ma ben presto ebbe luogo la separazione. Del marito non fa parola il Goldoni. L’occhio esperto del nostro commediografo notò “qualche cosa di estraordinario” in questa piccola e giovane donna dai capelli d’oro, dagli occhi azzurri, dal petto audace, di natura ardente e voluttuosa, pronta a passare dal pianto alla gioia, dallo sdegno alla generosità. Come e quando riuscisse la Dolfin a innamorare il rustego Carlo Gozzi, il nemico della filosofia francese, l’orso della società veneziana del Settecento, che a lei, divenuta Cavaliera e Procuratssa Tron, dedicava la stampa della Marfisa bizzarra, dove qualcuno dubitò si potesse celare una satira della ex-filosofessa, non sappiamo (v. Molmenti, G. Gozzi inedito, “estratto” dal Giornale Storico della Lett. It., vol. LXXXVII, 1926, pp. 16 sgg.; e G. Ziccardi, La Marfisa Bizzarra di C. G., in Rassegna Critica della letteratura ital., A. XXIV, 1919, num.i 4-6, pp. 84 e sgg.). Nel ’69 ella ebbe un’improvvisa passione per Carl’Antonio Pilati (di Tassullo, in val di Non), autore famoso della Riforma d’Italia (v. E. Brol, C. Pilati a Venezia, “estratto” da Pro Cultura, anno 1912, fasc. 1. pp. 9 sgg.). Nel ’67 pare cominciasse a frequentare il suo celebre casinetto Gaspare Gozzi che alla sua generosa protettrice fra il ’68 e il ’72, e poi dal ’77 all’82, scrisse bellissime lettere e le dedicò per gratitudine, nel ’79 (quando il cuore della nobile dama sanguinava, offeso dalla publicazione, fatta a Stocolma, della nota Narrazione Apologetica del Gratarol), un suo libretto di Componimenti in prosa e in versi.
Per molti anni ella fu l’amica di Andrea Tron, una delle più vigorose figure del Settecento veneziano; e a lui finalmente si unì, dopo ottenuto l’annullamento del primo matrimonio, ai 15 ottobre del 1772. Convien ricordare come pochi mesi prima la Repubblica ordinasse la perquisizione e il sequestro di alcuni suoi libri e come, dopo il fatto del Gratarol, facesse chiudere per qualche tempo il suo casinetto a San Giuliano. Per il Tron (n. 3 ott. 1712, m. 1785), molto più vecchio di lei, ebbe piuttosto venerazione che amore. Prima ch’ella diventasse Procuratessa, imperava nella “bottega da caffè” e nel salottino a S. Giuliano, in un circolo di ammiratori e di adoratori, fra cui gareggiavano di arguzie il sordo e mordace ab. Barbaro e l’ab. Labia, poeti satirici nel patrio dialetto, e il poeta granellesco don Pietro Fabris, e il grande botanico Giovanni Marsili, e lo spiritoso Orazio Lavezzari fedele servente, e il buon conte Gasparo. Il nuovo matrimonio, l’età e i dolori frenarono la sua libera esistenza e forse la sua vivacità, ma non impedirono al suo cuore non più giovane di accendersi nel 1783 per il duca Gian Galeazzo Serbelloni di Milano, figlio della celebre Maria Ottoboni-Serbelloni (Molmenti, Epistolari Veneziani del Secolo XVIII, nella Collezione Settecentesca Sandron, 1914, pp. 177 e sgg.i). Rimasta vedova nell’85 del potente marito, si ritirò a vivere gran parte dell’anno a Padova, dove il Cesarotti, lo Strafico, l’astronomo Toaldo e il Sibiliato e i più famosi forestieri animavano il suo salotto (B. Brunelli, I libri di Caterina Dolfin, in Marzocco, 7 febbraio 1926). Ma la fiamma per il giovane duca milanese dopo quattro anni non era ancora spenta.
Questa venezianissima dama del Settecento, che incoraggiava con l’ingegno e con l’anima l’audace politica del Tron, questa vera "repubblicana" come vantavasi di chiamarsi, che vedeva pur troppo rovinare, urtata di dentro e di fuori, la gran mole dello stato fondata da Pier Gradenigo: “Sì, cascarà la mole di Pierazzo — Perchè xe un’oca deventà el leon”, e tuttavia gridava: “Ma mi, fia de un Dolfin, muger de un Tron, — Batto grinta per Dio, mi no me mazzo — E se casco, no casco in zenochion”, fu a tempo di assistere alle furie della Rivoluzione che abbatteva in Francia la monarchia e scoteva l’Europa; e morì in patria, di 57 anni, per sincope improvvisa nel suo casino di San Giuliano, ai 13 novembre del 1793.
Di lei tracciò il miglior profilo Enrico Castelnuovo, nel 1882: Una dama veneziana del secolo XVIII (in Nuova Antologia, 15 giugno); ma ella attende ancora il suo biografo. Lo Spinelli prometteva fin dal 1884 di darci della Dolfin e della Serbelloni alcune notizie inedite (Bibliografia Goldoniana, pag. 88), ma invano rinnovò pubblicamente la promessa nel 1907, poco tempo prima che la morte lo cogliesse.
G. O