La Regaldina/VIII
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VIII.
La vecchia Tatta, mettendosi la cuffia accanto alla finestra, vide Ippolito che passeggiava avanti e indietro, e volgendosi a Daria, che rassettava la camera:
— È forse per te che questo signore viene così di buon mattino a prendere l’aria della nostra contrada? Affè mia ch’è più brutto del solito; ha una faccia scombussolata, che pare abbia dato il capo nella luna.
Daria era avvezza a queste bruscherie, nè vi fece caso; si affacciò ella pure ai vetri e fu sorpresa nel vedere il giovine fermo davanti alla porta, come chi aspetta qualche cosa o qualcuno.
Non c’era anima nata in tutta la lunghezza della via; Daria sospettò subito che tosse accaduto qualche cosa di straordinario, ma si frenò per la presenza della burbera vecchia, la quale subiva a riguardo di Ippolito tutte le cattive prevenzioni, che si avevano in paese, e malignava anche lei volentieri sul suo conto, sobillata dalle donnicciuole, mal disposta dal carattere muto e freddo del giovine, che essa attribuiva a ipocrisia — gelosa forse a sua insaputa, per l’amore che portava alla fanciulla, del tacito accordo che esisteva fra lui e Daria.
Di lì a poco essendo scesa la domestica per levare il catenaccio alla porta, Daria la seguì e sentì Ippolito che la interrogava:
— È ancora a letto il signor Rodolfo?
La voce del giovine era alterata, quasi tremante.
— Il signor Rodolfo non c’è — rispose lesta la servetta — è partito ieri sera per la caccia delle anitre selvatiche e non tornerà che fra due o tre giorni.
A traverso la fessura dell’imposta Daria vide il pallore che queste parole fecero sorgere sulla faccia del suo amico e, non potendo più resistere all’ansia che la tormentava, si mostrò improvvisamente.
Soliti a intendersi cogli occhi, più che colle parole, i loro sguardi erano sempre lunghi e intensi; ma questa volta Ippolito chinò le palpebre così confuso, così smarrito, che l’angoscia di Daria invece di calmarsi crebbe. Ed egli non aveva bisogno in quel momento in sensazioni affettuose. Venuto per compiere un dovere tristissimo si era armato dell’oltraggio fatto alla sorella ed era tale scudo da renderlo inaccessibile.
— Signor Ippolito — ella incominciò colla sua dolce voce, resa ancor più dolce dal terrore — che avvenne?
— Oh! nulla.... — balbettò lui, fatto cauto dalla presenza della domestica.
Daria se ne accorse:
— Ella voleva parlare con mio cugino nevvero? Entri, la prego; o Pierino o la zia....
Così dicendo aveva ammiccato alla servetta, che se ne andasse e tratto Ippolito in un cantuccio della corte, bandito il convenzionale ritegno, che troppo pesava alla sua gagliarda franchezza:
— C’è una disgrazia! — esclamò. — Io la sento.
Ippolito, muto, teneva costantemente gli occhi a terra.
— Me la dica, signor Ippolito, la prego; sono forte.
— Non è a lei che devo dirla.
— Perchè non a me? Mi crede.... indegna delle sue confidenze?
— Oh! — fece il giovine con un pronto gesto negativo; ma la sua faccia era così seria, che Daria non si accontentò.
Allora per procedere lentamente ella chiese:
— Matilde viene oggi? Ma non compì la frase, perchè al nome di Matilde un vivo rossore imporporò la fronte del giovine; quel rossore mise Daria in sospetto e guidata dal segreto istinto femminile balzò subito a Rodolfo dicendo:
— Credevo che sua sorella lo avesse avvertito della gita di mio cugino.
Com’era da aspettarsi Ippolito si rannuvolò maggiormente; Daria stava sulle bragie, ma ad ogni parola guadagnava terreno e senza rendersi un conto preciso del fatto (troppo brutale per presentarsi alla sua vergine immaginazione), intuì qualche cosa della verità. Allora con un rapido esame della situazione, senza falsa modestia, che non avrebbe giovato a nulla, ella vide in sè stessa e in Ippolito i veri rappresentanti delle due famiglie. Lì, in quella medesima corte, quasi allo stesso posto un morente le aveva ceduto lo scettro morale della casa; sentiva che di tutti i Regaldi la più forte era ancora lei, povera fanciulla; e frenando l’ultimo ritegno di ritrosia, dimentica affatto di ogni preoccupazione personale:
— Signor Ippolito, vi sono di quelle cose che il labbro si rifiuta a dire, ma i cuori si intendono sempre.
Egli ebbe uno slancio di infinita tenerezza; avrebbe voluto prenderle la mano e baciarla, la coraggiosa che veniva in aiuto alla sua timidezza. Non fece nulla però. Colla fronte china, in apparenza impassibile domandò:
— Lei sa qualche cosa?
— No; ma credo si tratti di mio cugino e di....
Non pronunciò il nome di Matilde.
— È dunque noto a tutti? — chiese Ippolito con vero terrore.
— Al contrario, nessuno lo sospetta. Io stessa non avrei indovinato, se la sua visita a quest’ora insolita e il suo turbamento non mi avessero richiamate alla mente tante piccole circostanze, delle inezie, che sfuggono al momento, ma che poi confrontate con altre illuminano all’improvviso e danno la certezza.
Daria parlava con calma, seriamente, da persona che comprende la gravità del momento e non vuol perdersi in vane esclamazioni; i suoi occhi però, sollevati e aperti in uno sguardo di completa purezza, mostravano come fosse ancora lontana dalla brutta realtà, e Ippolito soffriva crudelmente al pensiero di dovergliela svelare.
Si trovavano al piccolo cancello che, lungo la Regaldina, conduceva attraverso prati e frutteti al giardino della casa bianca. Daria piegò da quella parte per sfuggire alla sorveglianza della servetta, che andava e veniva nella corte; il giovine fece con lei alcuni passi sul sentiero coperto di brina.
— Certamente — continuò la fanciulla — Rodolfo è ancora troppo giovine e per la sua condizione e più ancora per la sua scioperatezza non è in grado di accasarsi così presto.
Tacere era impossibile. Ippolito, con uno schianto, che gli strozzava la voce in gola, interruppe:
— È necessario.
Daria si fermò guardandolo co’ suoi begli occhi innocenti, colpita dall’inflessione mestissima di quelle parole e, sentendo rinascere a un tratto tutta la delicatezza femminile, arrossì nel medesimo istante che comprese.
Ed egli pure arrossì davanti a quella donna per la quale aveva nel suo petto consacrato un culto di purissimo amore, e stettero tutti e due muti, confusi, curvati sotto la vergogna di una colpa, che non era la loro.
Al di là della Regaldina, sulla strada fiancheggiata dagli alberi, che novembre sfrondava, un uomo ed una donna venendo dal mercato carichi di provviste, adocchiarono la giovane coppia, e la donna (che era la signora Ernesta) diede una forte gomitata al signor Rossetti, il quale vedendoci poco strizzava le palpebre; e finalmente risero insieme, dondolandosi sugli enormi fianchi, facendo traballare la pancia obesa.
— Eh! signor Giacomo, che ne dice? Questa sera racconteremo a don Pacchia, che lo abbiamo veduto l’albero delle pere.
Ridevano ancora affrettando il passo, facendo grassi commenti, quando Ippolito con un sospiro che gli veniva dal fondo dell’anima mormorò:
— Dio sa quale strazio io provo in questo momento! A lei.... non chiedo altro che perdono.
Daria gli stese la piccola mano, ch’egli toccò appena; soffriva immensamente.
— Non a caso dissi che i cuori si comprendono anche quando i labbri non possono parlare. Abbia fede in me signor Ippolito.... ora più che mai la sua causa è la mia.
Questa vereconda e schietta confessione gli cagionò una gioia immensa, che il lampo degli sguardi tradì per un minuto secondo; tornato subito in sè e represso il tumulto del cuore rispose:
— Io sono un disgraziato; ma la disgrazia di mia sorella mi fa un dovere di non occuparmi che di lei.
— La prego a credere — soggiunse Daria con nobiltà — che la via della giustizia è quella che io scelgo sempre e su tutte le altre. Se c’è una macchia sul nome dei Regaldi, i Regaldi la cancelleranno.
Nell’ardore che la infiammava, Daria sembrava ingrandita; la vesticciuola del mattino misera e succinta non palliava nessuna delle sue grazie giovanili, pure ella aveva l’imponenza di una matrona e nella fierezza degli occhi neri ed aperti ben si leggeva la tempra bronzina del suo carattere.
— Daria! Daria! — gridò in quel momento la voce della Tatta.
— Zitto — fece la giovanetta ponendosi un dito sulle labbra — che nessuno sappia nulla fino all’arrivo di mio cugino. Di qui ad allora.... coraggio!
— Ne avrò pensando a lei.
Fu la prima frase significativa che Ippolito ardì pronunciare a voce bassa, tremando un poco.
E si separarono così, rapidamente, senza stringersi la mano; oppressi entrambi dallo stesso dolore, ma portando in cuore la dolcezza ineffabile di un grande amore tacitamente ricambiato.