La Costa d'Avorio/12. La scomparsa dell'amazzone
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Capitolo XII
La scomparsa dell’amazzone
Il mpungu che era uscito dalla macchia, come si disse, si era arrestato su di uno spazio scoperto, come se fosse indeciso fra l’andare innanzi od il ritornare sotto l’ombra oscura degli alberi.
Il suo udito, che è finissimo, doveva averlo già avvertito della presenza degli uomini o per lo meno di nemici forse pericolosi e si era fermato in quella posa che è speciale a tali scimmioni, cioè colle ginocchia un po’ piegate, il dorso curvo e le braccia penzoloni. Pareva che ascoltasse con profonda attenzione, mentre i suoi piccoli occhi, che brillavano in mezzo al pelame quasi nero del suo muso, scrutavano le piante vicine con inquietudine.
Stette così parecchi minuti, poi si lisciò più volte la folta pelliccia grigiastra che sul petto era assai lunga, almeno otto o dieci centimetri, quindi si rimise in cammino, tenendo però il capo rivolto verso l’albero sotto il quale si tenevano nascosti Antao ed il negro, come se avesse indovinato che il pericolo stava da quella parte.
Giunto presso un altro macchione si fermò ancora qualche istante, fissando sempre l’albero, poi volse le spalle e scomparve definitivamente sotto la cupa ombra dei macchioni.
— Se n’è andato, — disse Asseybo, respirando liberamente.
— Sì, — rispose Antao, con un po’ di rincrescimento. — Avrei però preferito che si fosse avvicinato al nostro albero.
— Per farci uccidere?... Era un vecchio maschio e quelli sono pericolosissimi, padrone.
— Come sai tu che era un vecchio maschio?
— Perchè aveva il pelame grigiastro, mentre i giovani lo hanno bruno più o meno oscuro.
— Spero però di ucciderlo egualmente.
— Non toccarlo, padrone.
— Alfredo non lo risparmierà. Domani mattina andremo a scovarlo. —
Potendo la scimmia gigante ritornare da un momento all’altro, il portoghese ed Asseybo affrettarono il passo per giungere presto al campo, onde non accrescere le inquietudini di Alfredo con una prolungata assenza.
Dopo d’aver fatto parecchi giri e rigiri, scorsero finalmente i fuochi del campo scintillare fra i rami della foresta. A trecento passi trovarono Alfredo, il quale stava mettendosi in cerca di loro in compagnia d’un dahomeno, temendo che si fossero smarriti. Informato dell’incontro del gorilla, malgrado il suo provato coraggio, manifestò un po’ d’inquietudine.
— È un vicino pericoloso, — disse. — Amerei meglio che fosse molto lontano.
— Bah! — rispose Antao. — Abbiamo cinque carabine e sapremo metterlo a dovere, se avrà il ghiribizzo di disturbarci.
— Non ne avremo che due, Antao. Sui negri non bisogna contare, avendo troppa paura di quelle formidabili scimmie. Speriamo però che ci lasci tranquilli. —
Cenarono in fretta, avendo deciso di rimettersi in marcia di buon mattino, poi si coricarono sotto le tende, mentre Asseybo ed un dahomeno montavano il primo quarto di guardia.
Si erano però appena coricati, quando in mezzo alla foresta si udì echeggiare una specie di rullo di tamburo, ma assai più sordo, più monotono.
— Il gorilla? — chiese Antao, alzandosi prontamente. — Questo suono l’ho udito ancora questa sera.
— Sì, è il mpungu, — rispose Alfredo, che aveva impugnata rapidamente la carabina. — Pare che sia irritato.
— Che voglia assalirci?...
— Non lo credo, ma non bisogna fidarsi. —
S’alzarono ed uscirono dalle tende. Asseybo ed il suo compagno, spaventati da quel rullo che ben conoscevano, si erano riparati dietro ai fuochi, puntando i fucili verso la foresta.
— Si vede? — chiese Alfredo.
— No, padrone, — rispose Asseybo, — ma pare che non sia lontano.
— Che sia quello che abbiamo incontrato questa sera? — chiese Antao.
— Può essere la sua compagna, — rispose Asseybo.
— È meno pericolosa, ma pur sempre formidabile, — disse Alfredo. — Non spaventatevi e tenetevi vicini ai fuochi. —
Avevano appena pronunciate quelle parole, quando si udì rintronare uno sparo, seguìto poco dopo da un possente ruggito, simile a quello che manda un leone in furore e da un urlo umano ma che subito si spense in un gemito strozzato.
— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Chi è stato assalito?... —
Alfredo, senza rispondere, aveva raccolto un ramo acceso e si era slanciato verso la foresta, portando con sè la carabina. Antao ed Asseybo l’avevano tosto seguìto, per aiutarlo nel caso che l’uomo dei boschi lo assalisse, mentre i due dahomeni, pazzi di terrore, urlavano come se venissero scorticati.
La detonazione era echeggiata a soli tre o quattrocento passi dal campo, era quindi facile giungere sul luogo della lotta. Alfredo, tenendo nella sinistra il ramo acceso che lanciava in aria scintille e nella destra la carabina armata, segnava la via e precipitava la corsa, sempre seguìto dai suoi due compagni.
Si era già allontanato dalle tende quattro o cinquecento metri, inoltrandosi in mezzo alla foresta che diventava sempre più fitta, quando alla luce del ramo che non si era ancora spento, scorse qualche cosa che luccicava fra le foglie secche e le alte erbe.
Si curvò rapidamente e vide che quell’oggetto era la canna di un fucile, ma contorta come se fosse stata una semplice verga di rame.
— È qui che è accaduta la lotta, — disse, gettando all’intorno un rapido sguardo, per assicurarsi da un improvviso assalto.
— Fulmini di Giove!... — esclamò Antao, che lo aveva raggiunto. — Questa canna deve essere stata ridotta in così deplorevole stato dal gorilla.
— Sì, — rispose Alfredo. — Stiamo in guardia, poichè il mpungu può esserci vicino.
— Ecco il calcio del fucile spezzato, — disse Asseybo.
— Lo scimmione lo ha sgretolato come fosse un biscottino, — disse Antao. — Che denti!... Quelli dei leoni non devono essere così robusti. Ma dove sarà il disgraziato proprietario di quest’arma?...
— Lo troveremo presto, — rispose Alfredo. — Badate agli alberi voi; il mpungu può essersi nascosto fra i rami e può piombarci addosso.
— Non temere, — disse il portoghese. — Ho il dito sul grilletto della carabina. —
Alfredo si era spinto innanzi dopo d’aver soffiato sul ramo per ravvivare la fiamma, ma fatti pochi passi si era nuovamente arrestato, gettando un grido d’orrore.
Ai piedi d’un albero, aveva scorto il cadavere d’un negro d’alta statura ed interamente nudo, ma in quale stato orribile era ridotto quel povero corpo. Tutta la pelle del viso assieme agli occhi ed il naso, era stata strappata come da un formidabile colpo d’artiglio: il petto spaccato come da un colpo di scure, mostrava i polmoni ed una spalla dell’infelice portava le impronte sanguinose di larghi denti.
Quel negro doveva essere stato assalito dalla scimmia gigante e dopo d’aver perduto il fucile, la cui palla non era di certo bastata per abbattere il terribile avversario, era stato massacrato a colpi d’unghie ed a morsi.
— È orribile! — esclamò Antao che cominciava a perdere la sua audacia dinanzi a quella prova del vigore mostruoso del mpungu. — Simili quadrumani fanno davvero paura.
— In ritirata, — comandò Alfredo. — Nulla possiamo fare per questo povero uomo.
— Sì, torniamo al campo, padrone, — disse Asseybo. — Il mpungu può assalire i nostri uomini.
— Ma chi sarà questo negro?... — chiese Antao. — Qualche cacciatore forse?...
— Credo invece che sia una delle spie che ci seguono, — rispose Alfredo. — Se il gorilla non gli avesse guastato il viso, avremmo potuto facilmente riconoscerlo se era un dahomeno od un costiero.
— Se era una spia ringrazio la scimmia gigante che ci ha sbarazzati da una di quelle mignatte. —
In quel momento, verso il campo, si udirono urla di terrore, poi due spari ed un nitrire di cavalli.
— Gran Dio! — esclamò Alfredo. — Cosa succede?...
— Il mpungu ha assalito i nostri uomini, — disse Asseybo, impallidendo.
— Al campo!... Al campo!... —
I tre uomini si precipitarono in mezzo alla foresta cercando di non smarrirsi tra quelle migliaia d’alberi, ma dovettero ben presto comprendere che il ritorno non era facile con quella oscurità, tanto più che il ramo si era spento.
Udendo delle grida, che parevano mandate dai loro uomini, allontanarsi verso destra, credettero che il campo si trovasse in quella direzione e si diressero a quella volta, impegnandosi invece in mezzo ad una rete inestricabile di rami, di tronchi, di radici enormi e di liane.
Fortunatamente Asseybo aveva scorto dei bagliori sulla loro sinistra ed immaginandosi che il campo si trovasse invece da quella parte, s’affrettarono a ritornare.
Non si erano ingannati, poichè pochi minuti dopo giungevano in vista dei fuochi accesi dinanzi alle tende, ma con grande sorpresa non trovarono i loro uomini che avevano lasciati a guardia della giovane negra. Anche i cavalli e buona parte delle casse erano scomparse; solamente due animali, forse perchè più solidamente legati, non avevano potuto fuggire.
— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Cosa è accaduto qui? —
Alfredo si era affrettato ad entrare sotto la tenda che era stata riservata alla giovane negra, ma uscì subito, dicendo:
— La donna non vi è più!...
— È impossibile, Alfredo!..
— Ti dico che è scomparsa, Antao.
— Si sarà nascosta nei dintorni.
— Ed anche i dahomeni sono fuggiti, — disse Asseybo.
— I vili!... — gridò Antao. — Ed i cavalli?...
— E le nostre casse, padrone?...
— Possibile che il gorilla abbia portato via tutto?...
— Lasciamo i cavalli e le casse e occupiamoci della donna, Antao – disse Alfredo, con voce agitata. — Temo un’orribile sciagura.
— Che il gorilla l’abbia uccisa?...
— Forse peggio, Antao. Temo che l’abbia rapita.
— Ma noi sappiamo dove ha il suo covo.
— Vediamo se è nascosta innanzi tutto. Le sue ferite, non ancora rimarginate, non devono averle permesso di allontanarsi troppo. —
Stavano per munirsi di rami accesi per mettersi in cerca dell’amazzone, quando videro comparire i due dahomeni. Quei poveri diavoli parevano impazziti per lo spavento, poichè tremavano ancora come se avessero indosso la febbre, ed erano diventati grigi, cioè pallidi, ed i loro grandi occhi manifestavano un vivo terrore.
— Padrone!... — gridarono, vedendo Alfredo. — Il mpungu!
— Dov’è? — chiese il cacciatore.
— È fuggito.
— Ma cosa è avvenuto?... Spicciatevi, parlate.
— Si è avvicinato al campo per assalirci, noi abbiamo scaricate le armi, ma poi abbiamo avuto paura e siamo fuggiti. Se l’avessi veduto come era furibondo!...
— Ma la negra?...
— La donna?... — esclamarono con stupore. — Non è nella tenda?
— No, è scomparsa.
— Allora l’ha rapita il mpungu.
— Ma l’avete veduto a rapirla?...
— No, padrone.
— Allora bisogna cercare il gorilla e ucciderlo, — disse Antao. — Non possiamo lasciare quella disgraziata nelle mani di quell’orribile mostro.
— Un momento di pazienza, Antao, — disse Alfredo. — Non precipitiamo le cose, innanzi tutto. Ditemi: quando il mpungu comparve presso il campo, dormiva ancora la donna?...
— Sì, padrone, — risposero i due schiavi.
— Quando siete fuggiti, l’avete veduta uscire?...
— Non lo sappiamo. Abbiamo avuto tanta paura dei ruggiti del mpungu, che ci siamo dati alla fuga senza più curarci del campo, nè della donna.
— L’avete almeno ferito il mostro?...
— Sì, padrone, poichè perdeva sangue da una spalla.
— Credete che la donna abbia avuto il tempo di fuggire?...
— Non è possibile, padrone. Il mpungu era a pochi passi dai fuochi.
— Asseybo, — disse Alfredo, volgendosi verso il servo. — Ho fatto mettere delle torce resinose nelle nostre casse. Guarda se ne trovi qualcuna.
— Ma dove saranno andate le altre casse?... — chiese Antao. — Ne avevamo dodici e non ne sono rimaste che quattro.
— Avete caricati i cavalli? — chiese Alfredo ai dahomeni.
— No, padrone.
— Ecco un mistero inesplicabile. È impossibile che il gorilla abbia portata via la donna e le nostre casse.
— Che il gorilla avesse dei compagni?...
— È possibile, Antao.
— Ma i cavalli?...
— Avranno avuto paura e saranno fuggiti dopo di aver spezzate le corde, ma più tardi li ritroveremo se non cadono sotto le zanne delle fiere. —
Asseybo intanto aveva trovate alcune torce e ne aveva accese due. Essendo formate di fibre vegetali imbevute di resina, spandevano all’intorno una luce abbastanza viva per potersi avventurare anche sotto quella tenebrosa foresta.
— Voi rimarrete qui, — disse Alfredo ai due dahomeni. — Badate che se lasciate il campo una seconda volta, vi giuro che non rivedrete nè il Dahomey nè Porto Novo. Nulla d’altronde avrete da temere, poichè al mpungu pensiamo noi. Vieni, Antao; andiamo, mio bravo Asseybo. —
Quantunque fossero persuasi che la giovane negra fosse stata rapita dall’orribile scimmione, perlustrarono i dintorni del campo per accertarsi che non si fosse nascosta in mezzo a qualche macchia, ma vedendo l’inutilità di quelle ricerche, si misero in caccia, risoluti a scovare il formidabile avversario.
Asseybo, che aveva maggior conoscenza di tutti dei grandi boschi e che fino ad un certo punto sapeva trovare una via già prima percorsa, si era messo alla testa per condurre i due cacciatori sotto l’albero, su i cui rami aveva veduto il covo del mpungu.
Il momento non era certo propizio per quella caccia pericolosissima, potendo il gorilla sfuggire facilmente alle loro ricerche colla sua preda, favorito dall’oscurità, pure i tre animosi uomini non disperavano della riuscita.
— Aspetteremo l’alba per assalire il mostro, — disse Alfredo al portoghese che lo interrogava, — ma intanto circonderemo l’albero e se il mpungu si decide a scendere, lo fucileremo a bruciapelo. Non possiamo azzardare delle palle ad una certa distanza, poichè con queste tenebre potremmo colpire anche la povera giovane.
— Credi che non l’abbia strangolata?...
— Speriamo che il mostro non abbia sfogata la sua rabbia su quella donna.
— Ma che l’abbia nascosta nel suo nido?...
— Certo, Antao.
— La situazione dell’amazzone può diventare pericolosa. Se il gorilla la gettasse a terra?...
— Non l’abbandonerà, Antao, ma cercherà di certo di portarsela seco nella sua fuga.
— Ed allora se lo uccidiamo mentre si trova in alto, la ragazza cadrà.
— Cercheremo di farlo scendere. È isolato l’albero sul quale avete scorto il nido?...
— Sì, Alfredo.
— Allora abbiamo la speranza di costringerlo a calarsi a terra. Ci siamo, Asseybo?... —
Il negro, che si era bruscamente arrestato, non rispose; pareva che ascoltasse qualche lontano rumore.
— Hai udito qualche grido?... — chiese il portoghese.
— Dei nitriti, — rispose il negro.
— Dove?.. — chiese Alfredo.
— Laggiù, padrone.
— In mezzo al bosco?
— Sì, ma mi parvero assai lontani.
— Saranno i nostri cavalli che cercano di ritornare al campo.
— Lo credo anch’io, padrone... Udite?... —
I due cacciatori tesero gli orecchi, ma invece di nitriti udirono quel sordo rullìo che producono i gorilla, quando si battono il petto.
— Il mpungu, — disse Alfredo.
— E ci è vicino, — aggiunse Antao.
— Spegniamo le torce ed avanziamoci con precauzione. Non bisogna allarmare il mostro od è capace di strangolare la povera giovane. —
Le torce furono spente ed i tre uomini procedendo carponi per non urtare contro i rami bassi degli alberi, poco dopo giungevano sotto un grande sicomoro il quale s’alzava isolato in mezzo ad una piccola radura.
— È lassù, — disse Asseybo, con un filo di voce.
— Sta bene, — rispose Alfredo, con voce tranquilla. — Il mostro non ci sfugge più!