La Costa d'Avorio/23. L'imboscata dei Krepi
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Capitolo XXIII
L’imboscata dei Krepi
Quando il povero Antao, inzaccherato di fango dai piedi ai capelli, si rialzò per scuotersi di dosso quel sudiciume, invece dell’elefante, vide sull’orlo della trappola Alfredo ed Asseybo, che tenevano nelle mani due rami resinosi accesi.
— Morte di tutti gli elefanti dell’Africa!... — urlò. — Tu, Alfredo?... Un momento di ritardo e ti giuro, amico, che Antao non avrebbe mai veduto il muso di quel furfante di Kalani, nè quello di Geletè!...
— Ma cosa fai in quella trappola!... — esclamò Alfredo, abbassando il ramo per vederlo.
— Cosa faccio?... — rispose Antao, che aveva riacquistato subito il suo buon umore. — Lo vedi, tengo compagnia ai morti.
— Ai morti?... Sei pazzo, Antao?
— Non mi sembra che l’elefante abbia guastato il mio cervello, quantunque m’abbia fatto provare un così cattivo momento, che non lo augurerei nemmeno ad un antropofago. Non vedi che sono in compagnia di tre cadaveri?
— Ma chi ti ha gettato lì dentro?...
— I facucheri.
— I facocheri!...
— Sì, i facocheri come li vuoi chiamare.
— E sei lì dentro da ieri sera?...
— E ci sarei rimasto chissà fino a quando, senza di voi.
— Oh!... Disgraziato amico!...
— Lascia andare i compianti e gettami una corda. Sono imbrattato di fango peggio d’un maiale. Quell’indiavolato elefante aveva una tonnellata di zavorraccia nello stomaco e mi meraviglio che non mi abbia accoppato con quella scarica. Auff! Pareva una tromba marina!... —
Asseybo ed Alfredo si erano affrettati a levarsi le cinture di cotone che portavano ai fianchi, lasciandole pendere nella trappola. Il portoghese stava per aggrapparvisi, ma le lasciò subito andare.
— Non sali?... — chiese Alfredo.
— Aspetta un po’, amico, — rispose Antao. — Vi è la bottega d’un macellaio in questa buca. Che la carcassa della iena rimanga qui a imputridire non m’interessa, ma i due porci voglio portarmeli via.
— Lascia andare, Antao. Durante il nostro assedio ne abbiamo uccisi sei o sette.
— L’assedio?... Oh diavolo!... Io nella buca e voi sul baobab! Non avrei mai supposto che questi brutti porci fossero così ostinati. Tenete saldo!... —
S’aggrappò alle fasce e si lasciò tirare in alto. Quando si trovò fuori da quella trappola, che per poco diventava la sua tomba, forse per la prima volta in vita sua lasciò in pace i pianeti per lanciare un interminabile «oh!...» di soddisfazione.
— Grazie, Alfredo, — disse poi; — ma mi dirai almeno come avete fatto a trovarmi fra questa oscura foresta.
— Te lo racconterò camminando. Affrettiamoci a ritornare al campo, poichè questa foresta mi pare che pulluli di animali feroci. Abbiamo già veduto un leone e due leopardi. Ma come sei caduto in quella trappola da elefanti?...
Il portoghese s’affrettò a raccontargli la sua avventura, che se da principio lo aveva fatto ridere, aveva però finito col farlo tremare.
— Se non giungevate voi, — concluse, — quell’elefante non avrebbe tardato a ridurmi in un ammasso di carne o in una enorme bistecca.
— Ringrazia il caso che ci ha guidati da questa parte ed in così buon punto, — disse Alfredo. — Povero amico!... Che ore angosciose avrai passate in fondo a quella buca.
— Non quanto credi, poichè una parte di quelle ore l’ho passata russando pacificamente. Ma voi, come vi siete sbarazzati dei porci?...
— Abbiamo subito un vero assedio da parte di quegli animali e che è durato fino a sera inoltrata, malgrado le nostre frequenti scariche.
Quando potemmo discendere ci mettemmo in cerca di te, temendo che ti fosse toccata qualche grave disgrazia.
Essendo però le tenebre già calate, ci fu impossibile scoprire le tue tracce, sicchè ci vedemmo costretti ad avanzare a casaccio, sperando di udire la tua voce o qualche sparo.
Avevamo marciato tre ore, scaricando di quando in quando le nostre armi, quando scorgemmo quel vecchio elefante e udimmo il tuo grido. Con due scariche lo mettemmo in fuga, lanciandogli dietro una torcia per spaventarlo vieppiù; e il resto lo sai.
— Ed al campo non siete tornati?...
— No, Antao.
— Saranno inquieti per la nostra prolungata assenza.
— Ci crederanno occupati a cacciare i grossi animali all’agguato. Affrettiamoci, amico; devono essere già le due antimeridiane.
— Ma dov’è il campo?...
— Odo il fiume scorrere alla nostra destra. Seguendolo non ci smarriremo.
— Ma i vostri porci dove li avete lasciati?...
— Ne abbiamo appesi due ai rami del baobab per sottrarli ai denti degli sciacalli e delle iene, in quanto agli altri non troveremo che gli scheletri. —
Piegando a destra trovarono ben presto il fiume che doveva guidarli all’accampamento, secondo i loro calcoli. Le sue rive però erano coperte d’una vegetazione così fitta, da impedire a loro di poterlo costeggiare, sicchè si videro costretti a rientrare nella foresta, dove potevano trovare dei passaggi meno faticosi.
Dopo un breve consiglio si erano rimessi animosamente in marcia, ansiosi di giungere all’accampamento dopo tante ore d’assenza, quando furono bruscamente arrestati da una grande ombra che s’avanzava lentamente, muovendo loro incontro.
— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — È un altro elefante che viene a romperci le tasche?... È proprio scritto che questa notte dobbiamo fare dei cattivi incontri?... Comincio ad averne fino ai capelli, delle bestie africane.
— Non ti sembra che sia un elefante, — rispose Alfredo, che si era arrestato dietro il tronco d’un grosso albero. — Stiamo in guardia, amici, perchè temo che quella massa enorme sia un rinoceronte.
— Od un ippopotamo in cerca di cibo?... — disse Asseybo. — Il fiume è vicino, padrone.
— Credo che tu abbia ragione. Se si trattasse d’uno di quei brutti rinoceronti, a quest’ora ci avrebbe caricati.
— Cosa facciamo? — chiese Antao. — Se è un ippopotamo, lasciamolo pascolare a suo comodo.
— Ma mi pare che si occupi più di noi che delle radici che costituiscono il suo piatto favorito. Non vedi che si dirige proprio qui?...
— Sarà un curioso.
— Ma un curioso pericoloso, Antao.
— Lo saluteremo con una buona scarica.
— Stiamo prima a vedere cosa farà. Mi pare che non abbia intenzioni cattive, almeno per ora. —
Veramente quell’ippopotamo, tale almeno doveva essere a giudicarlo dalla sua andatura pesante ed incerta, pareva che non avesse idee bellicose, poichè continuava placidamente la sua marcia, semituffato fra le alte erbe che crescevano sotto gli alberi.
Doveva aver scorto i tre uomini od udite le loro voci, pure continuava ad avvicinarsi all’albero dietro a cui si tenevano celati, senza però affrettarsi e con certi movimenti così impacciati che facevano ridere il portoghese.
— Questa è strana!... — esclamò ad un tratto Alfredo. — Simili animali, quando sono a terra, evitano l’incontro degli uomini o li assalgono con furore, mentre questo non s’inquieta. Se continua ad avanzarsi, fra mezzo minuto sarà qui.
— Vuole farsi fucilare a bruciapelo, — disse Antao, che aveva armata la carabina.
— Mi sembra però... Toh!... Guardalo bene, Asseybo. Ti sembrano naturali le sue mosse?...
— No, padrone, ma mi viene un sospetto.
— E quale?
— Che quell’animale sia gravemente ferito.
— Comincio a crederlo anch’io.
— Ah!... —
L’ippopotamo che qualche istante si era arrestato, come se le forze gli fossero venute meno, tutto d’un tratto si era coricato al suolo, rovesciandosi pesantemente su di un fianco. Pareva che fosse morto, poichè non si udivano più scrosciare le foglie.
— È spirato, — disse il portoghese. — Che abbia ricevuto qualche grave colpo di lancia?...
— È possibile, — rispose Alfredo. — I negri di queste regioni, assalgono sovente questi mostri, per fare delle scorpacciate di carne succolenta.
— In tal caso andremo a tagliare un pezzo di questa bestia per la nostra colazione.
— Sì, ma dopo che ci saremo assicurati della sua morte, — rispose il cacciatore.
S’avanzò di dieci o dodici passi guardando l’enorme massa che conservava una immobilità assoluta, poi puntò il fucile mirando la testa e fece fuoco.
L’anfibio ricevette la scarica, ma non si mosse.
— È morto, — disse Alfredo. — Possiamo avvicinarlo senza timore. —
Si avanzò verso l’enorme cadavere seguìto dal portoghese e dal negro e si misero a girargli intorno per veder ove aveva ricevuta la ferita.
— Guarda qui, — disse Alfredo. — Mi pare di scorgere una bucatura. —
Entrambi si erano curvati per meglio vederla, essendo l’oscurità ancora fittissima, ma d’improvviso videro quel corpaccio alzarsi bruscamente, mentre si sentivano prendere pei piedi ed atterrare di colpo, prima ancora che avessero potuto far uso delle armi.
Sette od otto individui erano sgusciati di sotto all’ippopotamo e si erano scagliati, con rapidità fulminea addosso ai due bianchi riducendoli all’impotenza mentre due altri si erano gettati contro Asseybo che era rimasto un po’ indietro.
Il bravo servo però, non si era lasciato cogliere di sorpresa. Vedendo sorgere quei misteriosi individui, era balzato prontamente indietro armando precipitosamente il fucile.
— Canaglie!... — urlò.
Con una palla fece stramazzare il primo avversario colla testa fracassata, con un poderoso calcio ben applicato mandò il secondo a gambe levate, poi fuggì attraverso la foresta, inseguito da altri che erano sbucati dai cespugli vicini.
Intanto Alfredo ed il portoghese erano stati in un baleno disarmati e legati strettamente, senza che avessero avuto tempo di opporre la menoma resistenza, tanto era stato rapido l’assalto.
— Morte di Giove, di Urano e di Saturno!... — urlò Antao, tentando, ma invano di spezzare le robuste liane che lo stringevano. — Cosa significa quest’aggressione?... Chi sono questi negri che si nascondono sotto la pelle d’un ippopotamo per prenderci di sorpresa?
— Spero che lo sapremo presto, — disse Alfredo, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo.
Poi rivolgendosi verso i negri che li circondavano, guardandoli in silenzio, chiese loro in lingua uegbè:
— Cosa volete voi da noi bianchi?... Non vedete che non siamo negri?... Sciogliete queste corde e ridateci la libertà od i nostri compagni verranno qui e vi fucileranno tutti. —
I negri invece di rispondere si guardarono in viso l’un l’altro con una certa inquietudine, si scambiarono rapidamente alcune parole, poi si gettarono sui due bianchi e li deposero su di una barella fatta di rami d’albero intrecciati e solidamente legati.
— Furfanti!... — gridò Alfredo, che cominciava a perdere la sua calma. — Cosa fate?... —
Nemmeno questa volta i negri risposero. Otto di loro, i più robusti, afferrarono la barella, la sollevarono sulle spalle e si misero senz’altro in marcia a passo di corsa, seguìti da tutti gli altri che erano armati di lance e che parevano incaricati di proteggere la ritirata.
— Morte di Nettuno!... — urlò Antao. — Cosa significa questo rapimento, Alfredo?...
— Non ne so più di te, mio povero amico.
— Ma chi credi che siano questi?...
— Dei Krepi senza dubbio.
— Che crepino davvero. Ci hanno proprio teso un agguato.
— Ci aspettavano, Antao.
— Nascosti nella pelle d’un ippopotamo!... L’idea è stata almeno assai originale.
— Si vede che ci temevano e che non osavano assalirci di fronte.
— E Asseybo, che l’abbiano preso?...
— Credo che sia riuscito a prendere il largo poichè non abbiamo udito nessun altro colpo di fucile, anzi mi pare d’aver veduto ritornare coloro che si erano lanciati dietro di lui.
— Alfredo!... — esclamò ad un tratto il portoghese, con ispavento.
— Cosa vuoi?...
— Ed il nostro accampamento?... Che questi negri l’abbiano assalito?...
— Non avrebbero mancato di saccheggiarlo ed io non ho veduto nè una cassa nè un cavallo, e poi avremmo udito degli spari.
— Allora questi misteriosi rapitori l’avevano solamente con noi.
— Così sembra.
— Ma cosa vorranno farci?... Ucciderci forse?...
— Non ho questo timore. I negri di queste regioni rispettano gli uomini bianchi e li temono troppo per osare d’ucciderli. Spero che avremo ben presto la spiegazione di questo rapimento. —
Intanto i negri continuavano la loro corsa precipitosa attraverso alla grande foresta. Quei robusti ed infaticabili camminatori, filavano come cavalli lanciati al galoppo, seguendo un sentiero che forse essi soli conoscevano, seguìti sempre da vicino dalla scorta armata.
Ad un tratto giunsero sul margine d’una vasta pianura coperta d’alte erbe. Cominciando a diradarsi le tenebre, Alfredo e Antao, spingendo lontano gli sguardi, scorsero verso il nord un ammasso di capanne che parevano costituissero un grosso villaggio.
— Ci conducono là, — disse Alfredo.
— Dobbiamo essere già ben lontani dal nostro campo, — disse il portoghese, con inquietudine.
— Almeno sei miglia.
— Come farà a ritrovarci Asseybo?... Spero che non ci abbandonerà.
— Sono invece certo che ci segue per sapere dove ci conducono questi negri.
— Che venga a liberarci?...
— Per lo meno lo tenterà, aiutato dai dahomeni e dalla ragazza.
— Ma sai che abbiamo alle spalle due dozzine di negri armati di lance.
— Lo so.
— E che quel villaggio mi sembra ben grosso?
— È vero, ma ti dico che i nostri uomini non ci abbandoneranno. Da questo lato sono tranquillo. —
In quell’istante si udì in lontananza, verso la borgata, la quale era ormai perfettamente visibile essendo già spuntato il sole, un fracasso indiavolato di tamburelli, unito a grida discordi.
Una grossa banda di negri era uscita dal villaggio e muoveva incontro ai rapitori. Anche quegli abitanti erano però armati poichè il sole faceva scintillare numerose lancie.
— Il diavolo mi porti se io ci capisco qualche cosa, — disse Antao. — Pare che quei messeri festeggino la nostra scorta.
— Saranno lieti dell’esito felice della spedizione. —
La scorta, udendo quel fracasso, aveva risposto con alte grida ed aveva affrettata la corsa, impaziente di giungere alla borgata, attorno alla quale si vedevano formicolare masse di negri.
In pochi minuti attraversò la distanza che ancora la separava e s’arrestò dinanzi alle prime capanne, in mezzo ad una folla di negri vociferanti, i quali si accalcavano attorno alla barella con tale impeto da rovesciare quasi i portatori.
Alfredo e Antao si erano alzati guardando tutti quegli uomini ma, con loro grande sorpresa, non videro su tutti quei volti nessuna traccia ostile. Parevano anzi tutti allegri e più disposti a venerare i prigionieri come fossero esseri superiori, che ad usare loro la menoma scortesia.
Alcuni anzi, che erano riusciti a rompere le file della scorta, si erano affrettati ad offrire ad Antao e ad Alfredo delle zucche ripiene di birra di miglio fermentato, dei banani e delle noci di calla.
— Buon segno, — disse il portoghese, che s’era rassegnato.
— Questi negri mi sembrano assai gentili. Che abbiano intenzione di adorarci?...
— Non ci sarebbe da stupirsi, — rispose il cacciatore.
— Disgraziatamente abbiamo troppa fretta e non siamo affatto disposti a farci adorare.
— Vedremo come finirà questa singolare avventura, Antao. —
La scorta, disorganizzata dal primo impeto della folla, era riuscita, distribuendo legnate a destra ed a manca, a respingere tutti quei curiosi ed a fare avanzare la barella.
Fece attraversare ai due prigionieri la via principale della borgata, aprendosi il passo con gran fatica, fra la folla e li depose dinanzi ad una vastissima capanna che sorgeva sulla piazza del mercato, una costruzione assai barocca, terminante in tre cupoloni e circondata da un gran numero di statuette d’argilla bianca rappresentanti uomini, animali e uccelli, probabilmente degli idoli adorati dalla tribù.
Un vecchio negro dai capelli bianchi, dalla pelle incartapecorita vestito con una logora sottana adorna di galloni d’oro sfilacciati, di code di sciacalli e di buoi, col petto ed il collo carichi di collane di perle turchine ed il capo coperto da un elmetto da pompiere, tutto ammaccato, si avanzò verso i due prigionieri e pronunziò un discorsetto, che nè Antao nè Alfredo riuscirono a comprendere.
Dalle sue gesta però s’accorsero che quel minuscolo monarca li trattava con grande deferenza, anzi con molto rispetto.
— Orsù, morte di Giove e di Saturno!... — esclamò il portoghese. — Ti dico, Alfredo, che noi siamo stati rapiti per arricchire la collezione di feticci del capo.
— Ora lo sapremo, — rispose Alfredo. — È impossibile che qui non si comprenda l’uegbè. —
Si volse verso il re negro il quale pareva che aspettasse una risposta e lo interrogò nella lingua usata dai negri della Costa d’Avorio.
— Capo, — disse, — noi non comprendiamo il tuo linguaggio, ma qui vi sarà qualcuno che possa rispondermi.
— Tu parli la lingua dei Popos?... — chiese il vecchio negro con gioia.
— Sì, e sono lieto che tu mi abbia capito. Mi dirai ora il motivo per cui hai fatto rapire noi che siamo uomini bianchi.
— Perchè voi siete due fabbricatori di pioggia. —
Udendo quella risposta, Alfredo non potè trattenere una irriverente risata.
— Hai capito, Antao? — disse. — Credono che noi possiamo fabbricare la pioggia.
— Fabbricare la pioggia?... — esclamò il portoghese, stupito. — Cosa vuol dire ciò?...
— Pare che questi negri abbiano bisogno dell’acqua del cielo per fecondare le loro terre, arse forse da una siccità troppo prolungata e che ci abbiano presi credendo, in buona fede, che noi abbiamo il potere di far accorrere le nubi.
— Bel paese di pazzi!... E così?...
— Vediamo se possiamo far capire loro che hanno preso un grosso granchio. —
Si volse verso il capo che attendeva ansiosamente una risposta, dicendogli:
— Tu hai sognato, vecchio mio. Gli uomini bianchi non hanno mai avuto questo potere. —
Il negro non parve che si indispettisse per quella risposta, poichè rispose con tutta calma e quasi sorridendo:
— L’uomo bianco crede che la mia tribù sia avara e che non voglia compensarlo, ma s’inganna. Noi daremo a te buoi, pecore, burro e birra di sorgo e di miglio.
— Ti ripeto che gli uomini bianchi non sono mai stati fabbricatori di pioggia.
— Tu vuoi burlarti di noi. Sappiamo che gli uomini dalla pelle bianca sanno fare mille cose che noi non possiamo ottenere.
— Ti ripeto che t’inganni.
— No, perchè l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta, ci ha detto che voi possedete la magia di far tuonare le nubi e cadere la pioggia.
— Di quale uomo parli?... — chiese Alfredo, con viva sorpresa.
— Di un negro il quale è già partito perchè aveva fretta di tornare nel suo paese, nel Dahomey, ma prima di lasciarci ci aveva detto che voi eravate accampati su questo territorio, affermando che solamente voi avreste potuto salvarci dai danni enormi prodotti dalla siccità prolungata ed io vi ho fatti prendere e condurre qui. Volete ritornare nei vostri paesi?... Dateci la pioggia o non lascerete più mai la terra dei Krepi. —