La Donna e il suo nuovo cammino/La donna e il lavoro
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La donna e il lavoro
DI
ELOISA BATTAGLINI
Quando ho cominciato a fermar la mente sul tema assegnatomi dalla nostra Sezione, non ho potuto a meno di domandarmi in quale condizione mi sarei trovata se, invece di parlare oggi, avessi dovuto farlo una cinquantina d’anni fa, quando i problemi dell’emancipazione femminile si affacciavano appena timidamente all’orizzonte. Confesso che ho ringraziato il cielo di avermi fatta nascere un po’ più tardi ed il mio pensiero si è volto riconoscente ai pochi coraggiosi amici nostri che, primi, ci hanno comprese ed aiutate; a Francesco Morelli, che osò portare agli onori della pubblica discussione un argomento con cui si rischiava allora di perdere ogni considerazione di serietà, se non di essere addirittura dichiarati matti da legare o, cosa non meno grave, di affogare in un mare di ridicolo. Oggi le cose sono molto cambiate.
Con la tenacia e la resistenza degli organismi di forte vitalità; degli organismi destinati a sopravvivere; la donna si è insinuata un po’ dappertutto.
Oggi non si giudicherebbe più un assioma quello che il Leopardi ha detto della donna in tono anche troppo reciso:.....Che se più molli E più tenui le membra, essa la mente |
poichè a causa della guerra, le sue capacità sono state messe in valore con la irrefutabile prova dell’esperimento.
L‘opera femminile, accolta sulle prime con una certa trepidanza, è andata affermandosi; è divenuta sempre più varia, più complessa, più lontana specialmente da quelli che si ritenevano i limiti estremi delle sue possibilità. Cosi, dopo le fattorine abbiamo avuto le conducenti, le spazzine, le postine; cosi le donne hanno occupati, negli uffici industriali, commerciali, governativi, posti tenuti finora sempre e soltanto da uomini; così, nelle fabbriche di munizioni la percentuale di mano d’opera femminile è salita dal 18% nel 1916 al 70% nel 1917.
Dai molti studi sull’argomento si rileva che, se al ministero delle Finanze, del Tesoro; alla Corte dei Conti il lavoro femminile limitato ancora a poche donne che occupano modesti uffici di dattilografe; è invece fervidissimo al ministero della Pubblica Istruzione, delle Poste e più ancora al ministero della Guerra e della Marina, dove le donne rappresentano un vero e proprio esercito sussidiario. Al ministero dei Trasporti, per merito della modernità d’idee del Comm. De Cornè, già fin dal 1915 circa 9000 donne erano impiegate come casellanti e cantoniere e circa un migliaio negli uffici come contabili e dattilografe. Al ministero dell’Industria e Commercio, oltre ad una schiera d’impiegate minori, hanno trovato posto due donne laureate, l’una alla statistica, l’altra alla direzione della biblioteca. Nell’ultimo Convegno femminile, tenutosi qui a Roma nell’ott. 1917, l’avv. Sacchetti ebbe ad osservare che in alcune officine per il munizionamento, il lavoro femminile aveva dato risultati superiori al maschile, sia riguardo alla quantità che alla qualità. Il dall’Ongaro in un articolo dell’aprile 1917 al Giornale d’Italia giunse alla stessa conclusione «È poi, di sommo conforto — egli dice — il fatto che all’aumento numerico della mano d’opera femminile sia venuto anche ad accompagnarsi un miglioramento ed affinamento della capacità produttiva dell’opera stessa». E più oltre: «Da quanto abbiamo esposto risulta come siano giustificate le lodi e l’omaggio che da ogni parte, e specialmente da parte di coloro che hanno dato e danno in prima linea il loro contributo generoso alla grande causa, vengono tributati all’opera femminile; opera che non sarà dimenticata e che ha aperto alla donna la via alle più ampie rivendicazioni economiche e morali dopo la guerra».
L’aver valutata l’immensa importanza del lavoro femminile nelle campagne, ha fatto sorgere nel Comitato Tecnico di Agricoltura l’idea di premiare quelle industriose, vigili custodi della ricchezza nazionale. Le motivazioni dei 12.713 premi assegnati sono concordi nel rilevare lo spirito di disciplina, l’ardore al lavoro, l’iniziativa femminile. Una motivazione piacemi trascrivere per intero:
«Una medaglia d’oro è stata assegnata alla buona memoria di Celeste Pignotti da Gagliola in quel di Macerata, che avendo il marito Francesco Orizondi richiamato alle armi fin dal 1915, rimasta sola con due tenere bambine, a tutto provvede con abilità ed energia, perchè il fondo che la famiglia coltiva di ettari 5 produca come sempre e più se possibile, finché essa, colta da malattia per eccessivo lavoro, cade come un’eroico combattente, immolando sè stessa alla famiglia, alla patria. Così le donne d’Italia si dimostrano degne compagne dei valorosi, che con nobile slancio fanno sacrificio di sè».
Non mi dilungherò sull’opera delle infermiere e di quelle donne, che dal principio della guerra si dedicano alle diverse organizzazioni di soccorso o di lavoro, spiegando un’attività, una disciplina, un’intelligenza degne del maggior encomio: l’opera loro è nota a tutti. Preferisco fermarmi per il mio intento su quei lavori che si ritengono meno adatti alla donna. Oggi a Venezia le donne lavorano il ferro. Ce lo dice Rossana con la sua parola calda e vibrante.
«Là alla Giudecca, nell’isola gaudiosa di arti e di giardini rispecchiantesi sul mare; là prospiciente il S. Marco dove sempre hanno fiorito le arti del ferro battuto, le donne hanno sostituiti gli uomini nei grandi sottoportici dove gli uomini sudavano a piegar metalli. Le industrie metallurgiche veneziane si sono trasformate in officine per munizioni e presso le sonanti incudini stanno le donne a battere e piegare il ferro arroventato, perchè le piccole aziende non hanno le macchine per far questo.
L’aspra fatica non le fiacca ma le eccita».
E Rossana ce le descrive, nelle vesti dimesse, insudiciate dal fumo, dal grasso; bionde sottili, con i dolci occhi glauchi come la laguna nativa; creature che sembrano cosi fragili e sono così forti: forti nel cuore che comprime i palpiti di angoscia per animare l’opera; forti nelle membra che si temprano e si allenano sotto la forza di una volontà indomita; e prosegue:
«Alzano con ritmo poderoso il braccio carico del pesante martello e lo abbassano poi con impeto fermo; inturgidiscono i muscoli della schiena e del petto, puntano l’anca come a trarne vigore ed in quell’atto e in quelle vesti esse mi apparvero come creature nuove — creature di virtù e di coraggio — che la guerra ha rivelate e che comprendono, nello sforzo immane, tutto lo sforzo che l’Italia si appresta a compiere per scacciare dal Veneto i nostri biechi e fieri nemici».
Ma più di queste prove di capacità specifica, una considerazione di carattere pregiudiziale convince della maturità psicologica della donna. Essa ha lavorato liberamente, volontariamente; non è stato necessario costringervela. Il ritmo della vita nazionale ha continuato a svolgersi quasi normalmente in gran parte per suo merito. Se le donne si fossero astenute dal lavoro; se si fossero rinchiuse nella tradizionale inerzia, molto minore sarebbe stato il numero degli uomini che avrebbero potuto prender parte alla guerra. Chissà?! Forse dai nostri nemici, così infernali nell’ordire intrighi, anche questa propaganda è stata tentata; ma le donne hanno compreso. Questi esseri che si ritenevano ignari di tutto quanto non fosse sentimento di tenerezza e di pietà; queste spose, queste sorelle, queste madri hanno compreso intuitivamente il formidabile cozzo d’idee, lo sconfinato gorgo di universale dolore, in cui il povero piccolo dolore personale, grande pur quanto il loro cuore istesso, doveva essere travolto. E moltiplicando le forze fisiche con la forza del volere, imponendo silenzio ai palpiti alle ansie; pronte, instancabili hanno sostituito l’uomo dovunque è stato loro concesso, perchè la patria avesse per sè il braccio di tutti i suoi figli come aveva per sè il cuore di tutte le sue donne migliori. E l’anima materna, quest’anima dolorante da tre anni in un’agonia di tutte le ore, non ha avuto un lamento. Oh si! In un’ora oscura di dubbiezza, di dolore la voce della madre italiana ha risuonato, non per imprecare, non per lamentare, non per rimpiangere: no, neanche per rimpiangere. Come animata dallo stesso eroico soffio, che ha segnato di sacre tombe i confini d’Italia, la voce della madre italiana si è fatta udire soltanto per rammentare il dovere.
Qualcuno potrebbe osservare che non tutte le donne hanno sentito, hanno agito così. È vero. Non tutte hanno saputo tenersi all’altezza del grave momento che attraversiamo. E non tutte hanno portato nel lavoro, oltre alla capacità, quella dignitosa coscienza di sè, che è elemento prezioso, indispensabile nella nuova vita a cui le donna si accinge. Noi non vogliamo mettere una maschera alle nostre manchevolezze: noi vogliamo anzi rendercene conto per combatterle. Nè chiediamo indulgenza ma soltanto giustizia. E in nome della giustizia appunto, io vi domando: Quale preparazione è stata data alla donna nella famiglia, nella scuola, per poter pretendere che essa si dimostri perfetta fin dai primi passi del suo nuovo cammino? E in quest’ora sacra alla patria gli uomini, con preparazione ben diversa dalla nostra, hanno fatto sempre tutti ed in tutto il loro dovere? Si rimprovera costantemente alla donna la sua debolezza; ma più del debole non è in colpa chi della debolezza approfitta? Convinciamoci che non solo la coscienza femminile, ma la coscienza di tutti deve affinarsi. Io credo di poter affermare, senza tema che mi si accusi di fare delle apologie, che se la donna, così come l’hanno formata l’educazione e l’ambiente, ha potuto dare oggi quello che ha dato, ciò vuol dire che le sue capacità considerate come fattore di progresso sociale sono incalcolabili, e saranno messe in luce in modo indiscutibile, quando appunto l’ambiente e l’educazione avranno sviluppato in lei le sue qualità migliori e le avranno dato la consapevolezza di sè. Molti — quando si parla delle energie svegliate dalla guerra, delle capacità femminili da essa rivelate, han l’aria di ritenere implicitamente che le nuove correnti del pensiero e dell’azione femminile siano in diretto rapporto con l’umano cataclisma che sconvolge il mondo; dipendenti da esso; solo per esso sussistenti.
Nulla di più erroneo. La guerra è stata semplicemente la rivelatrice di forze preesistenti. Se noi osserviamo lo stato del lavoro nei tempi che hanno preceduto la guerra, ci accorgiamo che l’infiltrazione femminile era sensibilissima fin da allora e ci persuadiamo che il nuovo orientamento della donna non è uno di quei fatti che si abolisca con un decreto o si annienti con lo scherno e il disprezzo: è un’evoluzione storica necessaria incoercibile, che può essere arginata in un’armonioso svolgimento, non distrutta.
Dalle cifre del censimento del 1911, che classifica la popolazione non solo per censo e per età, ma per professione e condizione, noi rileviamo che le categorie di lavoro da cui la donna era esclusa del tutto sono le seguenti: Cacciatori — guardacaccie — guardie campestri — servizio per l’estinzione degli incendi - carabinieri e armata. — Fra i mestieri manuali: muratori — capimastri — pavimentatori — imbianchini e decoratori di stanze — copritetti — docciari e zingatori. — Non vi sono donne fra i lustrascarpe, e le donne non lavorano nelle saline marittime, nè alla produzione dell’acido solforico, nitrico e cloridrico, nè alla lavorazione di medaglie e monete; nè vi sono donne fra i veterinari — gli avvocati esercenti — i notai e gli ufficiali giudiziari.
L’esclusione da queste categorie si comprende facilmente. Esclusione dai lavori malsani, da uffici che comportano una responsabilità giuridica ed esclusione volontaria da quei mestieri così umili a cui la donna non si è sentita attratta, avendone trovati tanti altri più comodi e remunerativi.
In tutte le altre espressioni dell’enorme attività industriale ed agricola la donna ha preso il suo posto; talvolta rappresenta una percentuale minima; pur tutta via l’opera sua appare: perfino nelle costruzione delle navi di legno, nei grossi lavori da falegname, nei macelli per la lavorazione e la conservazione delle carni, per l’estrazione e la purificazione dei grassi, nelle concerie, nelle lavorazioni della ghisa del ferro dell’acciaio, nei lavori da fabbro, da ottonaio, da ramaio, nelle fabbriche di armi bianche, nelle grosse costruzioni metalliche per l’agricoltura e l’industria e per i trasporti aerei e terrestri, nell’industria della segatura, frantumazione e classificazione delle pietre, nella macinazione dei minerali, nei lavori alle fornaci di gesso, di calce di terracotta, di porcellana.
E poi nella lavorazione e nell’industria della seta, del filo, della iuta, della canapa, dei tessuti di maglia, degli oggetti di feltro; nella preparazione dei tessuti impermeabili, nelle manifatture di biancheria e sartoria la percentuale di lavoro femminile è elevatissima. E anche notevole il contributo delle donne nelle fabbriche di fiammiferi, nelle distillerie di alcool, nelle lavorazioni del caucciù, della guttaperca, dei concimi chimici ecc. Vi erano prima della guerra donne fra gli spedizionieri, i rappresentanti commerciali e perfino, addette al servizio delle chiese, 264 donne campanare.
Infine in tutte le lavorazioni agricole la donna aveva già la sua parte.
La classe dei giornalieri di campagna era in alcune province — nella Campania, negli Abbruzzi, nel Piemonte — più ricca di donne che di uomini. Su di una popolazione di 11.822.912 donne 4.535.340 avevano anche prima della guerra una professione specificata; 7.287.572 lavoravano nelle loro famiglie. Ma noi sappiamo che, specialmente nel mezzogiorno d’Italia, il lavoro non organizzato su larga base industriale si compie in buona parte a domicilio, nel tempo lasciato libero dalle cure domestiche; possiamo perciò ritenere che anche prima della guerra la partecipazione femminile al lavoro avesse dimostrato la sua importanza.
Da quanto ho esposto si potrebbe argomentare che l’eguaglianza dei sessi sia un fatto riconosciuto, ammesso e che la donna non abbia da far altro ormai che proseguire per la sua via a fianco dell’uomo, in un regime di perfetta giustizia.
Ahimè quanto siamo ancora lontani da questo ideale! Notiamo intanto, col senso di profonda tristezza con cui si guardano le inveterate ingiustizie, che il lavoro femminile equiparato al maschile, quanto a rendimento, non lo è affatto in quanto a salario; che le condizioni di femminilità, di maternità che dovrebbero dare diritto alla donna ad un trattamento di favore si ritorcono contro di lei. Infatti si ha così poca considerazione per la femminilità e la maternità nelle classi meno abbienti, che si trova naturalissimo che una donna fresca di parto riprenda, ancor stremata di forze, le più dure fatiche; e se ne ha tanta nelle classi più fortunate che sol perchè la donna deve fare la donna (uso la frase sacramentale), le si nega il diritto di voto e la si mantiene in seno alla famiglia in condizione di minorità. Per qual motivo? Perchè si è sempre fatto così? Non si dà risposta più convincente. Quando ci si sofferma a considerare la granitica solidità di certe costruzioni mentali, si vorrebbe che il cervello umano fosse come quelle mobili arene su cui ogni impronta si cancella al soffio rinnovatore dei venti. Nè basta. Anche il diritto al lavoro si contesta alla donna; malgrado le capacità, malgrado le prove di disciplina, di fermezza, una sorda ostilità permane contro il lavoro femminile, contro l’unico mezzo atto ad equiparare le condizioni dei due sessi dando alla donna l’indipendenza morale che ha sempre per base, nella pratica della vita, l’indipendenza finanziaria. Perchè? Le ragioni sono complesse, di ordine economico e morale, ragioni che non reggono ad un esame spassionato, ma che stringono ancora coscienze ed attività nei viscidi tentacoli della torpida consuetudine. Le esamineremo or ora. Mi sia concesso soffermarmi un momento per fare una breve considerazione.
Non vi è chi oggi contesti che l’essersi la donna trovata pronta e capace al lavoro, non sia stato un bene. Le riserve si fanno per i tempi così detti normali.
Certo ognuno di noi desidera che l’immane flagello che insanguina il mondo non si rinnovi: è per la speranza di lasciare a coloro che verranno dopo di noi un’eredità di maggior giustizia, che migliaia e migliaia di esseri si sacrificano; ma la lotta — se pur muterà di forma — non potrà abolirsi.
La lotta rappresenta lo sforzo per trovare in pratica un assetto più rispondente alle aspirazioni ideali: è dunque elemento necessario all’evoluzione umana. È giusto ed è bene che da questo sforzo sia esclusa la donna che può portare nel lavoro elementi nuovi, personali, utili alla vita sociale? Nel campo del lavoro manuale e negli uffici la donna ha dimostrato di saper fare quanto l’uomo e meglio talvolta. Molti affermano che nel campo intellettuale la sua produzione sia rimasta sempre di gran lunga inferiore. Invero ciò è molto discutibile. Abbiamo avuto donne letterate, scienziate, artiste pari alla media della più alta intellettualità maschile.
Il genio femmina non è ancor nato, è vero. E questo è il grande argomento.
Noi intanto non sappiamo che cosa sia il genio.
Se ne sono date le più svariate definizioni fino ad accomunarlo con le degenerazioni della delinquenza; ma una cosa mi sembra che si possa affermare: questa, che il genio è la manifestazione di individualità possente. Ora la donna si è mai trovata, attraverso i tempi, in condizioni di poter sviluppare in sè una individualità possente? Il concetto di personalità, originalità può andar disgiunto da quello di libertà, di indipendenza intellettuale? Se noi esaminiamo le condizioni in cui la donna ha sempre vissuto, ci accorgeremo che tutto concorreva invece ad annullare in lei la personalità. L’educazione che riceveva fin dall’infanzia e che le faceva un dovere di piegarsi, di rinunziare, di ubbidire, anche avendo ragione, per il solo fatto di essere donna: la necessità di avvincere a sè l’uomo che presentava l’unica speranza di un vita più larga, la sola sicurezza economica, la preoccupazione, non riuscendo nell’intento, di vedersi votata alla miseria, alla solitudine e quel che è peggio al ridicolo: tutto contribuiva al suo annientamento.
E una volta raggiunta la meta col matrimonio, quale era, quale è tuttavia la sua situazione?
Nella famiglia l’uomo si trova in una condizione di privilegio di cui non abusa quando è buono ed onesto: ma basta anche la sola cognizione di questo squilibrio di prerogative nell’unione fra due esseri, per inquinarla. Citerò un aneddoto, che per essere capitato a me e perchè si riferisce a persone non comuni, può avere il suo valore. Mi trovavo in villeggiatura con una coppia di sposi, miei amici carissimi.
Il marito è persona d’ingegno che si è fatto col lavoro una bella posizione; lei è donna intelligente e colta.
Sono uniti da profondo affetto; hanno il massimo rispetto l’uno per l’altro. Un matrimonio dunque eccezionalmente ben riuscito. Si discute su argomenti banali, che non possono quindi sovraeccitare e togliere il necessario equilibrio. Ad un tratto il marito volto alla moglie esce in questa frase testuale. «Quando io dico una cosa, anche se sbagliata, non deve esserlo per te». Confesso che mi venne da ridere; ma qual non fu la mia sorpresa, quando vidi quella dolcissima donna chinare il capo gentilmente e rispondere «È troppo giusto».
E il peggio si è che era proprio convinta che questo annientamento di sè costituisse uno dei capisaldi del suo dovere coniugale.
Sembra chiaro che in questo soffocamento della personalità femminile va ricercata la ragione per cui la donna non ha dato finora nel campo intellettuale tutto quello che avrebbe potuto dare. Essa è stata finora un’ombra. Lasciate che giunga ad essere una creatura viva, che goda, che soffra, che vibri in una sua esistenza indipendente e personale; allora solo si saprà se e di che cosa sia capace. E non temete. Il tempo farà giustizia di noi se avremo troppo osato. Ma torniamo alle ragioni per le quali il lavoro femminile è ostacolato come elemento della vita normale. Le ragioni economiche. Si ritiene che gl’interessi femminili siano in antagonismo con i maschili e che la donna sia di troppo nella produzione del lavoro. Giannina Franciosi nella prolusione a questo nostro ciclo di conferenze ha dimostrato, basandosi sul concetto della trasformazione dell’energia, che il lavoro va considerato come sorgente di ricchezza sempre. Se talvolta le industrie sferzate ad un rendimento eccessivo falliscono al loro scopo, ciò nasce dalla cattiva organizzazione del lavoro in sè. Quanto all’antagonismo d’interessi, la colpa non va addebitata alla donna. L’uomo, partendo dai falso concetto dell’inferiorità della produzione femminile o ritenendo quindi giusto che la donna — sol perchè donna — ricevesse un compenso minore del suo, ha creato questa incresciosa situazione di antagonismo, che in mano allo speculatore è divenuta arma formidabile di sfruttamento e si è ritorta contro l’uomo stesso. Ma non vi è chi non veda quanto questo contrasto d’interessi sia artificioso. Quando si sarà giunti alla parificazione delle mercedi per cui a lavoro eguale sarà dato salario eguale; quando il lavoro sarà considerato per il suo valore intrinseco non per il sesso di chi lo fornisce, la concorrenza tornerà a farsi normale e le diverse capacità si accentueranno naturalmente sui lavori più adatti all’uno e all’altro sesso o divergeranno da essi, a tutto vantaggio della produzione. In Italia abbiamo moltissimo da fare, sia nel campo industriale, sia perchè la terra ci dia il massimo rendimento: occorreranno le forze tutte, maschili e femminili, perchè il meraviglioso fervore di lavoro di oggi non s’indebolisca, non si arresti ma s’incanali, sapientemente diretto, verso nuovi scopi.
Ma se il pregiudizio, che per ragioni economiche circoscrive ancora il lavoro femminile, sarà facilmente eliminato dalla forza stessa degli avvenimenti, dalle necessità contingenti; assai più difficile sarà eliminare il pregiudizio che riguarda la condizione morale della donna nella società nuova che si viene formando. Molti ostacolano il lavoro femminile, perchè temono che la maggior libertà, data necessariamente dal lavoro, alla donna possa esporla più facilmente a pericoli. Per conto mio credo che i chiavistelli servano solo a creare delle illusioni e che la donna cosciente di sè, responsabile della propria vita, sia men facile preda. E poi noi vediamo che, oggi stesso, in paesi dove essa è molto più libera di quanto non sia da noi, certi inconvenienti non sono da deplorarsi, per la maggiore moralità degli uomini. Impari l’uomo a rispettare la donna nel lavoro, a comprendere la bellezza di questo sforzo di emancipazione dalla dura necessità del suo aiuto quotidiano, a cui la donna tende solo per riserbargli più pura, più sana la sua dedizione, nell’ora in cui il cuore parli. Poiché — e qui tocchiamo invero al punto più importante della questione — l’uomo teme che la donna — attratta dal lavoro fuori della cerchia famigliare; allettata da altri scopi, si allontani dalla sua missione di maternità. A distruggere questa inutile preoccupazione basterebbe l’esame delle finalità del movimento femminile. Le esagerazioni di certi programmi non vanno tenute in conto: esse sono il risultato inevitabile di ogni periodo di transizione: scorie destinate a cadere, per lasciare l’impero all’idea centrale, l’unica che valga. Che cosa vogliamo noi? Noi chiediamo per tutti, uomini e donne, una vita regolata sui principi ammessi come base di ogni nazione civile; principi di libertà, principi di giustizia; noi vogliamo che ognuno sia condotto ad assumere tutte le responsabilità della vita, senza compromessi, senza restrizioni mentali. E poiché la donna nuova deve essere educata a questa scuola, di che si teme? La vita così intesa assurge all’altezza di missione: oltre che per intimo istinto, la donna sarà madre per sentimento di dovere, e la sua maternità ne verrà nobilitata. Non il lavoro distoglie la donna dalla maternità; sono invece le correnti materialistiche, velenose insidie che prospettando la vita umana come fine a sè stessa, ne fanno una palestra di sensazioni più o meno estetiche, più o meno raffinate, con la sola preoccupazione di allontanare il dolore, che è pur sorgente delle più alte sublimazioni dei pensiero e dell’azione. Il lavoro è moralizzatore. Insegna la disciplina, il valore del tempo, lo sforzo per migliorare; insegna che la vita è lotta e che lottando si soffre.
La donna, che avrà conosciuto l’attrito col mondo apprezzerà ben diversamente il lavoro dell’uomo, ne comprenderà gli sconforti, le amarezze, i disagi assai meglio di quanto abbia potuto farlo finora. E l’uomo, che l’avrà a compagna, non vedrà più in lei quello che purtroppo vede spesso ancor oggi: un’essere limitato, incapace di crearsi un’esistenza a sè, bisognosa dell’appoggio suo materiale e morale, dipendente da lui per povertà di spirito e di danaro; ma un’essere eguale socialmente e intellettualmente, che porterà nella famiglia tutte quelle forze attive e coscienti maturate in una vita personale e che lo sceglie e gli si dedica, perchè lo ama, non perchè egli rappresenta un marito ed una rendita valutata in lire e centesimi. Chi può negare che la moralità sociale non venga a guadagnarvi? Del resto la famiglia non è un’istituzione legale soltanto, nè un’aspirazione unicamente femminile. Essa rappresenta l’aspirazione incosciente di tutti gli esseri umani ad ambientarsi in modo da poter sviluppare in sè le qualità migliori: è l’aspirazione a quell’unità nella diversità, che sta a base non solo della vita umana, ma della vita universale. L’uomo, malgrado le soddisfazioni di una vita indipendente, malgrado le lusinghe dei facili amori, sente anch’esso la nostalgia del focolare domestico, di un’anima vicina alla sua e il desiderio dei piccoli esseri cari, che gli renderanno poi, fra le grigie ombre della vecchiezza, un barlume della gioventù scomparsa. Molto si parla dell’amor materno ed esso è invero immenso, sconfinato come un mare; ma l’amore paterno non è meno grande. Meno istintivo, più cerebrale, esso ha forse un valore intimo ancor più grande. Io so di uomini, che sentono profondamente la tenerezza paterna, che, come la madre, sarebbero capaci di qualsiasi sacrificio, e che sono stati attraverso la vita i più sicuri i più veri amici dei loro figli. Io so di figli, che ricordano il padre con lo stesso tremito di tenerezza accorata nella voce con cui ricordano il bacio, la carezza materna. Perchè sottilizzare su queste artificiose differenze? Padre e madre sono i primi anelli di quella salda catena di affetti, di opere, che deve legare insieme tutti gli esseri umani. Quanto più salda l’unione famigliare, quanto più alta la spiritualità che la informa e tanto maggior bene per la patria, per l’umanità. Ma vano sarebbe cercare nelle sole formole esteriori la saldezza famigliare; da altra fonte essa deriva: dalla disciplina interiore, che può foggiarsi soltanto in una vita sociale largamente, liberamente intesa.
E questa larghezza di vedute io vorrei fosse portata anche verso un’altra categoria di donne, che sarebbe errore il trascurare, poiché essa rappresenta uno dei tanti aspetti della questione femminile: parlo di quelle donne, che, per molteplici ragioni, non si formano una famiglia. Un tempo gli strali della società si appuntavano contro di loro; in un’esistenza chiusa e priva d’interesse intristivano, si amareggiavano, invecchiavano con la dolorosa persuasione di aver mancato lo scopo della vita.
Oggi il lavoro ha aperto a queste donne largo campo di attività e l’anima loro se ne è arricchita così, che per talune l’opera da compiere, sia intellettuale o sociale, assorbe tutte le forze e non lascia posto ad altre aspirazioni. Pur tuttavia la donna, che non è moglie e madre, è ancora considerata socialmente un non valore.
Che si debba nella donna educare la madre è giusto: Ester Danesi Traversai, nella seconda conferenza, ha dimostrato di quanto bene potrà esser sorgente per la madre futura un’educazione più larga e più seria. Voglio però aggiungere che il concetto, secondo il quale si considera la maternità come il fine unico ed esclusivo di una vita femminile, a me sembra ormai sorpassato. Annullare la personalità umana della donna, per valorizzare soltanto la personalità materna, è opera crudele e pericolosa. Crudele, perchè la donna che tenderà ad un’unico scopo, non dipendente sempre dalla sua volontà, e se lo vedrà sfuggire, si sentirà infelice: pericolosa perchè la felicità è per le anime di medio calibro (che sono poi la maggioranza) la più sana garanzia di armonico sviluppo delle qualità migliori. L’essere scontento, amareggiato, facilmente diventa cattivo. E non vi è chi non veda come sia insano fomentare aspirazioni, il cui raggiungimento spesso s’influenza a furia di compromessi col meglio che è in noi. Un solo scopo noi possiamo dare alle nostre aspirazioni, senza tema di sbagliare: lo scopo di sviluppare armonicamente le nostre facoltà morali ed intellettuali per arricchirne il nostro mondo interiore, per metterle a servigio dell’opera a cui saremo chiamati, qualunque possa essere. E poi oggi la donna non è più un non valore, poiché essa lavora. Invero la donna ha lavorato sempre ad un’oscuro, umile, modesto lavoro: quello domestico, che non è stato mai apprezzato secondo il suo giusto valore, appunto perchè poco appariscente. Dice il proverbio: L’uomo lavora — la donna conserva. L’amministrazione domestica, perchè più ristretta, non è men difficile di tante altre; il conservare è una forma di arricchire quanto il produrre, ed io credo che una più giusta legislazione famigliare dovrebbe tener conto alla donna del suo lavoro domestico. Comunque, oggi la donna, oltre al lavoro domestico, ne produce un altro evidente; partecipa così all’incremento della ricchezza nazionale. Indipendente e responsabile la donna assume a fianco dell’uomo i doveri sociali, ed è giusto che a questi doveri corrispondano altrettanti diritti: primo quello di esser valutata e considerata per sè stessa, per il suo lavoro, per le sue personali qualità d’intelligenza, di coltura, di bontà, come è valutato e considerato ogni uomo.
Ma ad affrettare l’ora del suo completo sviluppo la donna non può contribuire? Certo, molto potrebbe.
Un gran passo sulla via delle rivendicazioni femminili sarà fatto il giorno in cui la donna avrà sviluppato in sè la virtù del coraggio; virtù assai più rara di quanto si creda, poiché l’uomo stesso, che affronta mortali pericoli senza tremare, senza impallidire, arretra timidamente dinanzi all’idra a sette teste che vuol chiamarsi la pubblica opinione e che spesso; troppo spesso ahimè, è fomentata da tutte le basse invidie, da tutte le meschine passioni di una turba, che, considerata individualmente, non potrebbe ispirare che profonda pietà. Risolutamente la donna dovrebbe spalancare porte e finestre alla luce. E quanto dico (e parrà inverosimile) non è detto figuratamente soltanto. Vi sono ancora paesi in cui una signora per bene non apre le finestre della propria casa, che guardano sulla via principale, altro che di notte.
Ebbene la donna dovrebbe dimostrare che si può essere una persona per bene anche vivendo diversamente da come la tradizione comanda; non dovrebbe stancarsi mai di dimostrare con ogni atto, in ogni espressione d’intellettualità! che la dignità della vita è costituita da fatti non da forme.
E ad un’altra cosa dovrebbe educare l’animo: al senso della responsabilità sociale che non sempre essa comprende bene. Spesso il lavoro è considerato come quella tal cosa che fa molto comodo, perchè frutta danaro, ma da cui si deve ricavare il più possibile ed a cui si deve dare il meno possibile. Quante volte non si sente dire (anche dagli uomini): «al mio ufficio faccio il comodo mio» ed enumerare le piccole astuzie con cui si rende meno pesante il compito quotidiano. Chi si permettesse di osservare che agire così è disonesto, sarebbe senz’altro lapidato: eppure è proprio così. Non parliamo poi del lavoro gratuito, nel compiere il quale si fa in tutto e per tutto il proprio comodo e si ritiene che si abbia il diritto di farlo. Ma quest’astensione dall’impegno preso non genera disordine? Non fa sì che quel lavoro che altri avrebbero potuto compiere con coscienza, non è fornito affatto per causa di chi ha preso un’impegno alla leggera o non ha avuto altro scopo, offrendosi, che di fare una bella figura? E c’è dell’altro. La donna non sempre rispetta il proprio lavoro e sè medesima in esso, come dovrebbe. Confesso che talvolta sono rimasta rattristata dal contegno di certe signorine impiegate, che si pavoneggiano dinanzi ai compagni d’ufficio, dimenticando completamente il pubblico il quale s’impazienta e commenta: e qualche volta ho sentito l’animo mio invaso dalla malvagia tentazione di tagliare un pezzetto di lingua a qualche tramviera. Ma siateci indulgenti. Noi cominciamo appena il nostro tirocinio sociale. Molto dobbiamo imparare ed impareremo. Impareremo (miracolo inaudito) anche a tacere! L’uomo sa tacere perchè ha valutato l’immenso male che può fare una parola detta a sproposito; perchè ha compreso il valore e anche la dignità del silenzio. Per noi donne la lingua è stata finora la grande arma di difesa, arma potente, poiché anche l’uomo più agguerrito non resiste alla valanga dell’eloquenza femminile, specie se sorretta da una stridula voce inesorabile.
Bisogna compatirci dunque se teniamo in onore l’unico mezzo che ci abbia dato finora la vittoria in ogni contesa!
Anche a cagione della sua inesperienza, la donna non comprende il lavoro sociale che pur dovrebbe compiersi da ognuno come un dovere. Da noi è purtroppo molto da biasimare l’assenteismo. La donna italiana, nel suo complesso, quando non è colpita personalmente, si disinteressa dalle questioni d’indole generale come se non fossero affar suo. Noi abbiamo associazioni fiorenti, che lavorano attivamente; che hanno portato un grande contributo di bene in quest’ora di prova; ma quante sono le socie che vi lavorano effettivamente? Quante le socie stesse, in confronto della grande massa femminile? Poche, sempre le stesse, costrette a correre dall’una all’altra associazione, a disperdere le proprie forze, perchè la maggioranza dorme. Come è possibile che si giunga alle riforme legali e famigliari così urgenti, così imperiosamente necessarie, se le donne stesse se ne disinteressano? Non si comprende che quello che si rifiuta quando è chiesto da mille donne, non si può più rifiutare quando le richiedenti fossero un milione; fossero cinque, dieci milioni; fossero tutte le donne d’Italia? Il nostro Convegno femminile si è occupato di questioni importantissime. Era mia intenzione fermarmi ad esaminare le diverse relazioni, specie quella della sig. Schiavoni Bosio, più affine al mio argomento, sulle «richieste nel campo della legislazione sociale a favore della lavoratrice»; ma il tempo stringe. A quella relazione ed alle altre del Convegno rimando tutte le donne che non se ne sono curate ed anche tutti gli uomini. Essi si accorgeranno così che i problemi che vi si sono prospettati non riguardano aride, sterili rivendicazioni femminili, ma sono problemi di alta importanza morale e sociale e si persuaderanno che il disinteressarsene non è più leggerezza ma colpa.
Ad un’altra luminosa sorgente la donna dovrà attingere; ma ciò le sarà facile, poiché nella virtù d’amare appunto, ella ha trovato sempre le sue forze migliori. La donna deve amare il proprio lavoro come ama la propria creatura. E non è forse l’opera sua, il suo lavoro, la creatura del suo spirito? In un tempo non lontano ci si vergognava di lavorare. Il lavoro era tenuto in dispregio, e quando si domandava di taluno che cosa facesse, il maggior segno di considerazione era poter rispondere: «non fa nulla, fa il signore»! Oggi si comprende che i valori umani lasciati inerti, inutilizzati, sono come il danaro nascosto dall’avaro sotto una pietra e che è colpevole sottrarre alla collettività l’una e l’altra cosa. Oggi noi sappiamo che l’amore all’opera che si compie può illuminare di un raggio di felicità la più misera ed umile vita; e ancor questo noi sappiamo: che nessun lavoro va tenuto in conto d’inferiore. Dall’operaio intento alla sua fatica, all’artista che plasma sotto il pollice possente le più alte forme di bellezza, è tutto un’avvicendarsi di energie varie, complesse, ma tendenti ad uno scopo solo: l’ascensione umana. Ed è la coscienza della nostra utilità, anche nella proporzione più piccola da arrecare a questo meraviglioso sforzo che ci fa sentire il palpito superbo della nostra immortalità: ed è per la virtù di amore; che anima l’opera e la trasforma in ricchezza interiore, che oggi ogni umile contadino è diventato un’eroe; ogni fragile donna ha trovato in sè energie inaspettate; è per virtù di amore che la madre ha potuto assurgere alla più alta espressione della maternità: quella della rinunzia.
Fanciulle d’Italia, voi su cui passa la tempesta, voi siete le creature elette per condurre la donna alla meta del suo nuovo cammino, poiché voi non dimenticherete. Anche quando il sorriso vi rifiorirà sulle labbra; anche quando la gioia vi tornerà nel cuore, voi non dimenticherete l’ora tragica e sublime in cui in ogni essere dolorante avete visto un fratello, in cui avete sentito nell’anima ignara il richiamo imperioso della patria, in cui attraverso le mura della vostra casa, fatte come a miracolo trasparenti, voi avete spinto lo sguardo al di là e tutto un mondo vi si è rivelato di nuovi ideali, di nuovi doveri. È con ferma fede che io vi saluto, giovanette che siete la nostra speranza, e che vedrete l’alba dei giorni che noi non vedremo; è con ferma fede che vi saluto tutte, donne, sorelle, in quest’ora così grave di responsabilità in cui la virtù femminile deve ancor più affermarsi. Con forte cuore, con animo sereno guardate in faccia il vostro martirio e non tremate, come non trema il soldato dinanzi alla morte, perchè al suo sguardo brilla di luce purissima l’ideale di una più grande Italia.
Roma, 4 marzo 1918.