La Costa d'Avorio/24. I fabbricatori di pioggia
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Capitolo XXIV
I fabbricatori di pioggia
Alfredo si era vivamente alzato in preda ad una inquietudine così viva, da strappare al portoghese una esclamazione di profondo stupore.
Il cacciatore aveva ormai compreso da chi era partito quel colpo che aveva lo scopo di immobilizzarlo nella regione dei Krepi, onde tardasse più che fosse possibile, la sua marcia verso le frontiere del Dahomey. Le ultime parole del capo erano state per lui una rivelazione fulminea, ma d’una gravità eccezionale, poichè si trattava della salvezza di tutti e soprattutto della perdita del piccolo Bruno.
— Antao! — esclamò, con voce strozzata. — Noi stiamo per perdere il frutto di tante fatiche e tutte le nostre speranze. Se non troviamo il mezzo di liberarci presto, alle frontiere del Dahomey troveremo le genti di Kalani.
— Di Kalani!... — esclamò il portoghese. — Che questi negri ci abbiano fatti prigionieri per ordine di lui?...
— Non mi hai compreso, Antao. Questi stupidi hanno obbedito, senza saperlo, ad uno dei nostri nemici, il quale ha sfruttato la loro ingenuità a nostro danno.
— Spiegati meglio, Alfredo.
— Sai chi era l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta e che ha dato ad intendere a questi negri che noi eravamo capaci di fabbricare la pioggia?...
— Non lo so.
— Era una delle spie, quella fuggita dal paese degli Ascianti.
— Morte di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — Come può aver fatto a precederci?...
— Io non lo so, ma ormai non ho più alcun dubbio. Per fermarci, onde avere il tempo di giungere nel Dahomey prima di noi, egli ha suggerito a questi negri l’idea di tenderci un agguato nella foresta.
— Doveva adunque essersi accorto della nostra presenza in questa regione.
— Di certo, Antao.
— Il miserabile!... Ma che gambe hanno quei dahomeni?... Ci siamo avanzati a marce forzate, galoppando dall’alba al tramonto ed egli ha potuto giungere qui prima di noi!... Che avesse avuto un cavallo?...
— Lo suppongo.
— E cosa conti di fare ora?... Se quell’uomo giunge nel Dahomey prima di noi, metterà in guardia Kalani e ci troveremo addosso quelle bande sanguinarie.
— Certo, Antao. Se non riusciamo ad acquistare prontamente la libertà, perderemo la vita alle frontiere del Dahomey.
— Ma come faremo a sbarazzarci di queste mignatte?... Noi non siamo in grado di far piovere.
— Cercheremo d’ingannarli.
— In quale modo?
— Lo si vedrà; credo però d’aver una buona idea e se riesco a persuaderli, domani saremo liberi.
— Agisci senza ritardi, Alfredo. —
Il cacciatore si rivolse verso il capo negro che aspettava sempre una risposta e gli disse:
— Odimi, capo. Noi ti accontenteremo e faremo cadere dal cielo tanta pioggia da innaffiare abbondantemente la terra e da farti fare dei raccolti prodigiosi, ma voglio prima sapere una cosa da te.
— Parla, uomo bianco, — disse il negro.
— L’uomo che ti disse che noi sappiamo fabbricare la pioggia, quando è giunto qui?...
— Ieri mattina.
— Montava un cavallo?...
— Sì, ma l’aveva ridotto in condizioni così miserande, che appena giunto morì. Lo abbiamo mangiato ieri sera e ti assicuro che era eccellente.
— Quando è ripartito quell’uomo?...
— Poco prima che i miei guerrieri ti conducessero qui.
— Era giovane?...
— Sì, giovane e robusto.
— Credi che sia già molto lontano?...
— Lo dubito perchè aveva una gamba ferita che lo faceva zoppicare. Aveva ricevuto un colpo di lancia da non so quali negri e mi parve che soffrisse assai.
— Grazie, capo, — disse Alfredo respirando.
— Farai cadere ora la pioggia?... — chiese il negro, con ansietà. — Il sole minaccia di abbruciare tutti i nostri raccolti e l’acqua manca nelle fonti, sicchè non sappiamo come abbeverare il nostro bestiame.
— Sì, ma per far venire le nubi mi occorrono molte cose che io qui non posso trovare.
— I miei sudditi sono tutti a tua disposizione. Ordina e avrai tutto quello che vorrai.
— I tuoi sudditi non possono trovare certe piante che io solo conosco.
— Ti occorrono delle piante?...
— Sì.
— Per cosa farne?...
— Devo farle bollire in una grande pentola ed il fumo che si alzerà nell’aria, basterà per far accorrere da tutti i punti dell’orizzonte delle nubi gravide di pioggia.
— Sai dove trovarle?...
— Sì, nella grande foresta.
— Ti condurremo colà con una scorta numerosa e bene armata.
— No, numerosa. Deve essere composta di soli dodici guerrieri giovani o le nubi si spaventeranno e non verranno.
— Ed io non potrei venire?... Vorrei imparare anch’io a fabbricare la pioggia, — disse il capo.
— Verrai anche tu e ti mostrerò come si deve fare.
— Io ti regalerò quattro buoi e tanta birra quanta ne vorrai.
— Grazie capo, ma voglio anche la libertà. Sono atteso al mio paese e tu sai che i bianchi abitano molto lontano.
— Ti prometto la libertà, ma dopo che sarà caduta la pioggia.
— Voglio anche le mie armi, perchè mi sono necessarie per chiamare le nubi.
— Le porteremo con noi.
— Allora slegaci, cerca i dodici guerrieri e partiamo subito.
— Fra mezz’ora saremo in cammino, — disse il capo, con viva gioia.
Ad un suo cenno Alfredo ed Antao furono slegati, condotti nella capanna reale e serviti di birra, di carne di bue arrostita e di focacce di sorgo; ma alla porta si erano collocati dieci uomini per impedire loro di prendere il largo prima di aver fatto cadere la pioggia.
— Sono curioso di sapere come finirà quest’avventura, — disse Antao fra un boccone ed un sorso di birra. — Come faremo a sbarazzarci del vecchio negro e della sua scorta?...
— Vedrai che tutto finirà bene, — rispose Alfredo. — Noi li condurremo verso l’accampamento e vedremo allora se sapranno resistere ai fucili di Asseybo e dei dahomeni. Il mio servo è astuto e chissà che a sua volta non prepari un’imboscata.
— Lo speri.
— Sono certo che Asseybo ci ha seguìti da lontano, per vedere dove ci hanno condotti. Egli è d’una affezione a tutta prova.
— Che abbia già avvertito la ragazza ed i dahomeni?
— Non ne dubito, Antao. Egli deve essere tornato all’accampamento per concertarsi con Urada.
— Staremo attenti per approfittare della paura e della sorpresa di questi superstiziosi negri che si ostinano a crederci fabbricatori di pioggia. Strana idea che si sono cacciati in capo.
— Non è da farne meraviglia, Antao. Vi sono molti dei loro sacerdoti o stregoni che pretendono di essere fabbricatori di pioggia, come li chiamano questi negri.
— Una professione un po’ difficile.
— Ma fruttifera, Antao. D’altronde quei furboni si prendono molto tempo prima di farla cadere, pretendendo di dover prima cercare delle piante difficili a trovarsi. Finchè fingono di cercare per mesi e mesi, la pioggia finisce col venire e si addossano il merito di essere stati loro.
— Son dei volponi astuti.
— Che sfruttano abilmente l’ingenuità di questi poveri diavoli di negri. Ah!... Ecco la scorta!... Partiamo, Antao, e andiamo a frugare la foresta. Avremo da ridere. —
Il capo, vestito di gala, coll’elmetto adorno di piume, le braccia e le gambe cariche di braccialetti d’avorio e di perle di vetro, e con un sottanino nuovo di color rosso, li attendeva al di fuori, assieme a dodici giovani guerrieri armati di lance e di coltelli.
I due bianchi vuotarono un’ultima zucca di birra e uscirono, dicendo:
— Partiamo. —
Prima però di mettersi in marcia guardarono se i guerrieri portavano le loro carabine e le videro infatti indosso al più giovane della scorta, unitamente alle cartucciere.
La piccola banda lasciò il villaggio con passo sollecito, sfilando fra due ali di popolo, il quale però manteneva un silenzio religioso e s’avanzò fra le alte erbe della pianura, già quasi bruciate dal sole.
La traversata di quel terreno scoperto, dove regnava un calore infernale, essendo appena il mezzodì, si compì senza incidenti e verso le tre pomeridiane il drappello giungeva nella grande foresta.
Dopo un breve riposo, i due bianchi diedero nuovamente il segnale della partenza studiandosi di avvicinarsi al fiume, essendo certi che seguendo il suo corso non avrebbero tardato a giungere in prossimità del loro accampamento.
Pur camminando, per meglio ingannare il capo e la scorta, fingevano di cercare le miracolose piante che dovevano servire ad attirare le nubi, fermandosi di tratto in tratto a frugare certi cespugli e mandando alte grida di trionfo quando riuscivano a scoprire qualche ciuffo d’erbe. Il capo e la scorta, per non mostrarsi meno soddisfatti, mandavano a loro volta acute urla, con grande piacere di Alfredo, il quale era certo, con quel baccano, di attirare l’attenzione di Asseybo e dei suoi uomini.
Verso sera, i due bianchi che avevano raccolte alcune pianticelle, diedero il segnale della fermata presso le rive del fiume, in un luogo che secondo i loro calcoli non doveva essere molto lontano dall’accampamento.
Il capo negro volendo manifestare la sua gioia pel felice esito della spedizione, avendolo ormai Alfredo assicurato che all’indomani avrebbero trovato anche le altre piante, fece fare una larga distribuzione di birra a tutti, vuotando quasi tutte le zucche che aveva fatte portare dalla scorta.
Accesi parecchi fuochi e terminata la cena composta di focacce, miele di api selvatiche, burro e frutta, si accomodarono fra le erbe per gustare un po’ di riposo. Quattro guerrieri dovevano però vegliare per turno per tener lontano le fiere, ma soprattutto per impedire ai due bianchi di fuggire prima d’aver mantenuta la promessa.
Avevano appena chiusi gli occhi, quando una detonazione improvvisa venne a spargere l’allarme, facendoli balzare tutti in piedi.
— Un segnale di Asseybo?... — chiese Antao ad Alfredo.
— Lo credo, — rispose questi. — Egli ha voluto segnalare di tenerci pronti a tutto.
— Che si prepari ad assalire i negri?
— Giungerebbe in buon punto. Il vecchio capo ed i suoi giovani guerrieri mi sembrano spaventati.
— Stiamo attenti ad afferrare le nostre carabine.
— Il negro che le custodisce non lo lascerò fuggire, Antao.
Mentre così parlavano, il capo ed i suoi uomini si consigliavano, a quanto pareva, sul da farsi. Sembravano assai impressionati e guardavano sospettosamente i due prigionieri.
Forse cominciavano a temere anche essi una sorpresa.
— Uomo bianco, — disse il vecchio negro, avvicinandosi ad Alfredo. — Hai udito?...
— Sì, un colpo di fucile.
— Chi credi che lo abbia sparato?
— Forse qualche cacciatore.
— Ma i negri di questa regione non posseggono armi da fuoco.
— Può essere qualche negro del Dahomey. Tu sai che i soldati di Geletè sono armati di fucili.
— È vero, ma Abomey non è vicina. Cosa mi consigli di fare?... —
Alfredo stava per dargli qualche risposta, quando tutto d’un tratto, in mezzo ad un fitto macchione di cespugli, si vide balenare una luce intensa, seguìta da una detonazione così formidabile che pareva dovesse crollare l’intera foresta.
I negri della scorta ed il loro capo si sentirono atterrare da una spinta irresistibile, ma subito si rialzarono, fuggendo in pieno disordine da tutte le parti, gettando via le armi e mandando urla di pazzo terrore.
Alfredo ed Antao, passato il primo istante di sorpresa, erano pure balzati in piedi, tenendo però in pugno le loro carabine che erano state abbandonate sul terreno.
Stavano per fuggire verso il fiume, quando udirono una voce gridare:
— Presto, padrone!... Qui, venite qui!... I cavalli sono pronti. —
Si volsero e videro Asseybo, seguìto da uno dei due dahomeni.
— Tu!... — esclamarono, correndogli incontro.
— E chi volete che fosse stato a far scoppiare quella mina?...
— Una mina?...
— Di due chilogrammi di polvere. Era l’unico mezzo per spaventare quei negri e metterli in fuga.
— Ci avevi dunque veduti?...
— Vi avevo seguìti sempre, padrone; spicciamoci prima che i negri tornino. —
Si slanciarono tutti e quattro attraverso la foresta e giunti in una radura, trovarono i cavalli già insellati e l’amazzone in arcione.
Senza perdere tempo balzarono in sella e partirono di galoppo, dirigendosi verso l’est.
Tutta la notte continuarono la fuga precipitosa, ma all’alba si arrestavano sul margine della grande foresta, a quaranta e più miglia dal villaggio dei Krepi.
— Credo che ora più nulla abbiamo da temere, — disse Alfredo scendendo da cavallo. Ci fermeremo qui tutt’oggi per prendere un po’ di riposo e per trasformarci in africani, onde poter rappresentare la nostra carica d’ambasciatori del Borgu.
— E quel dannato spione che ci precede?...
— Giungeremo ad Abomey prima di lui, Antao. Ora che so che è zoppo e senza cavallo, non lo temo più. Quando vorrà rivedere Kalani, non lo troverà più vivo. Orsù, amico mio, dormi fino a mezzodì, poi prepareremo la nostra toeletta.
Affranti da due notti quasi insonni, i due bianchi si cacciarono sotto la tenda che era stata subito rizzata dai dahomeni, e dormirono profondamente fino all’ora del pasto.
Dopo una buona scorpacciata di carne di facochero secca, diedero principio alla loro toletta.
Alfredo aveva fatto racchiudere nelle sue misteriose casse tutto l’occorrente per ottenere quella trasformazione, così necessaria soprattutto per lui.
Fece sedere Antao su di uno sgabello improvvisato con alcuni rami, lo denudò fino alla cintola, senza che il bravo portoghese protestasse, poi da una delle casse levò alcune bottiglie contenenti dei liquidi di colore oscuro ed alcuni pennelli.
— Speriamo che quelle bottiglie non contengano dei veleni o dei liquidi corrodenti, — disse Antao, ridendo.
— Sono stati estratti da vegetali perfettamente innoqui, — rispose Alfredo. — Quando però la nostra missione sarà terminata, dovrai consumare del buon sapone, se vorrai ridiventare bianco come prima.
— Così almeno non vi sarà il pericolo di giungere ad Abomey mezzo bianco e mezzo nero. Temevo che il sudore potesse guastare la mia toletta.
— Non dubitare; la tua tinta resisterà all’acqua ed al sudore. Fermo, amico: lasciati dipingere. —
Sturò una di quelle bottiglie, bagnò il pennello e cominciò a tingere, deponendo sul viso, sul collo, sul petto, sulle braccia e sulle mani del portoghese un superbo strato bronzino, ma che aveva dei riflessi rossastri, perfettamente identico al colore della pelle dei negri delle alte regioni e dei rivieraschi del Niger.
Il portoghese lasciava fare, ma di tratto in tratto prorompeva in scrosci di risa, ai quali facevano eco quelli di Urada, di Asseybo e dei due dahomeni.
Essendo quell’operazione stata fatta al sole, bastarono pochi minuti perché il gran calore asciugasse la tinta.
Alfredo, che agiva colla maggiore serietà, appese allora agli orecchi dell’amico due grossi anelli di rame dorato, come usano portare gli indigeni del Borgu, poi gli mise attorno al collo parecchie file di perle rosse ed azzurre, quindi gli appiccicò al mento una barbetta nera piuttosto rada che doveva dargli un aspetto più fiero e gli mise sul capo un ampio fazzoletto rosso annodato sul di dietro, adorno di alcuni ricami e che doveva produrre un grande effetto anche nella capitale del potente Geletè.
— Un negro magnifico!... — esclamarono Asseybo e Urada.
— In tutto il Borgu non se ne troverebbe uno più fiero, né più bello.
— Per Giove!... — esclamò Antao. — Quale disgrazia il non possedere uno specchio, fosse pure di due soldi.
— Forse ad Abomey ne troveremo qualcuno, Antao — rispose Alfredo. — Ti basti per ora sapere che sei il più bel negro dell’Africa equatoriale.
— Hai finito?...
— Non ancora. Bisogna pensare a tutto. Infatti che cosa direbbe Geletè, se tu ti presentassi cogli stivali e le calze?... Occorre essere negri dai piedi alla testa. —
Con poche pennellate anche le gambe ed i piedi del portoghese furono dipinte, poi Alfredo gli fece indossare un paio di corti calzoni di tela bianca stretti alla cintura da una larga fascia rossa, gli mise sulle spalle un ampio mantello pure bianco adorno di fregi rossi che rassomigliava ad un taub arabo o sudanese, e gli fece calzare delle babbucce rosse a punta rialzata.
— Credo ora, — disse il cacciatore, — che tu possa fare una splendida figura ad Abomey; Geletè, non avrà mai ricevuto un ambasciatore simile. Ora aiutami, Antao. —
Mezz’ora dopo anche la sua toletta era terminata e la trasformazione era riuscita così completa, che Antao stesso non l’avrebbe di certo riconosciuto pel suo amico, se non l’avesse dipinto colle proprie mani.
— È impossibile che Kalani ti possa ravvisare — disse il portoghese, stupito. — Tu non sei più un europeo.
— Credi adunque che io possa affrontare quel miserabile, senza il pericolo di venire scoperto?...
— Sì, Alfredo.
— Allora mio fratello è salvo.
— E Kalani è perduto.
— Oh sì, Antao. Quell’uomo non mi sfuggirà, te lo giuro.
— Quanto impiegheremo per giungere ad Abomey?...
— Fra cinque giorni possiamo essere a Kana, nella città santa del regno, dove saremo costretti a fermarci finchè piacerà a Geletè di riceverci nella capitale. Oltrepassato questo bosco non troveremo altri ostacoli, poichè la grande pianura si estende fino a quelle due città.
— È lontana la pianura?...
— Questa sera possiamo accampare sui margini del bosco.
— Allora partiamo.
— Ma come ambasciatori. Possiamo incontrare, da un istante all’altro, delle truppe di Geletè e non bisogna suscitare sospetti. D’ora innanzi marceremo sempre a cavallo come i grandi personaggi del Borgu. —
Avendo consumate parte delle provviste e delle munizioni, le casse vuote furono gettate nel fiume, sbarazzando quindi i due migliori cavalli che vennero adornati di fiocchi rossi e di ricche gualdrappe ricamate in oro.
Anche i negri furono vestiti riccamente, con calzoncini bianchi, fasce rosse, mantelli arabescati, fazzoletti di seta dai vivaci colori e armati di carabine, compresa l’amazzone che doveva assumere le importanti funzioni d’interprete, potendo passare per un bel giovinotto del Borgu e di porta-parasoli, essendosi Alfredo provvisto anche di due ombrelli rossi adorni di frange, distintivo dei personaggi di sangue nobile e reale.