La Teseide/Libro sesto
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LA TESEIDE
LIBRO SESTO
ARGOMENTO
Il sesto libro nel cominciamento
Li due teban baron pacificati
Dimostra, e il loro ricco portamento,
E le feste e i conviti dilicati:
Appresso a ciò dichiara il lieto avvento
In Atene di molti convitati
Baroni, acciocchè ognun n’avesse cento:
Tra molti eletti, arditi e più pregiati:
Ed in che modo e abiti ciascuno,
E di qual parte in Atene venuti
Descrive, ed oltre a ciò siccome ognuno
E tutti insieme fosson ricevuti:
De’ quai, veduta Emilïa, nessuno
Biasima lor se e’ ne son perduti.
1
L’alta ministra del mondo Fortuna
Con volubile modo permutando
Di questo in quello più volte ciascuna
Cosa, togliendo e talora donando,
Or mostrandosi chiara ed ora bruna,
Secondo le parea e come e quando,
Avea co’ suoi effetti a’ due Tebani
Mostrato ciò che può ne’ ben mondani.
2
Poichè con lei lieta furon nati
Ed allevati, e già mutato il viso
Avea quando nel campo fur pigliati,
Indi da lor ciascun suo ben diviso
Avendo, gli lasciò isconsolati:
Di prigion fuori d’ogni lieto avviso
Poi l’un ne trasse, e quasi a lieta vita
L’avea recato, e questi fu Arcita.
3
L’altro che poi, com’ella volle, fuore
Se n’era uscito, ancor mise ella in esso,
Con matto immaginare, un tal furore,
Che sè al primo quasi ebbe rimesso
D’acquistata salute in gran dolore:
Alla qual cosa essendo assai appresso,
E ben credendo ciò, com’ella volse,
Teseo perdonò loro e gli raccolse.
4
Nè solamente gli mise speranza
Di posseder quel che ciascuno amava;
Ma oltre a ciò, senza alcuna mancanza,
Quel che ciascuno in pria signoreggiava,
Come detto è, rendè: sicchè abbondanza
Ebber dove ognun prima mendicava:
Così da morte, o ver da ria prigione
Condusse loro in tale esaltazione.
5
Deh chi fia quel che dica che i mondani
Provvedimenti a’ moti di costei
Possan mai porger argomenti sani?
Se non fosse mal detto, io dicerei
Certo che fosser tutti quanti vani
Mirando questo, e ciò che ancor di lei
Si legge e ode, e vede ognora aperto,
Benchè ne sia, come ciò fa, coperto.
6
Costoro insieme tenner buona pace,
E l’amistà antica raffermaro,
E quel che l’un voleva all’altro piace,
Ed il contrario era così discaro:
La rea loro fortuna ora si tace,
Fuggito è ’l tempo d’ogni parte amaro:
Ma pure amore gli tenea ristretti
Vie più che mai, con tutti i lor diletti.
7
Essi avean di lor terre grande entrata,
Perchè essi spendeano largamente:
Ogni persona da loro onorata
Era in Atene grazïosamente,
E sì gran cortesia da loro usata,
Che sen maravigliava tutta gente:
Onde gli amavan tutti i cittadini
Quantunque egli eran grandi e piccolini.
8
Altro che suoni, canti ed allegrezza
Nelle lor case non si sentia mai.
E ben mostravan la lor gentilezza,
A chi prender volea davano assai:
Cani, falconi e astor di gran prodezza
Usavano a diletto; nè giammai
Erano in casa senza forestieri,
Conti, baroni, donne e cavalieri.
9
Vestivan robe per molto oro care,
Con gran destrier, cavalli e palafreni,
E nulla si lasciavano a donare,
Sì eran d’ogni gran larghezza pieni:
Facendo giostre con grande armeggiare
Con lor brigate ne’ giorni sereni;
E ciascun s’ingegnava di piacere
Più ad Emilia giusto il suo potere.
10
E benchè fosse la festa e ’l diletto
Ched e’ facevan ciascun giorno, cento
Pareva lor che ’l dì che aveva detto
Teseo venisse, acciocchè di tormento
Uscissono o con gioia o con dispetto:
E ciascheduno aveva intendimento
Di vincer l’altro senza alcun fallire,
E se perdesse, perdendo morire.
11
E per non aspettar l’ultimo giorno
Ch’esser dovea tra loro la battaglia,
Ciaschedun manda messaggi d’attorno,
E d’invitare amici si travaglia:
E d’altra parte, per essere adorno,
Ciascun fa paramenti di gran vaglia
Per sè ornare, e per donare a’ sui,
Che ’l giorno porteranno arme con lui.
12
E in breve tempo si furon forniti
D’armi lucenti e forti a ogni prova,
E di cavalli feroci ed arditi,
Grandi alli greci, a veder cosa nuova:
E ciascheduno in sè gli più spediti
Fatti di guerra pensando ritrova,
Per non venir disavveduti a fare
Cosa che a danno lor possa tornare;
13
In questo mezzo il giorno si appressava
Che dato avea Teseo a’ cavalieri;
Onde ciascuno i suoi sollecitava
Ched e’ venisson, ch’egli era mestieri:
Perchè ad Atene assai gente abbondava
D’ogni paese, e per tutti i sentieri,
Chi ad Arcita, e chi a Palemone
Venia, per vinta dar la lor quistione.
14
Il primo venne ancora lagrimoso
Per la morte di Ofelte, a ner vestito,
Il re Licurgo forte e poderoso,
Di senno grande, e di coraggio ardito,
E menò seco popol valoroso
Del regno suo, pure il più fiorito;
E ad Arcita s’offerse in aiuto,
Per cui era di nomea venuto.
15
Venne d’Egina lì lo re Peleo.
Giovane ancora e di sommo valore;
E seco quella gente che si feo
Di seme di formica, in le triste ore
Che Eaco lo suo popol perdeo,
Menò con pompa grande e con onore:
Bianco, e vermiglio e chiaro nel visaggio
Più che non fu giammai rosa di maggio.
16
Vestito era il buon re in drappo d’oro,
Chiaro per molte pietre e rilucente,
E sopra un destrier grande e di pel soro
Era fra tutti i suoi più eminente:
Ed un turcasso ricco per lavoro,
Pien di saette ciascuna pungente,
Dal destro lato, e dal manco pendea
D’arcadia un arco forte ch’egli avea.
17
I biondi crini e ’l collo e’ biancheggianti
Omeri ricoprian cadendo stesi;
La sella e ’l freno d’oro eran micanti,
E similmente tutti gli altri arnesi:
E’ suoi gli gien d’intorno tutti quanti
D’alta prodezza e sommo ardire accesi;
E ’n mano avea, qual a lui si convenne,
Una termodontiaca bipenne.
18
Così gli piacque nella terra entrare,
Alla vista del qual ciaschedun trasse;
Nè di mirarlo si potien saziare,
Nè vi fu alcuno il dì che nol lodasse:
Oh quante donne allor fe’ sospirare,
Ed è credibil che ne innamorasse,
Se gentilezza e biltate han potere
Di fare a donna gentiluom piacere.
19
Cefal d’Eolo figliuol seguì costui,
Seguillo Folco, e seguil Telamone,
Argeo ed Epidaurio gì con lui,
Flegias di Pisa, di Sicionia Alcone;
Ed altri molti nobili, di cui
La spenta fama oggi non fa menzione,
Vi furo, i quai si de’ creder che onore
V’acquistar molto per lo lor valore.
20
Di Nisa di gran boschi copïosa
Tra gli urli dionei Niso vi venne,
E con sembianza lieta e valorosa
Con bella gente di Alcatoe ne venne,
Armati tutti in arme luminosa,
Con quell’arnese che a lor si convenne:
Guardando quel cappel dal qual tenea
La signoria delle terre ch’avea.
21
Sopra d’un carro da quattro gran tori
Tirato dall’Inachia Agamennone
Vi venne, accompagnato da plusori,
Armato tutto a guisa di barone,
Sè già degno mostrando degli onori
Ch’ebbe da’ Greci nella ossidione
A Troia fatta, nel sembiante arguto,
Con nera barba, grande e ben membruto.
22
Non armi chiare, non mantel lodato,
Non pettinati crin, non ornamenti
D’oro o di pietre aveva, ma legato
D’orso un velluto cuoio con lucenti
Unghioni al collo, il quale d’ogni lato
Ricoprien l’armi tutte rugginenti;
E qualunque ’l vedea, diceva d’esso,
Que’ vinceria con qualunque fia messo.
23
Di dietro a lui, in abito dispari,
Menelao sen veniva giovinetto,
Vestito in drappi belli e molto cari,
Piacevol bello e gentil nell’aspetto,
Senz’alcun arme, e’ crin com’oro chiari
Zeffiro ventilava, e giuso al petto
La barba bionda com’oro cadea
Lodata da chiunque la vedea.
24
Egli era sopra a un gran caval ferrante,
Reggendo il freno grave per molto oro,
Con un mantel ch’al collo ventilante
Dai circustanti s’udiva sonoro:
E se Venere fosse senza amante,
Ch’ella prendesse lui credon coloro
Che lui vedean: così la sua bellezza
Lodavano, e ’l valore e la destrezza.
25
Costui seguiva il nobile Castore
E ’l suo fratel Polluce tutti armati;
E ben mostravan che di gran valore
Gli avesse il Cigno lor padre dotati;
I qua’ ne’ loro scudi, per onore,
Aveano il come e ’l quando generati
Fur con ingegno dalla bella Leda,
Allor che ella fu del Cigno preda.
26
Seguian costor più uomini lernei,
Armati tutti e fieri ne’ sembianti,
Nobili misti insieme co’ plebei,
E qual giva di dietro e qual davanti,
In forme tai che dir non le saprei,
Sì eran divisati tutti quanti:
E con onor nella cittade entraro,
Ed al real palazzo dismontaro.
27
Nel cuoio del leon nemeo velluto
Recossi Cromi corintio vestito,
Ch’era già al padre suo stato veduto,
Da cui il giel mortale ave sentito,
Con un bastone grande e noderuto,
E di tutte l’altre armi ben guernito,
Sopra Strimon caval di Diomede,
D’uomini mangiator, come si crede.
28
Non altrimenti la testa menando,
Che faccia il toro poi che è ammazzato,
E senza alcun riposo ognor ringhiando
Giva, di suon tal chente fu ascoltato:
Talvolta gía come i cani abbaiando
Si fer sentir di Scilla nel turbato
Mare, in quell’ora ch’Eolo irato spira
Il vento che quel loco più martira.
29
Con esso di Etolia molta gente
Si venne ancora tutta ben guernita:
Ippodamo vi fu similemente
Figliuolo di Eomonia pulita,
Con quello sforzo d’onde era possente,
A mostrar la grandezza di sua vita,
Sopra un caval calidonio coverto
Di drappi sirii, ben ne’ campi esperto.
30
Di Pilos venne il giovane Nestore,
Figliuolo di Neleo, la cui etate
Nelle vermiglie guance il primo fiore
Mostrava, poco ancora seminate
Di crespo pel che d’oro avie colore,
Il qual multiplicava sua biltate:
Costui ornò il padre in guisa tale,
Che d’ornamento a lui non vi fu uguale.
31
Natura ornato l’avea di bellezza
Quanto giovane donna disiare
Potè giammai, e poi di gentilezza
Di real sangue; nè potea celare
L’ardito cuor ch’aveva, e la prodezza
Con disio sommo di bene operare:
E la fortuna co’ ben ch’ella dona
Più gli fu larga ch’ad altra persona.
32
Costui armato, il ferro sotto argento
Quant’era in piastre tutto nascondea,
Ma della maglia il molto guernimento
Tutto fu d’oro quantunque ne avea,
Di ricche pietre assai fu l’ornamento,
Che ad arnese tal si richiedea:
E sì lucea, che ’n ogni parte oscura
Luce avrie data come giorno pura.
33
E su un gran caval di pel morello,
Senza riposo tuttavia fremendo,
Cavalcava Nestor leggiadro e bello,
Un gran baston di ferro in man tenendo:
E siccome falcon, che di cappello
Esce, si andava tutto plaudendo,
Da molti cavalieri d’ogni lato
Molto nobilemente accompagnato:
34
Nella terra de’ Cecropi festando
In cotal guisa se n’entrò Nestore;
Di che ciascun si gía maravigliando,
Facendo a lui giusto il potere onore;
Ed e’ che ben sapeva dimostrando
Andava a tutti il suo sommo valore:
A tutti onor facea, fin che pervenne
Ove Teseo cogli altri lui ritenne.
35
Evandro nato su nell’alto colle
Cillenio di Carmenta, e di colui
Che l’anime da’ corpi morti tolle,
In ozio star con li popoli sui
Nella steril Nonacria non volle;
Ma per mostrar la sua potenza altrui,
Essendo ancora prospero e regnante,
Con molti suoi baron giunse festante.
36
Egli era su tessalico destriere
Co’ suoi insieme andando baldanzoso;
Ed era armato d’armi forti e fiere,
E un cuoio, per mantel, d’orso piloso
Libistrico, le cui unghie già nere
Sott’oro eran nascose luminoso,
E de’ suoi molti avean tal copritura,
E di leone alcun la pelle dura.
37
Altri avean pelli di tori lunati,
Tutte di chiari lembi circuite;
Alquanti v’eran in cinghiar fasciati,
Nullo n’aveva con armi pulite:
E così insieme tutti divisati
Circuivano Evandro, come udite:
Il qual dall’una man saette aveva,
Dall’altra un arco ed il caval reggeva.
38
A cui dal lato pendeva sinestro
Uno scudo assai rozzo per lavoro,
Nel qual pareasi Atlantide silvestro
Fatto, Argo ingannar col suo sonoro
Nuovo strumento, e lui uccider destro
Vi si vedeva ancor senza dimoro:
Eravi ancor quando divenne Geta
Per far del padre la volontà cheta.
39
Eravi ancor ciò che per Erse fece,
Ed altre opre di lui v’eran distinte,
Le qua’ per brevità qui dir non lece:
Ma pur tra l’altre da parte dipinte
L’opere sue già fatte dritte o biece:
Eran le braccia sue al collo avvinte
Di Carmenta, di cui Evandro nacque
Nel tempo ch’ella ’n Cilleno a lui piacque.
40
In cotal guisa co’ suoi rugginoso
Dell’arme e del sudor venne in Atene:
E benchè bel non paia, valoroso
Chiunque il vede veramente il tene;
E fe’ , del modo suo non borïoso
Ma umíle, parlare a tutti bene:
Ben s’ammiraron della condizione
Chiunque il vide a sì fatto barone.
41
Vennevi Peritoo, che dalla madre
Ancor le guance senza pelo avea:
Questi con veste di drappi leggiadre
Di biltà tutto nel viso splendea
Bianco vermiglio, e colle luci ladre
Chi rimirava con amor prendea:
E biondo assai vie più che fila d’oro,
Incoronato di frondi d’alloro.
42
Nè crede alcun che sì bel fosse Adone
Di Cinira, da Vener tanto amato,
Quanto era Peritoo, ancor garzone,
Morbido nell’aspetto e dilicato:
Costui montato sopra un gran roncione
Del seme di Nettuno procreato,
Venne ad Atene, e incontro gli si feo
Il suo amico con festa Teseo.
43
E benchè fosse molto conosciuto
Peritoo in Atene, nondimeno
Sì era egli volentier veduto:
Perchè ciaschedun luogo n’era pieno
Del popol ch’era a lui veder venuto;
Tanto che appena il loco non capieno:
Così col suo Teseo sen venne adagio,
E con lui dismontò nel suo palagio.
44
Il duca di Naricia giovinetto
Ancora molto vi mandò Laerte,
Da cui gli fur con paternale affetto
Le armi lucenti primamente offerte,
Le quali e’ prese con sommo diletto,
E assai pargli ogni poco che esperte
Le abbia: e con seco menò Diomede,
Cui sempre amò con amichevol fede.
45
Poi di Sidonia ancor Pigmaleone
Vi venne, e fuvvi con seco Sicheo,
Che poi fu sposo dell’alta Didone;
E’ da fenicii nobili si feo
Seguire, a guisa di sommo barone:
E cogli suoi insieme da Teseo
Fu onorato magnificamente
E ricevuto molto caramente.
46
Quivi nell’arme con solenne stuolo
Il glorioso re della Dittea
Isola, già d’Europa figliuolo,
Vi venne, che ancora non avea
Del suo bell’Androgeo sentito il duolo,
E in su la riva d’Atene Lernea
Discese, e fe’ coll’ancore fermare
Le navi che ’l dovevano aspettare.
47
Di dietro a cui discese Radamante,
Fratel di lui, e Sarpedone appresso,
E le lor genti ancora tutte quante:
Quivi era un carro orrevole per esso,
Sopra del qual montò, e messo avante
La gente sua, non però molto cesso,
Inverso Atene prese il cammin tosto,
Siccome avea nella mente disposto.
48
Il manco lato uno scudo gli armava,
Nel qual vedeansi i regni di Nereo;
E come Giove in que’ toro notava,
Carico di Europa, onde nasceo:
E i liti v’eran dove e’ la posava
Soavemente nel regno Ditteo;
E similmente la casside bella
Tutta lucea della paterna stella.
49
Erano i campi, gli argini e le strade,
Le porti de’ palagi e li balconi,
Comecchè fosson ed ispesse o rade,
Piene di donne tutte e di baroni,
Per veder di Minos la dignitade,
E’ vecchi antichi e’ giovani garzoni
Tutti venuti v’erano a mirare
Il gran baron nella lor terra entrare,
50
Il qual v’entrò con molto grande onore,
E più vidde ciascun, che non credea
Vedere, di lui d’altezza e di valore:
E fuvvi assai che poi non disson rea,
Nè biasimaron il focoso amore
Di Scilla, allor che ognaltro la dicea
Degna di morte, per lo padre ucciso,
Sen rimembrando qual l’aveano viso.
51
Vennevi ancora Encelado bistone
A dimostrar della sua gran prodezza
Con nobil compagnia d’ogni ragione,
Audaci erano e pien d’ogni fierezza
D’intorno a lui, che sopra un gran roncione
Chiara mostrava la sua adornezza:
E fu da tutti in Atene veduto
Con lieto viso assai ben ricevuto.
52
E benchè molti de’ liti d’Alfeo
Venisser quivi a volere onorarsi,
Non volle rimanere Ida Piseo:
Ma per alquanto quivi dimostrarsi,
Pensando al suo valore il quale il feo
Nelli giuochi olimpiaci pregiarsi,
Che coronato fu, e’ in compagnia
Gente menò di somma valenzía.
53
Questi era tanto nel corso leggiere,
Veloce e presto, che nulla saetta
Dal partico Cidone o altro arciere
Mandata fu da nervo con tal fretta,
Che lenta non paresse, e che di riere
Non gli fosse rimasa per dispetta;
E tanto e sì tal fïata correa,
Che agli occhi de’ miranti si togliea.
54
Questi saria nel fortunoso mare,
Qualora e’ più in ver lo ciel crucciato
Istende i suoi marosi col gridare,
Correndo con asciutte piante andato:
Non gli sarie paruto grave affare
L’esser trascorso, senza aver guastato
Alcuna spiga, sopra li tremanti
Campi spigati e al vento sonanti.
55
Ed oltre a questi ancor vi venne Admeto,
Lucendo di reale adornamento,
Di mezza etade, e nell’aspetto lieto,
Il quale in uno scudo d’ariento
In forma di pastore umíle e queto
D’oro portava Febo, che l’armento
Di lui ne’ verdi boschi pasturava,
Ed in Anfrisio poi l’abbeverava.
56
Questi fra’ suoi Feresi cavalcando,
Di verde quercia inghirlandato giva,
Il quale dal castalio somigliando
Gregge, fremendo aizzato fremiva,
Or qua or là co’ piedi il suol pestando,
Ferendo chi appresso gli veniva:
Ed Irin gli menava avanti addestro
Tutto coverto uno scudier sinestro.
57
E così cogli amici se ne venne
Fino in Atene in atto baldanzoso:
Quivi al palagio di Teseo si tenne
Il caval fiero e di andare animoso:
Là dove fu, siccome si convenne,
Ben ricevuto assai dal valoroso
Teseo, il qual l’aveva per amico,
Non or di nuovo, ma già per antico.
58
Di Beozia vi venne molta gente,
Quali ad Arcita, e quali a Palemone,
Perocchè lì ciascuno era possente,
E ne’ popoli avea giurisdizione;
Onde ciascuno in tal punto fervente
A far servigio di sua suggezione
Venne ad Atene senza dimorare,
Armati bene e belli a riguardare.
59
Quivi i Dircei per tema di Teseo
Fuggiti già, le spilonche lasciate,
Chi venne a Palemone, e chi a Penteo;
Tra qua’ le genti fur che son bagnate
Dalle spumanti ripe d’Ismeneo:
E quelle ch’a Citeron soggiogate
Sono, e a’ monti Ogigii tutti quanti,
O vicini o d’Elicona abitanti.
60
E quelli, i quali Asopo troppo altero
Contro agl’iddii per Egina furata
Veggono spesso torbido ’n sentiero,
Vi furon tutti, gente ben armata,
E ’l popol d’Antedone tutto intero
Con altri molti di quella contrata;
Contenti assai de’ signor riavuti,
Li qua’ credean del tutto aver perduti.
61
Avrebbe quivi Cefiso mandato
Narciso, se non fosse ch’egli in fiore
Già ne’ campi tespiani mutato
Era, per troppo a sè avere amore:
Spesso dal padre fu ’l lito bagnato,
Siccom’io credo, per troppo dolore
D’aver perduto in la sua fanciullezza
Il caro figlio per troppa bellezza.
62
E Leandro era già stato raccolto
Dalla sua Ero, nel lito di Sesto,
Sospinto dal delfin, con tristo volto,
E di lagrime pieno amare e mesto,
E da lei pianto con sospiri molto;
Il non esservi adunque fu per questo:
Nè i suoi vi gir, perchè perduto avieno
Il lor signor, cui seguitar dovieno.
63
Sarebbevi Erisiton Triopeo
Similemente a combatter venuto,
Ma per la debolezza non poteo,
Già magro e senza forza divenuto,
Per l’albero, lo quale e’ tagliar feo,
Che era stato a Cerer conceduto:
Rimase adunque, e non vi potè gire,
Ma gli convenne di fame morire.
64
Fur altri assai e popoli e contrade,
Tanti che ben non gli saprei contare,
Sì gli nasconde in sè la lunga etade:
Nè gli vi fece bisogno menare,
Ma de’ signori ’l voler nobiltade
Ciascun colle sue genti dimostrare;
E vaghi d’acquistar fama ed onore
Ciascun, secondo fosse il suo valore.
65
Qualunque fur de’ possenti signori,
Re, duca, prence, o altri d’onor degno,
O qual si fosser piccoli o maggiori,
Che di Teseo venisse ancor nel regno,
E’ fur con sommi e lietissimi onori
Ricevuti, e ciascun con tutto ingegno:
E per sè prima gli onorava Egeo,
E poi con lieto volto il buon Teseo.
66
Ippolita reina lietamente
Quanti ne venner tutti ricevette
Con alta festa e grazïosamente:
Nè la giovane Emilïa si stette,
Ma quanto più potea similemente,
Bella tenuta da chi la vedette,
Tanto a tututti si mostrava lieta,
E d’ogni grazia piena e mansueta.
67
Nè furon folli Arcita e Palemone
Tenuti da chi seppe i fatti loro,
Se l’un s’era fuggito di prigione,
E l’altro, oltre al mandato, a far dimoro
Nella vietata bella regïone,
Per acquistar così fatto tesoro:
Nè s’ammiraron se non voller loco
Dar l’uno all’altro all’amoroso foco.
68
E ben fu giudicato che ’l suo amore
Fosse troppo più caro da comprare,
Che pria non fu di Tebe esser signore,
O di quantunque cigne il verde mare;
E che bene investito era il valore
Di tanti prodi, quanti ragunare
Avie fatti fortuna, a dar sentenza
Ultima con loro armi a tale intenza.
69
Se gli alti regi furono onorati
Da Palemone e dal gentile Arcita
Non cal ch’io narri, chè uomini nati
Non si crede che mai in questa vita
Fossono con servigi lieti e grati
Veduti come questi, a’ qua’ fornita
Era ogni voglia, sol che essi dire
Volesson ciò che non potien sentire.
70
Alti conviti e doni a’ regi degni
S’usavan quivi, e sol d’amor parlare,
E’ vizii si biasmavano e gli sdegni:
Giovenil giuochi, e sovente armeggiare
Il più del tempo occupavan gl’ingegni,
O ’n giardini con donne festeggiare
Lieti v’erano i grandi ed i minori,
E adagiati da fini amadori.
71
E certo poichè Pallade quistione
Con Nettuno ebbe a nomar la cittade,
Gente adunata d’alta condizione
Nè tanta, nè di sì gran nobiltade
Non s’era vista per nulla stagione:
Perchè Teseo in somma dignitade
Il si teneva, e ’n fra l’altre sue cose
Più degne di memoria questa pose.