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IX.

Verso la metà di novembre una notizia inaspettata si diffuse per tutto il paese.

Rodolfo Regaldi aveva chiesto la mano di Matilde; e a taluno, cui questo matrimonio sembrava spuntato un po’ troppo in fretta, la signora Luigina aveva l’incarico di far sapere, che la cosa era già combinata da un pezzo tra le due famiglie, ma che per avversione alla pubblicità si era tenuta nascosta.

Questa versione falsa, per compenso di tante vere che non sono credute, ottenne un pieno successo e girò di casa in casa, provocando soltanto un po’ di invidiuzza nelle ragazze da marito e facendo crollare il capo alle mamme che dicevano: Quel Regaldi è un poco di buono, non ha voglia di lavorare. [p. 96 modifica]

A questo proposito una insinuazione partita dall’osteria trovò subito alloggio in tutte le bocche. Si mormorava piano e forte: «È stato quella gatta morta del rosso, che per liberarsi della sorella l’ha appioppata al primo venuto; così — soggiungeva la signora Ernesta, dandosi l’aria di persona bene informata — egli si troverà liberamente colla sua monachina infilza.»

— Se è vero — chiese una volta una persona ingenua — che il signor Ippolito fa all’amore colla signora Daria, perchè non la sposa?

— Giusto! — tuonò allora la signora Ernesta — perchè non la sposa? Perchè è un impostore, ecco, perchè ci trova il suo tornaconto a pelare la gallina senza farla gridare, perchè vuole le castagne senza puugersi coi ricci. Oh! parlatemi del matrimonio, alla buon’ora; questo è un sacramento, e il signor Rodolfo almeno si mette in regola con Dio prima di tentare il demonio.

Matilde non restò a lungo sotto l’impressione dolorosa della scena avuta col fratello. Lo stesso giorno che si pubblicarono le nozze ella riprese la sua audacia provocante, ricevendo a piede fermo i complimenti e le allusioni non sempre delicate che le venivano facendo in paese.

Per provvedere a questo collocamento, Ippolito aveva dovuto fare un debito di qualche migliaio [p. 97 modifica]di lire. Matilde sola lo sapeva, egli non ne aveva parlato con nessuno, nemmeno con Daria, quantunque una profonda malinconia lo struggesse tutte le volte, che la fanciulla fissava in lui quei bellissimi occhi chiedenti amore — ed egli abbassava i proprî quasi annientandosi nell’angoscia estrema della sua impotenza.

Apparteneva, per sua sventura, a quella classe di persone soverchiamente delicate che, per legge di contrasto, sembrano tante volte mancanti di cuore; piuttosto che alimentare in lei una speranza lontana e forse impossibile a realizzarsi, egli preferiva mostrarsi freddo, lasciandole piena libertà d’azione e di destini. Teneva per sè la parte più ingrata, ma più nobile: soffrire tacendo.

Ai primi di dicembre, un giovedì mattina, Rodolfo e Matilde si sposarono senza pompa e senza fasto, seguiti dai soli parenti e dalla signora Luigina, che spargeva lagrime silenziose in un ampio moccichino di giaconetto, orlato a giorno, insaldato e ricamato in tutti e quattro gli angoli, con dei salici piangenti.

Per fare da testimonio in chiesa era venuto Pierino, che da un mese circa si trovava a Milano impiegato in una casa di commercio. [p. 98 modifica]

Quando furono tutti inginocchiati e che il prete prendendo Panello di Rodolfo lo pose in dito alla sposa, Daria chinò gli occhi sulle sue mani dove all’anulare della destra, il cerchietto color di sangue rosseggiava cupamente.

Matilde trionfava. L’ebbrezza dello scopo raggiunto le brillava negli occhi e riusciva a nascondere l’alterazione, che aveva subito da qualche tempo il suo viso. Portava un vestito semplice, di colore oscuro, ma in mezzo al seno il velo era puntato con un mazzolino di fiori d’arancio, freschi, ch’ella fiutava tratto tratto con una disinvoltura insolente.

La vecchia Tatta non aveva voluto venire allo sposalizio, adducendo per iscusa che i vecchi stanno bene in casa. Quest’assenza fece un po’ di impressione in paese, poi non vi si badò più, pensando che la bizzarra zitellona ne aveva fatte ben altre.

Dopo la cerimonia vi doveva essere una piccola refezione, affatto intima, nella casa bianca; ma tutta questa parsimonia fece arricciare il naso il gli amici di Rodolfo, che lo andavano punzecchiando perchè in tale circostanza li facesse stare un poco allegri. Rodolfo si schermiva dicendo che suo cognato era un orso e che non si poteva ridere con lui. [p. 99 modifica]

Il signor Giacomo Rossetti che ciondolava già da un’ora intorno agli sposi, accostò Rodolfo in sacrestia e dandogli un forte pizzicotto in una coscia:

— Eh! — disse — non lo abbiamo a fare un brindisi per la vostra felicità?

Due altri amici si avvicinarono per salutare Piero, dandogli la baia che era diventato cittadino. — E tu quando la fai la corbelleria? — gli domandarono, nicchiando.

Pierino rispose con un gesto espressivo, appoggiando il pollice al naso.

— Olà! — interruppe il signor Giacomo Rossetti, preso subitamente dagli scrupoli — siamo in chiesa, ragazzi.

Rodolfo stretto intorno, affollato di domande, un po’ stufo e moltissimo annoiato li accomiatò tutti dicendo: — Venite questa sera da me. Ne berremo un bicchiere alla buona.

Un’ora dopo, intanto che gli sposi si trovavano in casa di Ippolito e che i curiosi un po’ qua un po’ là si erano tutti dispersi, una persona girava ancora, rasentando il muro della casa bianca, fermandosi sotto alle finestre. Era il signor Giacomo Rossetti, che fiutava gli odori della cucina per sapere che razza di trattamento il rosso offriva a’ suoi ospiti. [p. 100 modifica]

Voltando l’angolo battè il naso contro il tricorno del prete Pacchia, che ronzava anche lui per lo stesso motivo — e si fermarono, un po’ grulli, seccati dalla sorpresa.

— Eh? — cominciò il Rossetti — mi pare che si faccia di magro; poveri sposi non è con questa colazione che...

Ne disse una grossa.

Don Pietro crollò le spalle, indifferente alla cosa, e tirò dritto dopo avere alzato il naso per un solo momento.

In causa della cattiva stagione (aveva detto su tutti i canti la signora Luigina) non si faceva il viaggio di nozze. Tranquilla tranquilla la sposa passò dalla casa materna alla casa dei Regaldi; e fu di non poco imbarazzo per la Tatta e per Daria l’annuncio, che Rodolfo aveva invitato gente per la sera.

— Sai bene che non abbiamo bicchieri! — disse subito la vecchia ruvidamente.

Daria le fece cenno di frenarsi in riguardo a Matilde, che non doveva essere molto lieta di quegli auspici; ma Matilde, disinvolta, cambiava il posto a due piccoli vasetti di porcellana e soltanto quando la Tatta tornò a dire qualche cosa a proposito di quegli infelici bicchieri, ella interruppe sorridendo: [p. 101 modifica]

— Mandi da Ippolito a prenderne; oramai siamo una famiglia sola.

La frase parve a tutti molto conciliativa; Rodolfo, avvicinatosi a sua moglie, le strinse il ganascino fra l’indice e il medio.

— Spero che anderemo d’accordo, Tilde.

— Speriamo pure; è il meglio che ci resta a fare ora. Per parte mia lo desidero e aggiungo anche, farò il possibile.

La signora Luigina che quel giorno aveva i nervi come di vetro, intenerita da questa scena coniugale le chiese il permesso di abbracciarla e poi volta alla Tatta disse:

— È un angelo.

La Tatta le diede un’occhiataccia, che le smorzò subito gli entusiasmi; si ritirò nel suo angolo modesto, a fianco del cucù tenendosi in grembo il moccichino di giaconetto piegato a freccia, al quale ricorreva di tanto in tanto per asciugare una lagrima furtiva.

In fondo in fondo era una giornata noiosa. Le donne, in vista della circostanza eccezionale, non lavoravano; Rodolfo non osava mostrarsi in paese; se ne stava sdraiato sul divano bigio, fumando e sbadigliando un poco; la Tatta poi faceva il muso, Daria era malinconica; la sola Matilde sembrava trovarsi a pieno suo agio, già [p. 102 modifica]fatta padrona della situazione e della casa, investita dei pieni poteri di donna maritata. Stette un paio d'ore di sopra, nella sua camera, a collocare la biancheria nei cassettoni; chiamò cinque o sei volte la servetta per farsi portare dell’acqua, un ago, un lume acceso, un posapiedi.

Verso le sette discese, con un fiore nei capelli e un paio di guanti chiari, che le salivano fino al gomito sul braccio nudo.

Alle sette e mezzo incominciò a capitare qualcuno. L’uso generale del paese conservava il pranzo a mezzogiorno; i più avanzati desinavano alle quattro; tutti dunque erano pronti e in poco più di mezz’ora la saletta dei Regaldi era piena di gente. Matilde fece accendere un lume nel vestibolo.

— Avete lo chic innato, cognatina mia — le bisbigliò all’orecchio Piero.

Ella si voltò sorridente, guardandolo dall’alto al basso, con un’occhiata elittica, rapidissima.

Rodolfo circondato dagli amici, beveva e versava da bere non occupandosi d’altro.

Daria e la Tatta facevano gli onori, quantunque in modo ben differente; secondando l’una il suo carattere irascibile, frenandosi l’altra più che poteva, nell’immensa mestizia.

Ippolito se ne stava in disparte, muto, [p. 103 modifica]pensieroso, offeso nella sua intima delicatezza dal contegno spavaldo di Matilde; contrariato da tutta quella gente che ciarlava e rideva a voce alta, sofferente per la sofferenza di Daria. Ella gli venne dappresso un momento col pretesto di domandargli un dettaglio di famiglia, e sedette vicino a lui. Avevano da dirsi mille cose, ma nel guardarsi dimenticarono il resto.

— Si è fatto un bel giovine vostro cugino Piero — disse Ippolito.

— Sì — rispose Daria.

E poi tacquero, sorpresi dal suono delle loro voci, esauriti per lo sforzo fatto di occuparsi di cose indifferenti.

Le ciarle che si facevano in paese sul loro conto, erano giunte fino a loro attraverso i sorrisi ironici, i discorsi troncati, le allusioni perfidamente ingenue. La purezza del loro affetto trascinata così nella bava dell’immondo paese soffriva torture indicibili e pareva quasi che sotto i colpi villani dovesse cedere la loro costanza.

Ora non riuscivano mai a guardarsi, a dirsi una parola, senza veder sorgere davanti come uno spauracchio la mormorazione sottile e velenosa.

Matilde venne a raggiungerli; si fermò in piedi davanti a loro e guardando un ritrattino [p. 104 modifica]appeso al muro, proprio al disopra della testa di Daria, esclamò:

— Era destino!

Il ritratto rappresentava il primo fratello Regaldi. Daria si morse le labbra e chinò il capo mentre Matilde soggiungeva con leggerezza:

— Se non fosse morto così presto mi avrebbe sposata anche quello lì; cioè intendiamoci, o l'uno o l’altro...

Si allontanò ridendo chiamata dal signor Giacomo Rossetti che, avendo bevuto più del dovere, si sentiva in vena di galanteria.

Daria era pallida come un cadavere.

— Cara — fece Ippolito dimenticando in quel punto la sua freddezza e prendendole la mano.

Ma una forte esclamazione della Tatta richiamò l’attenzione generale sulla signora Luigina che era stata dimenticata completamente e che giaceva svenuta sulla sua sedia, di fianco al cucù.

Due uomini presero delicatamente la povera zitella e la portarono sul letto della Tatta, non senza celiare, strada facendo, a proposito di questo singolare svenimento. Daria la seguì subito e non si fece più vedere in sala, divorando meglio 1e proprie lagrime al capezzale della vecchia amica.

Giù, gli amici di Rodolfo si fermarono fin oltre la mezzanotte schiamazzando. Alla fine erano [p. 105 modifica]tutti un po’ brilli, compreso lo sposo. Il signor Giacomo Rossetti cantò: Padre santo ai vostri piedi: e poi si fece a raccontare la sua prima giornata di matrimonio, dando a Rodolfo dei consigli.

Improvvisamente si ricordò che era passata la mezzanotte e che si trovavano in giorno di venerdì. Salutò tutti, prese il cappello, serio, preoccupato dei peccati commessi; ma passando vicino a Matilde gli occhi gli luccicarono ancora di un pensiero lascivo:

— Mi raccomando, neh?... giudizio!

E sparve.

— È capace di andare a mattutino — disse Piero.