La Costa d'Avorio/22. Assediato in una trappola da elefanti

22. Assediato in una trappola da elefanti

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Capitolo XXII

Assediato in una trappola da elefanti


Prima di avventurarsi sul territorio dahomeno, Alfredo aveva deciso di accordare un riposo di un paio di giorni alla carovana, per non rovinare i poveri animali, già molto affaticati da quelle lunghe marcie compiute sotto un sole bruciante ed in mezzo a mille ostacoli, e per rinnovare le loro provviste essendo già quasi esauste.

Trovando quel luogo molto boscoso, i due cacciatori speravano di abbattere alcuni capi di selvaggina per seccarne la carne, temendo di non trovarne nelle pianure erbose degli altipiani e sapendo di non poter contare sui villaggi che sono molto scarsi nel Dahomey, specialmente nelle regioni occidentali.

Essendo il tramonto ancora lontano, dopo un riposo di qualche ora sotto la tenda, chiamarono Asseybo e s’internarono nella foresta, tenendosi nelle vicinanze d’un fiumicello per sorprendere la selvaggina che doveva accorrere per dissetarsi.

La temperatura era ardentissima anche all’ombra di quei grandi alberi ed eccessivamente snervante essendo umida, ma i cacciatori, quantunque fumassero come zolfatare e si sentissero zampillare il sudore da tutti i pori inzuppandosi le vesti, procedevano egualmente, avendo scoperto, in certi tratti, delle numerose tracce di animali di piccola e grossa taglia.

Asseybo, che come sappiamo era un abilissimo cercatore di piste, aveva già rilevato delle tracce di elefanti, di antilopi, di facocheri e di zebre, animali piuttosto comunissimi in quelle regioni ed i due cacciatori speravano di non ritornare al campo a mani vuote.

Camminavano da una mezz’ora, tenendosi a poche centinaia di metri dal corso d’acqua, quando Antao, che si trovava dinanzi a tutti, s’arrestò bruscamente, mandando un grido di meraviglia, seguìto poco dopo dalla «morte» di tutti i pianeti da lui conosciuti.

— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, armando la carabina. Hai scoperto qualche colossale elefante?...

— Se non è un elefante è un colosso di certo, ma del regno vegetale.— [p. 152 modifica]

Il portoghese si era arrestato dinanzi ad un albero ma d’una mole così enorme, che mai prima di allora ne aveva veduto uno eguale.

Quel colosso della vegetazione, che si rizzava maestosamente, formando da solo una piccola foresta, era tale da meravigliare anche lo stesso Alfredo.

Il suo tronco non aveva più di cinque metri d’altezza, ma era così grosso da averne almeno dieci di circonferenza.

Sopra quell’ammasso di legno si dipartivano dei rami lunghi una ventina di metri, i quali s’incurvavano verso terra formando una cupola immensa, forniti di folto fogliame e sostenenti certe specie di capsule di forma ovoidale, assai acuminate ad una delle estremità e grosse come la testa d’un uomo.

Una numerosa banda di scimmie della specie dei cercopitechi aveva preso stanza fra i rami del colosso, divorando avidamente quelle grosse frutta che dovevano essere molto deliziose pei palati di quei coduti quadrumani.

— Un baobab forse?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Sì, amico mio.

— Ebbene, Alfredo, non credevo che tali alberi avessero delle dimensioni così mostruose. Ma guarda che tronco enorme! Nel suo interno vi potrebbero danzare venti persone.

— Lo credo, Antao, ma probabilmente la sala sarà occupata da funebri personaggi, ben brutti da vedersi.

— Cosa vuoi dire?...

— Voglio dire che forse l’interno sarà occupato da qualche dozzina di negri mummificati, essendovi in questi paesi l’abitudine di servirsi dei tronchi di baobab come di camere mortuarie.

— Sistema niente affatto comodo, se i becchini devono scavare questi colossi.

— Non così difficile come credi, essendo il legno di questi alberi molto tenero.

— E non servono a null’altro, questi giganti?...

— Sì, poichè i negri sanno trarre altri vantaggi da queste piante.

— A me sembra che servano solamente alle scimmie, le quali fanno una vera strage di quelle frutta.

— Sono ricercate anche dai negri. Quelle capsule che vengono comunemente chiamate pane di scimmia, contengono una polpa [p. 153 modifica]di sapore dolcigno e che spremuta ed unita ad un po’ di zucchero, dà una bevanda gradevole, molto indicata per combattere efficacemente le febbri.

— Buono a sapersi in questo paese delle febbri.

— Dalle frutta sanno poi ricavare una cenere ricca di soda e che mescolata ad un po’ d’olio di palma costituisce un buon sapone. Ma anche le foglie e la corteccia, che godono di virtù emollienti, sono largamente usate dai negri per moderare l’eccesso della loro traspirazione.

— È poco per questi giganti. Comunque sia, sono piante meravigliose.

— Ma ve ne sono di più grandi, Antao.

— Più di questa?...

— Alla foce del Senegal si sono misurati dei baobab che avevano l’enorme circonferenza di cento piedi, ossia di trentatrè metri.

— Morte di tutti i pianeti!...

— Il dottor Livingstone, il celebre esploratore dell’Africa meridionale e centrale, ha veduto un baobab scavato, nel cui interno potevano stare comodamente trentatrè uomini e Humboldt ne vide uno nella Senegambia, nel cui tronco una tribù di negri teneva le sue assemblee.

— Questi enormi vegetali devono vivere un bel numero di secoli, Alfredo.

— Adanson afferma di aver studiato dei baobab che dovevano contare cinque ed alcuni seimila anni d’esistenza.

— Corna del diavolo!... Che bella età!... E tu mi hai detto che quell’albero può essere pieno di mummie di negri?...

— È probabile.

— E si conservano bene?...

— Perfettamente, forse meglio delle mummie egiziane.

— Andiamo a vedere, Alfredo. —

S’accostarono all’enorme tronco girandovi attorno per vedere se vi era qualche strappo nella corteccia, ma la trovarono intatta dappertutto.

Stavano per raccogliere alcune capsule lasciate cadere dalle scimmie, onde assaggiarne la polpa, quando Asseybo, che si trovava a quindici passi da loro, nascosto dietro il tronco d’un cedro selvatico, con un leggero sibilo li fece accorrere.

— Cos’hai? — chiese Alfredo. [p. 154 modifica]

Il negro additò loro un macchione di cespugli, i cui rami si agitavano. Quasi contemporaneamente udirono dei grugniti che parevano emessi da una banda di suini.

— Dei porci qui? — chiese Antao, con stupore.

— Credo che siano facocheri, — rispose Alfredo, che pareva esitasse ad impugnare la carabina. — La loro carne vale una palla, ma vi è il pericolo di farci sventrare dalle lunghe zanne di quei cignali coraggiosi.

— Non abbiamo avuto paura dei leoni e dei leopardi e meno ne avremo di quei signori facachi o facuchi che siano.

— Facocheri, Antao.

— Sia pure. Orsù, una buona scarica là in mezzo.

— Temo che siano molti.

— Meglio per la nostra cucina.

— Ma i sopravviventi alla scarica ci assaliranno.

— E noi li respingeremo.

— Giacchè lo vuoi, proviamo. —

In mezzo al macchione si scorgevano, ad intervalli, dei robusti dorsi coperti di lunghe e grosse setole e delle code attorcigliate che si agitavano.

I due cacciatori ed Asseybo piantarono le carabine mirando per alcuni istanti, poi fecero fuoco.

Il fumo si era appena diradato che videro irrompere dai cespugli dodici o quindici brutti cignali, di taglia grossissima, armati di zanne arcuate, lunghe parecchi pollici.

Due caddero dopo pochi passi, ma gli altri, che parevano in preda ad un furore tremendo, continuarono la corsa, scagliandosi impetuosamente sugli assalitori.

Alfredo e Asseybo, che si trovavano vicini ai rami del baobab, i quali, come si disse, si curvavano verso terra, con due salti furono lesti ad aggrapparvisi mettendosi in salvo; ma il povero portoghese, che si trovava più lontano e che forse era rimasto scombussolato da quell’improvviso assalto, si raccomandò alle proprie gambe, fuggendo a precipizio in mezzo alla foresta.

Sette od otto facocheri s’arrestarono sotto il baobab grugnendo rabbiosamente e cercando, con salti disordinati, di mordere le gambe d’Alfredo e del negro, ma altri tre, guidati da un vecchio maschio, si misero dietro al fuggiasco.

Fortunatamente Antao aveva buone gambe e correva come un daino, girando attorno ai tronchi per far perdere tempo ai [p. 155 modifica]feroci animali, balzando agilmente sopra le piccole macchie, guizzando in mezzo alle radici ed alle liane, ma allontanandosi sempre più dai compagni, colla cattiva prospettiva di smarrirsi fra quelle migliaia di vegetali.

Galoppava da una buona mezz’ora, sempre più inoltrandosi nella boscaglia e sempre incalzato dagli ostinati cignali, quando tutto d’un tratto sentì mancarsi il suolo sotto i piedi. Ebbe appena il tempo di mandare un grido, che si trovò, semi-intontito in fondo ad una larga buca.

Non potè subito rendersi conto di quanto era accaduto, poichè nel battere il capo in terra, aveva ricevuto tale scossa, da non sapersi più raccapezzare. Gli parve però di sentirsi cadere addosso una massa pesante, quindi di udire presso di sè un urlo acuto che terminò in un grugnito rauco, strozzato.

— Morte di Giove e anche di Febo!... — esclamò, quando si fu un po’ rimesso.

— Un passo più innanzi e m’infilzavo come questo dannato facafuchero o facafocoro che sia. Si vede che sono ancora un uomo fortunato, dopo tutto. —

Il brav’uomo aveva ben ragione di chiamarsi fortunato, poichè era miracolosamente scampato al più orribile dei supplizi, cioè alla morte col palo.

La sua fuga precipitosa lo aveva condotto sopra uno di quei pericolosi trabocchetti che i negri sogliono scavare per impadronirsi senza correre alcun pericolo, dei grossi animali, come gli elefanti ed i rinoceronti.

Era una buca profonda tre metri, larga e lunga sei, munita nel mezzo d’un aguzzo palo profondamente impiantato e coperta superiormente da uno strato di canne, di terra e di foglie.

Il portoghese, invece di cadere sul palo e terminare la sua esistenza come un turco od un persiano, trasportato dal proprio slancio, era andato a stramazzare in un angolo del trabocchetto; in vece sua si era infilzato il vecchio maschio che gli stava alle calcagna e che ora presentava il comico spettacolo di un maiale enorme, messo allo spiedo intero.

— In fede mia che sta meglio su quella punta questo irascibile porco che io, — disse Antao. — È una vera disgrazia che non vi sia qui della legna per arrostirlo. —

Il suo buon umore si cambiò però in un subitaneo impeto di collera, udendo sopra la sua testa dei grugniti furiosi. [p. 156 modifica]

— Ancora quegli ostinati maiali!... — esclamò. — Ora vi mando a tenere compagnia al vecchio maschio. —

Gli altri tre facocheri, che avevano avuto il tempo di trattenersi dinanzi al trabocchetto, correvano all’impazzata intorno alla buca grugnendo rabbiosamente, come fossero furibondi per non aver potuto vendicarsi del disgraziato portoghese.

Di tratto in tratto s’arrestavano allungando i loro brutti musi verso la fossa e battendo fortemente le loro lunghe zanne che producevano un rumore simile a quello delle mascelle dei caimani allorchè si rinchiudono, poi cercavano di avanzarsi sullo strato di canne mezzo sfondato; ma comprendendo che correvano il pericolo di seguire il vecchio maschio, s’affrettavano a retrocedere.

Antao raccolse la carabina che era caduta in un angolo, ma quando volle caricarla, s’avvide che la fiaschetta della polvere erasi spezzata, spargendo le munizioni sul fondo limaccioso della trappola.

— Morte di tutti i facucheri della terra!... — esclamò dando un calcio alla fiaschetta sventrata. — Eccomi in un bell’impiccio!... Se Alfredo e Asseybo non vengono a liberarmi, quei dannati animali non mi lasceranno uscire da questa dannata buca!... Uscire! Credo che anche senza quei porci non vi riuscirei di certo!... Ma toh! L’idea mi pare buona ed il coltello vi può giungere. —

Senza più occuparsi dei facocheri, i quali d’altronde non potevano giungere fino a lui, si levò la cinghia che gli sorreggeva i calzoni, poi estrasse il coltello da caccia che pendevagli dal fianco, un’arma lunga un buon piede e di una tempra eccezionale, quindi la legò saldamente all’estremità della canna del fucile, formando una specie di lancia.

— Sbarazziamoci per ora dei porci, — disse. — Poi vedremo se vi sarà il mezzo di uscire dalla trappola. —

Guardò in alto e vide i tre facocheri riuniti, i quali lo guardavano coi loro occhietti neri, digrignando i denti e grugnendo.

Allungare rapidamente il fucile e piantare il coltello in mezzo al ventre del più vicino, fu la cosa d’un istante.

L’animale, trapassato fino alla spina dorsale, mandò un urlo acuto e piombò nella buca, dibattendosi fra le strette dell’agonia. Gli altri due, spaventati, fecero un rapido voltafaccia e fuggirono a tutte gambe in mezzo alla foresta. [p. 157 modifica]

— Per Giove! — esclamò Antao, ridendo. — Per poco che la continui, questa buca diverrà la bottega d’un macellaio!... Disgraziatamente è sempre il fuoco che mi manca.

Orsù, cerchiamo di lasciare l’alloggio, per ora. Più tardi manderò i due dahomeni a ritirare i viveri. —

Fece il giro della buca, sperando che in qualche luogo il terreno fosse tanto friabile da permettergli di scavarsi dei gradini, ma s’avvide che quella trappola era stata aperta fra degli strati di natura rocciosa, i quali dovevano opporre una resistenza considerevole.

— Diavolo!... — mormorò il disgraziato portoghese, che cominciava a perdere il suo buon umore ed a diventare inquieto. — Temo di dover passare la notte in fondo a questa umida tana, in compagnia di questi due porci.

Chissà se Alfredo ed Asseybo riusciranno a trovarmi prima che tramonti il sole. In queste foreste è così facile smarrirsi!...

Orsù, bisogna rassegnarsi e fare buon viso alla fortuna. D’altronde una notte passa presto.

Se la fiaschetta non si fosse spezzata e il fondo di questa fossa, invece di essere così limaccioso fosse stato bene asciutto, avrei potuto richiamare l’attenzione di Alfredo con delle scariche, ma bah!... Domani mi ritroveranno. —

Le tenebre calavano rapidamente ed al prigioniero non rimaneva altra prospettiva che di trovarsi un cantuccio per riposare e d’armarsi di pazienza fino all’alba, certo che Asseybo avrebbe ritrovato le sue tracce.

Disgraziatamente il fondo della trappola era una pozzanghera e non era possibile coricarsi su quel fango saturo d’acqua.

— Che debba rimanere in piedi tutta la notte?... — brontolò il portoghese. — Non sono già nè un airone, nè un fenicottero per dormire in piedi. Toh!... Non avevo pensato che posso avere un letto abbastanza comodo!... —

Quella buona idea gli era stata suggerita guardando i due facocheri. Con non poca fatica riuscì a tirare giù quello che si era impalato, poi li trascinò tutti e due in un angolo mettendoli l’uno vicino all’altro e vi si sdraiò sopra, mandando un sospiro di soddisfazione.

— Pare che anche i morti qualche volta possano essere utili, — disse ridendo. — Cerchiamo di chiudere gli occhi e di [p. 158 modifica]schiacciare un sonnellino. Speriamo che finchè dormo qualche stupido elefante non venga a gettarsi nella trappola.

Il sole era allora tramontato da alcuni minuti e la notte era scesa, ma una notte oscurissima, non essendovi luna.

Il portoghese, invitato dal profondo silenzio che regnava nella foresta e vinto dalla stanchezza, non tardò ad addormentarsi profondamente, come se fosse coricato sul più soffice letto di tutto il Portogallo.

Il suo sonno però, dopo alcune ore, fu bruscamente interrotto da scrosci di risa sgangherati che scendevano dall’alto.

— Il diavolo si porti la gente allegra! — esclamò il portoghese, alzandosi di assai cattivo umore. — Pare che si divertano nella foresta. Che ridano della mia disgrazia?... —

Lasciò il suo comodo giaciglio, sul quale contava di russare beatamente fino all’alba e guardò verso l’orlo della buca.

— Altro che gente allegra!... — mormorò. — Sono bestie affamate, che sarebbero ben contente di banchettare col mio corpo. —

Quatto paia d’occhi a riflessi verdastri, che brillavano come quelli dei gatti, erano fissi su di lui, con un’ostinazione da fare accapponire la pelle al più coraggioso cacciatore del continente nero.

Ci volle poco al portoghese, per sapere a chi appartenevano. Erano gli occhi di quattro grosse iene macchiate, le quali accortesi che in fondo alla buca vi erano delle prede, si erano affrettate ad accorrere colla speranza di divorarsele.

Se però la discesa era facile, la salita era difficile e quei ributtanti carnivori non avevano nessuna intenzione di andarsi a cacciare in quella trappola.

— L’ingordigia vi tenta, ma la paura di venire a tenermi compagnia vi trattiene, — disse il portoghese, ormai rassicurato. — D’altronde ho qui uno spiedo che può servire anche contro di voi. —

Le quattro iene, vedendolo alzarsi, si erano ritirate di qualche passo, cominciando un concerto indiavolato a base di scrosci di risa tutt’altro che gradito per gli orecchi del prigioniero.

Per un po’ Antao pazientò sperando che le iene si allontanassero, vedendo però che si ostinavano a rimanere presso l’orlo della trappola, si rialzò furioso, e salito sui facocheri, vibrò un [p. 159 modifica]terribile colpo di punta all’animale più vicino, squarciandogli il petto.

Le compagne, spaventate da quella brutta accoglienza, s’affrettarono a sbandarsi, mentre quella ferita nell’agitarsi fra le ultime convulsioni, sfondava parte dello strato di canne, precipitando in fondo alla buca.

— Per Giove!... — esclamò il portoghese. — Ecco un altro materasso che mi permetterà d’allungare anche le gambe. Approfittiamone per riprendere il sonno. —

Trascinò il cadavere della iena accanto ai due facocheri e si sdraiò comodamente sul suo letto di morti, ma era destinato che quella notte non dovesse continuare il sonno.

Aveva appena richiusi gli occhi, che un altro concerto più indiavolato lo costrinse a riaprirli. Via le iene erano giunti gli sciacalli, ma in grosso numero e quei furfanti si permettevano il piacere di offrirgli una serenata così strepitosa, da svegliare anche il più ostinato dormiglione della terra.

— Orsù!... — esclamò Antao, che perdeva la sua flemma. — Non vi è caso che mi lascino tranquillo un solo momento. Il diavolo si porti tutte le bestie dell’Africa!... —

In quell’istante gli parve udire una lontana detonazione echeggiare sotto i grandi alberi.

— Che sia Alfredo?... — mormorò. — Giungerebbe in buon punto per fugare questi arrabbiati concertisti. —

Tese gli orecchi, ma le urla degli sciacalli gl’impedivano di ascoltare.

— Mi cercano, speriamo adunque che mi trovino, — disse. — Se questi furfanti stessero un momento zitti potrei, urlando a piena gola, forse farmi udire, ma non cesseranno prima dell’alba. Se potessi pagarli con quattro buoni colpi di spiedo, credo che di simile moneta ne avrebbero abbastanza per andarsene a tutte gambe. —

Salì sui cadaveri cercando di avventare qualche colpo di punta a quella banda affamata, ma quegli animali erano troppo lesti, e meno curiosi delle iene, e si tenevano lontani dall’orlo della buca appena scorgevano l’arma alzarsi verso di loro.

Il portoghese, dopo vari tentativi infruttuosi, dovette rassegnarsi ad ascoltare, di buona o cattiva voglia, quella seconda serenata.

Per più di un’ora quelle lugubri urla risuonarono nella [p. 160 modifica]resta, impedendo al disgraziato prigioniero di udire le detonazioni delle armi da fuoco dei suoi amici, ma poi tutto d’un tratto cessarono.

— Toh!... — mormorò, un po’ inquieto. — Chi può aver interrotto quegli arrabbiati concertisti?... Che sia giunto qualche maestro armato di zanne e d’artigli?... La fuga precipitosa degli sciacalli mi mette dei sospetti, ma prenderò le mie precauzioni. —

Si cacciò dietro ai cadaveri della iena e dei due facocheri che potevano servirgli di barricata, avendoli messi l’uno sull’altro, puntò in alto il suo spiedo e stette in ascolto, cogli occhi fissi sui margini della buca.

Essendo la foresta ridiventata silenziosa, dopo alcuni istanti gli parve di udire un soffio poderoso, seguìto dallo scricchiolìo di alcune foglie secche.

— Qualcuno s’avvicina, — mormorò Antao, che si sentiva imperlare la fronte da alcune gocce di sudore freddo. — Che dopo le iene e gli sciacalli vengano i grossi carnivori?... Bella notte che mi si prepara e tutto per colpa di quei dannati porci. —

Tese nuovamente gli orecchi, ma cercando nel medesimo tempo di rannicchiarsi meglio che poteva dietro ai cadaveri, udì nuovamente il soffio poderoso e le foglie scricchiolare come sotto una violenta pressione.

Poco dopo, un oggetto lungo e grosso, di colore oscuro, scese nella buca, soffiando con tale forza da far rimbalzare l’acqua fangosa. Il portoghese si sentì rizzare i capelli.

— Dio me la mandi buona, — mormorò, facendosi più piccino che poteva. — È un serpente o è la tromba d’un elefante?... —

Guardò in alto e vide ferma, sull’orlo della trappola, una massa gigantesca che spiccava paurosamente fra le tenebre.

Era un elefante di taglia enorme, forse uno di quei vecchi solitari che vivono rintanati in mezzo alle più folte foreste e che sono i più pericolosi di tutti, poichè sono sempre d’un umore intrattabile.

Certo si era accorto della vicinanza dell’uomo ed aveva cacciata la proboscide nella buca, per cercare d’afferrarlo e scaraventarlo contro qualche albero.

— Morte di Urano e di Saturno, — mormorò Antao. — Non [p. Imm modifica] [p. 161 modifica]mancherebbe altro che mi cadesse addosso!... Mi hanno detto che i vecchi solitari sono così cattivi, da scagliarsi contro tutti gli uomini che incontrano. Se la proboscide mi afferra, per me è finita!... —

Vedendo la tromba agitarsi in tutti i sensi e cercare lungo le pareti della trappola, Antao si gettò a terra, tirandosi addosso il cadavere della iena. Sperava in tale modo di non venire scoperto, ma ben presto s’accorse che l’estremità di quella formidabile appendice, cercava d’insinuarsi fra i cadaveri per afferrarlo.

Pazzo di terrore, si sbarazzò della iena e si rifugiò dall’altra parte della buca, impugnando il suo spiedo.

Vedendo la tromba a due passi, con uno sforzo disperato le vibrò un colpo di punta, ma non potè constatare gli effetti di quella coltellata, poichè ricevette in pieno corpo una scarica di fango e d’acqua così impetuosa, da ruzzolare colle gambe all’aria.

— Sono morto!... — urlò.

Quasi nel medesimo istante udì echeggiare, a breve distanza, due spari, seguìti dal barrito formidabile del gigantesco animale.