La Teseide/Libro sesto

Libro sesto

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LA TESEIDE

LIBRO SESTO




ARGOMENTO


Il sesto libro nel cominciamento
     Li due teban baron pacificati
     Dimostra, e il loro ricco portamento,
     E le feste e i conviti dilicati:
Appresso a ciò dichiara il lieto avvento
     In Atene di molti convitati
     Baroni, acciocchè ognun n’avesse cento:
     Tra molti eletti, arditi e più pregiati:
Ed in che modo e abiti ciascuno,
     E di qual parte in Atene venuti
     Descrive, ed oltre a ciò siccome ognuno
E tutti insieme fosson ricevuti:
     De’ quai, veduta Emilïa, nessuno
     Biasima lor se e’ ne son perduti.


1


L’alta ministra del mondo Fortuna
     Con volubile modo permutando
     Di questo in quello più volte ciascuna
     Cosa, togliendo e talora donando,
     Or mostrandosi chiara ed ora bruna,
     Secondo le parea e come e quando,
     Avea co’ suoi effetti a’ due Tebani
     Mostrato ciò che può ne’ ben mondani.

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2


Poichè con lei lieta furon nati
     Ed allevati, e già mutato il viso
     Avea quando nel campo fur pigliati,
     Indi da lor ciascun suo ben diviso
     Avendo, gli lasciò isconsolati:
     Di prigion fuori d’ogni lieto avviso
     Poi l’un ne trasse, e quasi a lieta vita
     L’avea recato, e questi fu Arcita.

3


L’altro che poi, com’ella volle, fuore
     Se n’era uscito, ancor mise ella in esso,
     Con matto immaginare, un tal furore,
     Che sè al primo quasi ebbe rimesso
     D’acquistata salute in gran dolore:
     Alla qual cosa essendo assai appresso,
     E ben credendo ciò, com’ella volse,
     Teseo perdonò loro e gli raccolse.

4


Nè solamente gli mise speranza
     Di posseder quel che ciascuno amava;
     Ma oltre a ciò, senza alcuna mancanza,
     Quel che ciascuno in pria signoreggiava,
     Come detto è, rendè: sicchè abbondanza
     Ebber dove ognun prima mendicava:
     Così da morte, o ver da ria prigione
     Condusse loro in tale esaltazione.

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5


Deh chi fia quel che dica che i mondani
     Provvedimenti a’ moti di costei
     Possan mai porger argomenti sani?
     Se non fosse mal detto, io dicerei
     Certo che fosser tutti quanti vani
     Mirando questo, e ciò che ancor di lei
     Si legge e ode, e vede ognora aperto,
     Benchè ne sia, come ciò fa, coperto.

6


Costoro insieme tenner buona pace,
     E l’amistà antica raffermaro,
     E quel che l’un voleva all’altro piace,
     Ed il contrario era così discaro:
     La rea loro fortuna ora si tace,
     Fuggito è ’l tempo d’ogni parte amaro:
     Ma pure amore gli tenea ristretti
     Vie più che mai, con tutti i lor diletti.

7


Essi avean di lor terre grande entrata,
     Perchè essi spendeano largamente:
     Ogni persona da loro onorata
     Era in Atene grazïosamente,
     E sì gran cortesia da loro usata,
     Che sen maravigliava tutta gente:
     Onde gli amavan tutti i cittadini
     Quantunque egli eran grandi e piccolini.

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8


Altro che suoni, canti ed allegrezza
     Nelle lor case non si sentia mai.
     E ben mostravan la lor gentilezza,
     A chi prender volea davano assai:
     Cani, falconi e astor di gran prodezza
     Usavano a diletto; nè giammai
     Erano in casa senza forestieri,
     Conti, baroni, donne e cavalieri.

9


Vestivan robe per molto oro care,
     Con gran destrier, cavalli e palafreni,
     E nulla si lasciavano a donare,
     Sì eran d’ogni gran larghezza pieni:
     Facendo giostre con grande armeggiare
     Con lor brigate ne’ giorni sereni;
     E ciascun s’ingegnava di piacere
     Più ad Emilia giusto il suo potere.

10


E benchè fosse la festa e ’l diletto
     Ched e’ facevan ciascun giorno, cento
     Pareva lor che ’l dì che aveva detto
     Teseo venisse, acciocchè di tormento
     Uscissono o con gioia o con dispetto:
     E ciascheduno aveva intendimento
     Di vincer l’altro senza alcun fallire,
     E se perdesse, perdendo morire.

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11


E per non aspettar l’ultimo giorno
     Ch’esser dovea tra loro la battaglia,
     Ciaschedun manda messaggi d’attorno,
     E d’invitare amici si travaglia:
     E d’altra parte, per essere adorno,
     Ciascun fa paramenti di gran vaglia
     Per sè ornare, e per donare a’ sui,
     Che ’l giorno porteranno arme con lui.

12


E in breve tempo si furon forniti
     D’armi lucenti e forti a ogni prova,
     E di cavalli feroci ed arditi,
     Grandi alli greci, a veder cosa nuova:
     E ciascheduno in sè gli più spediti
     Fatti di guerra pensando ritrova,
     Per non venir disavveduti a fare
     Cosa che a danno lor possa tornare;

13


In questo mezzo il giorno si appressava
     Che dato avea Teseo a’ cavalieri;
     Onde ciascuno i suoi sollecitava
     Ched e’ venisson, ch’egli era mestieri:
     Perchè ad Atene assai gente abbondava
     D’ogni paese, e per tutti i sentieri,
     Chi ad Arcita, e chi a Palemone
     Venia, per vinta dar la lor quistione.

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14


Il primo venne ancora lagrimoso
     Per la morte di Ofelte, a ner vestito,
     Il re Licurgo forte e poderoso,
     Di senno grande, e di coraggio ardito,
     E menò seco popol valoroso
     Del regno suo, pure il più fiorito;
     E ad Arcita s’offerse in aiuto,
     Per cui era di nomea venuto.

15


Venne d’Egina lì lo re Peleo.
     Giovane ancora e di sommo valore;
     E seco quella gente che si feo
     Di seme di formica, in le triste ore
     Che Eaco lo suo popol perdeo,
     Menò con pompa grande e con onore:
     Bianco, e vermiglio e chiaro nel visaggio
     Più che non fu giammai rosa di maggio.

16


Vestito era il buon re in drappo d’oro,
     Chiaro per molte pietre e rilucente,
     E sopra un destrier grande e di pel soro
     Era fra tutti i suoi più eminente:
     Ed un turcasso ricco per lavoro,
     Pien di saette ciascuna pungente,
     Dal destro lato, e dal manco pendea
     D’arcadia un arco forte ch’egli avea.

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17


I biondi crini e ’l collo e’ biancheggianti
     Omeri ricoprian cadendo stesi;
     La sella e ’l freno d’oro eran micanti,
     E similmente tutti gli altri arnesi:
     E’ suoi gli gien d’intorno tutti quanti
     D’alta prodezza e sommo ardire accesi;
     E ’n mano avea, qual a lui si convenne,
     Una termodontiaca bipenne.

18


Così gli piacque nella terra entrare,
     Alla vista del qual ciaschedun trasse;
     Nè di mirarlo si potien saziare,
     Nè vi fu alcuno il dì che nol lodasse:
     Oh quante donne allor fe’ sospirare,
     Ed è credibil che ne innamorasse,
     Se gentilezza e biltate han potere
     Di fare a donna gentiluom piacere.

19


Cefal d’Eolo figliuol seguì costui,
     Seguillo Folco, e seguil Telamone,
     Argeo ed Epidaurio gì con lui,
     Flegias di Pisa, di Sicionia Alcone;
     Ed altri molti nobili, di cui
     La spenta fama oggi non fa menzione,
     Vi furo, i quai si de’ creder che onore
     V’acquistar molto per lo lor valore.

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20


Di Nisa di gran boschi copïosa
     Tra gli urli dionei Niso vi venne,
     E con sembianza lieta e valorosa
     Con bella gente di Alcatoe ne venne,
     Armati tutti in arme luminosa,
     Con quell’arnese che a lor si convenne:
     Guardando quel cappel dal qual tenea
     La signoria delle terre ch’avea.

21


Sopra d’un carro da quattro gran tori
     Tirato dall’Inachia Agamennone
     Vi venne, accompagnato da plusori,
     Armato tutto a guisa di barone,
     Sè già degno mostrando degli onori
     Ch’ebbe da’ Greci nella ossidione
     A Troia fatta, nel sembiante arguto,
     Con nera barba, grande e ben membruto.

22


Non armi chiare, non mantel lodato,
     Non pettinati crin, non ornamenti
     D’oro o di pietre aveva, ma legato
     D’orso un velluto cuoio con lucenti
     Unghioni al collo, il quale d’ogni lato
     Ricoprien l’armi tutte rugginenti;
     E qualunque ’l vedea, diceva d’esso,
     Que’ vinceria con qualunque fia messo.

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23


Di dietro a lui, in abito dispari,
     Menelao sen veniva giovinetto,
     Vestito in drappi belli e molto cari,
     Piacevol bello e gentil nell’aspetto,
     Senz’alcun arme, e’ crin com’oro chiari
     Zeffiro ventilava, e giuso al petto
     La barba bionda com’oro cadea
     Lodata da chiunque la vedea.

24


Egli era sopra a un gran caval ferrante,
     Reggendo il freno grave per molto oro,
     Con un mantel ch’al collo ventilante
     Dai circustanti s’udiva sonoro:
     E se Venere fosse senza amante,
     Ch’ella prendesse lui credon coloro
     Che lui vedean: così la sua bellezza
     Lodavano, e ’l valore e la destrezza.

25


Costui seguiva il nobile Castore
     E ’l suo fratel Polluce tutti armati;
     E ben mostravan che di gran valore
     Gli avesse il Cigno lor padre dotati;
     I qua’ ne’ loro scudi, per onore,
     Aveano il come e ’l quando generati
     Fur con ingegno dalla bella Leda,
     Allor che ella fu del Cigno preda.

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26


Seguian costor più uomini lernei,
     Armati tutti e fieri ne’ sembianti,
     Nobili misti insieme co’ plebei,
     E qual giva di dietro e qual davanti,
     In forme tai che dir non le saprei,
     Sì eran divisati tutti quanti:
     E con onor nella cittade entraro,
     Ed al real palazzo dismontaro.

27


Nel cuoio del leon nemeo velluto
     Recossi Cromi corintio vestito,
     Ch’era già al padre suo stato veduto,
     Da cui il giel mortale ave sentito,
     Con un bastone grande e noderuto,
     E di tutte l’altre armi ben guernito,
     Sopra Strimon caval di Diomede,
     D’uomini mangiator, come si crede.

28


Non altrimenti la testa menando,
     Che faccia il toro poi che è ammazzato,
     E senza alcun riposo ognor ringhiando
     Giva, di suon tal chente fu ascoltato:
     Talvolta gía come i cani abbaiando
     Si fer sentir di Scilla nel turbato
     Mare, in quell’ora ch’Eolo irato spira
     Il vento che quel loco più martira.

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29


Con esso di Etolia molta gente
     Si venne ancora tutta ben guernita:
     Ippodamo vi fu similemente
     Figliuolo di Eomonia pulita,
     Con quello sforzo d’onde era possente,
     A mostrar la grandezza di sua vita,
     Sopra un caval calidonio coverto
     Di drappi sirii, ben ne’ campi esperto.

30


Di Pilos venne il giovane Nestore,
     Figliuolo di Neleo, la cui etate
     Nelle vermiglie guance il primo fiore
     Mostrava, poco ancora seminate
     Di crespo pel che d’oro avie colore,
     Il qual multiplicava sua biltate:
     Costui ornò il padre in guisa tale,
     Che d’ornamento a lui non vi fu uguale.

31


Natura ornato l’avea di bellezza
     Quanto giovane donna disiare
     Potè giammai, e poi di gentilezza
     Di real sangue; nè potea celare
     L’ardito cuor ch’aveva, e la prodezza
     Con disio sommo di bene operare:
     E la fortuna co’ ben ch’ella dona
     Più gli fu larga ch’ad altra persona.

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32


Costui armato, il ferro sotto argento
     Quant’era in piastre tutto nascondea,
     Ma della maglia il molto guernimento
     Tutto fu d’oro quantunque ne avea,
     Di ricche pietre assai fu l’ornamento,
     Che ad arnese tal si richiedea:
     E sì lucea, che ’n ogni parte oscura
     Luce avrie data come giorno pura.

33


E su un gran caval di pel morello,
     Senza riposo tuttavia fremendo,
     Cavalcava Nestor leggiadro e bello,
     Un gran baston di ferro in man tenendo:
     E siccome falcon, che di cappello
     Esce, si andava tutto plaudendo,
     Da molti cavalieri d’ogni lato
     Molto nobilemente accompagnato:

34


Nella terra de’ Cecropi festando
     In cotal guisa se n’entrò Nestore;
     Di che ciascun si gía maravigliando,
     Facendo a lui giusto il potere onore;
     Ed e’ che ben sapeva dimostrando
     Andava a tutti il suo sommo valore:
     A tutti onor facea, fin che pervenne
     Ove Teseo cogli altri lui ritenne.

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35


Evandro nato su nell’alto colle
     Cillenio di Carmenta, e di colui
     Che l’anime da’ corpi morti tolle,
     In ozio star con li popoli sui
     Nella steril Nonacria non volle;
     Ma per mostrar la sua potenza altrui,
     Essendo ancora prospero e regnante,
     Con molti suoi baron giunse festante.

36


Egli era su tessalico destriere
     Co’ suoi insieme andando baldanzoso;
     Ed era armato d’armi forti e fiere,
     E un cuoio, per mantel, d’orso piloso
     Libistrico, le cui unghie già nere
     Sott’oro eran nascose luminoso,
     E de’ suoi molti avean tal copritura,
     E di leone alcun la pelle dura.

37


Altri avean pelli di tori lunati,
     Tutte di chiari lembi circuite;
     Alquanti v’eran in cinghiar fasciati,
     Nullo n’aveva con armi pulite:
     E così insieme tutti divisati
     Circuivano Evandro, come udite:
     Il qual dall’una man saette aveva,
     Dall’altra un arco ed il caval reggeva.

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38


A cui dal lato pendeva sinestro
     Uno scudo assai rozzo per lavoro,
     Nel qual pareasi Atlantide silvestro
     Fatto, Argo ingannar col suo sonoro
     Nuovo strumento, e lui uccider destro
     Vi si vedeva ancor senza dimoro:
     Eravi ancor quando divenne Geta
     Per far del padre la volontà cheta.

39


Eravi ancor ciò che per Erse fece,
     Ed altre opre di lui v’eran distinte,
     Le qua’ per brevità qui dir non lece:
     Ma pur tra l’altre da parte dipinte
     L’opere sue già fatte dritte o biece:
     Eran le braccia sue al collo avvinte
     Di Carmenta, di cui Evandro nacque
     Nel tempo ch’ella ’n Cilleno a lui piacque.

40


In cotal guisa co’ suoi rugginoso
     Dell’arme e del sudor venne in Atene:
     E benchè bel non paia, valoroso
     Chiunque il vede veramente il tene;
     E fe’ , del modo suo non borïoso
     Ma umíle, parlare a tutti bene:
     Ben s’ammiraron della condizione
     Chiunque il vide a sì fatto barone.

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41


Vennevi Peritoo, che dalla madre
     Ancor le guance senza pelo avea:
     Questi con veste di drappi leggiadre
     Di biltà tutto nel viso splendea
     Bianco vermiglio, e colle luci ladre
     Chi rimirava con amor prendea:
     E biondo assai vie più che fila d’oro,
     Incoronato di frondi d’alloro.

42


Nè crede alcun che sì bel fosse Adone
     Di Cinira, da Vener tanto amato,
     Quanto era Peritoo, ancor garzone,
     Morbido nell’aspetto e dilicato:
     Costui montato sopra un gran roncione
     Del seme di Nettuno procreato,
     Venne ad Atene, e incontro gli si feo
     Il suo amico con festa Teseo.

43


E benchè fosse molto conosciuto
     Peritoo in Atene, nondimeno
     Sì era egli volentier veduto:
     Perchè ciaschedun luogo n’era pieno
     Del popol ch’era a lui veder venuto;
     Tanto che appena il loco non capieno:
     Così col suo Teseo sen venne adagio,
     E con lui dismontò nel suo palagio.

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44


Il duca di Naricia giovinetto
     Ancora molto vi mandò Laerte,
     Da cui gli fur con paternale affetto
     Le armi lucenti primamente offerte,
     Le quali e’ prese con sommo diletto,
     E assai pargli ogni poco che esperte
     Le abbia: e con seco menò Diomede,
     Cui sempre amò con amichevol fede.

45


Poi di Sidonia ancor Pigmaleone
     Vi venne, e fuvvi con seco Sicheo,
     Che poi fu sposo dell’alta Didone;
     E’ da fenicii nobili si feo
     Seguire, a guisa di sommo barone:
     E cogli suoi insieme da Teseo
     Fu onorato magnificamente
     E ricevuto molto caramente.

46


Quivi nell’arme con solenne stuolo
     Il glorioso re della Dittea
     Isola, già d’Europa figliuolo,
     Vi venne, che ancora non avea
     Del suo bell’Androgeo sentito il duolo,
     E in su la riva d’Atene Lernea
     Discese, e fe’ coll’ancore fermare
     Le navi che ’l dovevano aspettare.

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47


Di dietro a cui discese Radamante,
     Fratel di lui, e Sarpedone appresso,
     E le lor genti ancora tutte quante:
     Quivi era un carro orrevole per esso,
     Sopra del qual montò, e messo avante
     La gente sua, non però molto cesso,
     Inverso Atene prese il cammin tosto,
     Siccome avea nella mente disposto.

48


Il manco lato uno scudo gli armava,
     Nel qual vedeansi i regni di Nereo;
     E come Giove in que’ toro notava,
     Carico di Europa, onde nasceo:
     E i liti v’eran dove e’ la posava
     Soavemente nel regno Ditteo;
     E similmente la casside bella
     Tutta lucea della paterna stella.

49


Erano i campi, gli argini e le strade,
     Le porti de’ palagi e li balconi,
     Comecchè fosson ed ispesse o rade,
     Piene di donne tutte e di baroni,
     Per veder di Minos la dignitade,
     E’ vecchi antichi e’ giovani garzoni
     Tutti venuti v’erano a mirare
     Il gran baron nella lor terra entrare,

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50


Il qual v’entrò con molto grande onore,
     E più vidde ciascun, che non credea
     Vedere, di lui d’altezza e di valore:
     E fuvvi assai che poi non disson rea,
     Nè biasimaron il focoso amore
     Di Scilla, allor che ognaltro la dicea
     Degna di morte, per lo padre ucciso,
     Sen rimembrando qual l’aveano viso.

51


Vennevi ancora Encelado bistone
     A dimostrar della sua gran prodezza
     Con nobil compagnia d’ogni ragione,
     Audaci erano e pien d’ogni fierezza
     D’intorno a lui, che sopra un gran roncione
     Chiara mostrava la sua adornezza:
     E fu da tutti in Atene veduto
     Con lieto viso assai ben ricevuto.

52


E benchè molti de’ liti d’Alfeo
     Venisser quivi a volere onorarsi,
     Non volle rimanere Ida Piseo:
     Ma per alquanto quivi dimostrarsi,
     Pensando al suo valore il quale il feo
     Nelli giuochi olimpiaci pregiarsi,
     Che coronato fu, e’ in compagnia
     Gente menò di somma valenzía.

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53


Questi era tanto nel corso leggiere,
     Veloce e presto, che nulla saetta
     Dal partico Cidone o altro arciere
     Mandata fu da nervo con tal fretta,
     Che lenta non paresse, e che di riere
     Non gli fosse rimasa per dispetta;
     E tanto e sì tal fïata correa,
     Che agli occhi de’ miranti si togliea.

54


Questi saria nel fortunoso mare,
     Qualora e’ più in ver lo ciel crucciato
     Istende i suoi marosi col gridare,
     Correndo con asciutte piante andato:
     Non gli sarie paruto grave affare
     L’esser trascorso, senza aver guastato
     Alcuna spiga, sopra li tremanti
     Campi spigati e al vento sonanti.

55


Ed oltre a questi ancor vi venne Admeto,
     Lucendo di reale adornamento,
     Di mezza etade, e nell’aspetto lieto,
     Il quale in uno scudo d’ariento
     In forma di pastore umíle e queto
     D’oro portava Febo, che l’armento
     Di lui ne’ verdi boschi pasturava,
     Ed in Anfrisio poi l’abbeverava.

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56


Questi fra’ suoi Feresi cavalcando,
     Di verde quercia inghirlandato giva,
     Il quale dal castalio somigliando
     Gregge, fremendo aizzato fremiva,
     Or qua or là co’ piedi il suol pestando,
     Ferendo chi appresso gli veniva:
     Ed Irin gli menava avanti addestro
     Tutto coverto uno scudier sinestro.

57


E così cogli amici se ne venne
     Fino in Atene in atto baldanzoso:
     Quivi al palagio di Teseo si tenne
     Il caval fiero e di andare animoso:
     Là dove fu, siccome si convenne,
     Ben ricevuto assai dal valoroso
     Teseo, il qual l’aveva per amico,
     Non or di nuovo, ma già per antico.

58


Di Beozia vi venne molta gente,
     Quali ad Arcita, e quali a Palemone,
     Perocchè lì ciascuno era possente,
     E ne’ popoli avea giurisdizione;
     Onde ciascuno in tal punto fervente
     A far servigio di sua suggezione
     Venne ad Atene senza dimorare,
     Armati bene e belli a riguardare.

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59


Quivi i Dircei per tema di Teseo
     Fuggiti già, le spilonche lasciate,
     Chi venne a Palemone, e chi a Penteo;
     Tra qua’ le genti fur che son bagnate
     Dalle spumanti ripe d’Ismeneo:
     E quelle ch’a Citeron soggiogate
     Sono, e a’ monti Ogigii tutti quanti,
     O vicini o d’Elicona abitanti.

60


E quelli, i quali Asopo troppo altero
     Contro agl’iddii per Egina furata
     Veggono spesso torbido ’n sentiero,
     Vi furon tutti, gente ben armata,
     E ’l popol d’Antedone tutto intero
     Con altri molti di quella contrata;
     Contenti assai de’ signor riavuti,
     Li qua’ credean del tutto aver perduti.

61


Avrebbe quivi Cefiso mandato
     Narciso, se non fosse ch’egli in fiore
     Già ne’ campi tespiani mutato
     Era, per troppo a sè avere amore:
     Spesso dal padre fu ’l lito bagnato,
     Siccom’io credo, per troppo dolore
     D’aver perduto in la sua fanciullezza
     Il caro figlio per troppa bellezza.

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62


E Leandro era già stato raccolto
     Dalla sua Ero, nel lito di Sesto,
     Sospinto dal delfin, con tristo volto,
     E di lagrime pieno amare e mesto,
     E da lei pianto con sospiri molto;
     Il non esservi adunque fu per questo:
     Nè i suoi vi gir, perchè perduto avieno
     Il lor signor, cui seguitar dovieno.

63


Sarebbevi Erisiton Triopeo
     Similemente a combatter venuto,
     Ma per la debolezza non poteo,
     Già magro e senza forza divenuto,
     Per l’albero, lo quale e’ tagliar feo,
     Che era stato a Cerer conceduto:
     Rimase adunque, e non vi potè gire,
     Ma gli convenne di fame morire.

64


Fur altri assai e popoli e contrade,
     Tanti che ben non gli saprei contare,
     Sì gli nasconde in sè la lunga etade:
     Nè gli vi fece bisogno menare,
     Ma de’ signori ’l voler nobiltade
     Ciascun colle sue genti dimostrare;
     E vaghi d’acquistar fama ed onore
     Ciascun, secondo fosse il suo valore.

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65


Qualunque fur de’ possenti signori,
     Re, duca, prence, o altri d’onor degno,
     O qual si fosser piccoli o maggiori,
     Che di Teseo venisse ancor nel regno,
     E’ fur con sommi e lietissimi onori
     Ricevuti, e ciascun con tutto ingegno:
     E per sè prima gli onorava Egeo,
     E poi con lieto volto il buon Teseo.

66


Ippolita reina lietamente
     Quanti ne venner tutti ricevette
     Con alta festa e grazïosamente:
     Nè la giovane Emilïa si stette,
     Ma quanto più potea similemente,
     Bella tenuta da chi la vedette,
     Tanto a tututti si mostrava lieta,
     E d’ogni grazia piena e mansueta.

67


Nè furon folli Arcita e Palemone
     Tenuti da chi seppe i fatti loro,
     Se l’un s’era fuggito di prigione,
     E l’altro, oltre al mandato, a far dimoro
     Nella vietata bella regïone,
     Per acquistar così fatto tesoro:
     Nè s’ammiraron se non voller loco
     Dar l’uno all’altro all’amoroso foco.

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68


E ben fu giudicato che ’l suo amore
     Fosse troppo più caro da comprare,
     Che pria non fu di Tebe esser signore,
     O di quantunque cigne il verde mare;
     E che bene investito era il valore
     Di tanti prodi, quanti ragunare
     Avie fatti fortuna, a dar sentenza
     Ultima con loro armi a tale intenza.

69


Se gli alti regi furono onorati
     Da Palemone e dal gentile Arcita
     Non cal ch’io narri, chè uomini nati
     Non si crede che mai in questa vita
     Fossono con servigi lieti e grati
     Veduti come questi, a’ qua’ fornita
     Era ogni voglia, sol che essi dire
     Volesson ciò che non potien sentire.

70


Alti conviti e doni a’ regi degni
     S’usavan quivi, e sol d’amor parlare,
     E’ vizii si biasmavano e gli sdegni:
     Giovenil giuochi, e sovente armeggiare
     Il più del tempo occupavan gl’ingegni,
     O ’n giardini con donne festeggiare
     Lieti v’erano i grandi ed i minori,
     E adagiati da fini amadori.

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71


E certo poichè Pallade quistione
     Con Nettuno ebbe a nomar la cittade,
     Gente adunata d’alta condizione
     Nè tanta, nè di sì gran nobiltade
     Non s’era vista per nulla stagione:
     Perchè Teseo in somma dignitade
     Il si teneva, e ’n fra l’altre sue cose
     Più degne di memoria questa pose.