La Cassaria (versi)/Atto quinto

Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO.




SCENA I.

FULCIO, EROFILO, FURBO.


Fulcio.Con queste ed altre parole, che varii
E appropriati gesti accompagnavano,
E che successe mi sono benissimo,
Io posi in tanta paura quel misero,
Che per la terra, or qua or là volgendomi,
Come temessi anch’io, mel feci correre
Dietro gran pezzo. D’ogni poco strepito
Che udiva, più tremava che non tremano
Le foglie al vento; chè il bargel parevali
Sempre aver dietro, e i birri che ’l seguisseno.
Erofilo.Mi meraviglio pur, che conoscendosi
Di ciò innocente, come è senza dubbio,
Sia tanto vil, che non abbia avuto animo
Di comparire.
Fulcio.                      E che? ti par miracolo,
Se già gli avevo detto e persuasogli
Ch’avea il bargel commission strettissima,
Senza inquisizïon, senz’altra esamina,
Preso che fosse, d’impiccarlo subito?
Erofilo.Io non so come sia stato sì facile
A crederti.
Fulcio.                E perchè non dovea credermi?
Conosce ben mio patron, chè vedutolo
Ha altrove ancora; e sa ben che gli è solito
Di far di simil scherzi ad altri simili
A lui; e sa quanto è presto di collera,

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E quanto il nome di ruffiano in odio
Sempre mai gli sia stato.
Erofilo.                                            Pur, sentendosi
Innocente...
Fulcio.                       Che più? Voglio concederti
Che sia, com è, di questo innocentissimo:
Di quanti altri infiniti maleficii,
E d’ogni sorte, pensi che colpevole
Egli sia; del minor de’ quali merita
Mille, e non pur una forca? Gli è il diavolo1
Lasciarsi mettere in prigione, e mettere
Alla tortura un suo par, conoscendosi
Ribaldo: chè se ben d’una calunnia
Si purgasse, anderebbe a gran pericolo
Di scoprire altri delitti, che facile-
mente dannare a morte lo farebbono.
Erofilo.Tu di’ ch’andò a ritrovar alla camera
Caridoro? Come ebbe così animo
Di condurvisi?
Fulcio.                          Io gli diedi ad intendere,
Che ’l signor mio patron voléa che subito
S’impiccasse a ogni modo; e non potendolo
Aver la notte, non voléa si aprisseno
Le porte l’altro giorno; e un bando pubblico
Si dovéa far, sotto pene gravissime,
Che chi sapesse o avesse qualche indicio
Di lui, rappresentasse alla giustizia.
Con queste ciance ed altre senza numero,
A tal disperazion trassi quel povero
Sciagurato, che non è precipicio
Tant’alto al mondo, donde traboccatosi
Non fosse per fuggir. Io poi, fingendomi
Desideroso di salvarlo, diedigli
Per lo miglior consiglio, che ricorrere
Avesse a Caridoro, il qual nascondere
Lo potría, e non avrebbe, come avrebbono
Gli altri, paura, dandogli ricapito,
D’esser punito dal padre; e che essendogli,
Com’era, amico e benigno e piacevole,
Non negaría, finchè un poco la collera

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Si acchetasse del padre, di nasconderlo.
Erofilo.E così ve lo conducesti?
Fulcio.                                          Seppigli
Cicalar tanto, che vel trassi all’ultimo.
Vorrei che innanzi a Caridor vedutolo
Avessi, tutto tremebondo e pallido!
Gli cadean come a fanciullo le lacrime:
Come pregava e supplicavagli umile-
mente ch’avesse della sua disgrazia
Compassïon! le ginocchie abbracciavagli,
Gli baciava li piedi; profferivagli
Non solamente di donar la giovane,
Ma tutto ciò ch’aveva al mondo; ed essergli
Schiavo in eterno.
Erofilo.                                Ah, ah, tu mi fai ridere.
Fulcio.Vorrei che Caridor veduto simile-
mente tu avessi, che molto difficile
Si mostrava, e fingéa temer d’incorrere
In ira al padre, e all’incontro pregavalo
Che andasse altrove, e che non volesse essere
Cagion di porlo a quell’uomo in disgrazia,
Il qual dovéa, più che quant’altri fussino
Al mondo, amare e avere in riverenzia.
Erofilo.Ah, ah.
Fulcio.              Vorrei che me raccomandarglilo
Veduto avessi, e a Caridoro mettere
Partiti e modi innanzi, che, tenendoli,
Senza suo biasmo lo potría soccorrere.
Erofilo.Ah, ah, per dio, saría stato impossibile
Che ritenuto mi fossi da ridere.
Fulcio.Al fine, io diedi per consiglio a Lucramo,
Che facesse venir quivi la giovine,
Perchè meglio potría con la presenzia
Di lei, che con prieghi e profferte, muovere
Ad ajutarlo Caridoro. Piacqueli
Il mio ricordo, e scrisse questa polizza2
Di sua mano, e il suo anel per segnal diedemi:
E così vengo per menar la giovane:
La giunta della qual farà bonissimo
Effetto.

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Erofilo.               Io ne son certo: dunque in camera
Di Caridor l’aspetta3 il ruffian?
Fulcio.                                                     Ve’4 ch’io ti
Lasciavo il meglio! Perchè non lo veggano
Gli altri di casa, mentre vanno e vengono,
Sotto il letto l’abbiam fatto nascondere,
Con tanta tema, ch’io non potrei dirtene
A bastanza: non osa, per non essere
Sentito, pur di respirar.
Erofilo.                                         Ho gaudio
Ch’abbia dell’amor suo così piacevole
Successo Caridoro, e mi si duplica
Quel c’ho avuto io, poi c’ho trovata Eulalia:
Perchè l’affanno e il timor, che grandissimo
Ebbi d’averla perduta in perpetuo
(Chè non potevo pensar chi levatami
L’avesse), fa che ho assai maggior letizia
Poich’io l’ho riavuta, e che renduta me
L’hanno i miei servi, che tolta l’avevano
Credendo farmi piacere e servizio,
Ch’io non avrei avuta se condottami
L’avesse senza altro travaglio il Trappola
Nostro; perchè già buona parte avevomi
In quella certa aspettazion, mettendola
Come già avuta, fruito del gaudio.
Fulcio.E così avvien che i beni più dilettano
Quando con più fatica e più pericolo
Avuti s’hanno, e quando più mancatane
Era la speme.
Erofilo.                        Anco così in contrario,
Il mal che vien quando men tu ne dubiti,
E ch’in mezzo a i piacer si viene a mettere
Nè li lascia far pro, dà più molestia:
Come provo io al presente delle pessime
Nuove che dette m’hai, che non sia a Procida
Ito mio padre, ma tornato; e ch’abbia
Nostra trama scoperta, e fatto mettere
Volpino, il nostro consiglier, in carcere.
Fulcio.Tu potrai medicar questo mal facile-

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mente; chè quattro o sei parole ch’umili
Dichi al vecchio, farai ch’avrà di grazia
Di perdonarti e di far pace. Mostragli
Pur che l’abbi in rispetto e in riverenzia;
Ch’altro da te non vuole: ed è per nascere
Da questa pace, che d’ogni pericolo
Libererai Volpino. Ben, Erofilo,
Tocca a te di salvarlo, e far ogni opera
Per la salute sua. Ci resta un debito
Da soddisfar ancora, e d’importanzia
Non minore.
Erofilo.                      Che debito?
Fulcio.                                           Che Lucramo
Fuggir si facci domattina.
Erofilo.                                             Facciasi
Fuggir questa notte anco.
Fulcio.                                             Ci bisognano
Danari a farlo, ch’almen le due giovani
Se gli paghino il prezzo che gli costano,
E guadagni più tosto che stia in perdita;
Ch’ancor poi che si avvegga ch’uccellato lo
Abbiamo, è per star cheto. Vedi mettere
Cinquanta scudi insieme, e fa che s’abbiano
Ora, se puoi. Da Caridoro voglione
Altrettanti. Con cento scudi mandisi
Via immantinente, e non s’oda altro strepito.
Erofilo.Con ogni altro che meco, pur consigliati
Di questo, chè da me un carlino, un picciolo
Non puoi5 aver.
Fulcio.                              Tu saresti ben povero.
Trova chi te li presti.
Erofilo.                                        Io non ho credito
Di sì gran somma.
Fulcio.                                Gli Ebrei te li prestino,
S’altro amico non hai dove ricorrere.
Erofilo.Che pegni ho io a dar loro?
Fulcio.                                                  Almen trovane,
Se non puoi più, fino a trenta; non perdere
Tempo.
Erofilo.               Io non gli ho, nè so donde trovartili.

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Poichè ’l vecchio è tornato, e che la pratica
Nostra è scoperta, non bisogna mettere
Speranza in me, ch’io lo possa soccorrere
d’un soldo.
Fulcio.                      Che faremo dunque?
Erofilo.                                                       Pensaci
Tu.
Fulcio.       Ci penso pur troppo. Non potrestimi
Darne, quando non più, almen6 fin a quindici?
Ma saríano pur pochi. Questo povero
Ruffian so che non ha un bezzo; e volendosi
Levar con la famiglia, ed anco vivere
Per via, vedi se far può senza spendere!
Erofilo.Non gline posso dar uno: tu trovagli.
Fulcio.Io penso pur donde trovargli.
Erofilo.                                                  Pensaci
Bene.
Fulcio.          Io ci penso tuttavolta, e credoli
Di ritrovar, infin.
Erofilo.                                Tanta fiducia
Ho nell’ingegno tuo, che voglio credere
Che li sapresti far di nôvo nascere,
Se non ne fosse al mondo.
Fulcio.                                             Orsù, su,7 lasciane
A me la cura, chè credo trovarteli
Innanzi che sia mezza notte. Vogliomi
Prima espedir di condur questa femmina
A Caridoro; indi applicarò l’animo
A far da qualche parte i danar nascere.
Qualunque sei ch’entri là dentro, fermati,
Chè ti voglio parlar.
Furbo.                                    Se comperatomi
Avessi, comandar con più arroganzia
Non mi dovresti. Quando ti sia l’opera
Mia di bisogno, viemmi dietro.
Fulcio.                                                  Oh che asino!
Ben di costumi al suo padrone è simile.


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SCENA II.

EROFILO, CRISOBOLO.


Erofilo.(Voglio ire in casa, e far tanto ch’io mitighi
Mio padre; e se non fosse per soccorrere
Volpino, io non vorrei di questi quindici
Giorni venir dove fosse. Ma ecco la
Nostra porta che s’apre. È desso: sentomi
Muovere il sangue, e il côr nel petto battere.)
Crisobolo.Come quest’altri gaglioffi s’indugiano
A ritornar! In nessun lato appajono
Ancora: e dove a quest’ora ponno essere?
Ve’ che saría se un poco discostatomi
Fossi da casa, e due o tre mesi statone
Lontan; chè un giorno solo, nè tutto integro,
Ch’io me ne son levato, a sì buon termine
Trovo me e le mie cose! Ma se ’l perfido
Mai più mi giunta, gli perdono libera-
mente. Deh come ero io ben sciocco a credere
Alle sue ciance!
Erofilo.                              (Io son pur anco in dubbio
S’io debbio o s’io non debbio appresentarmegli.)
Crisobolo.Se tanto saprà far con le sue astuzie,
Ch’esca de’ ceppi ov’io l’ho fatto mettere,
Son contento e gli do piena licenzia
Che me vi faccia mettere in suo cambio.
Erofilo.(Bisogna, in somma, ch’io faccia un buon animo;
Altrimenti, Volpin farà8 malissimo.)
Crisobolo.Oh valent’uom!
Erofilo.                              Tu non sei ito a Procida,
Padre?
Crisobolo.             (Vedi ribaldo, con che audacia
Mi viene innanzi!)
Erofilo.                                Oh mio padre, rincrescemi
E ducimi grandemente, che materia
Io t’abbia dato di turbar.9

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Crisobolo.                                             Erofilo,
Se fosse ver, cercheresti di vivere
Meglio. Va pur, ch’io mel terrò in memoria;
E quando tu penserai che scordatomi
L’abbia, ricorderòttelo.
Erofilo.                                          Perdonami,
Padre, ch’un’altra volta più avvertenzia
Avrò di non darti cagion legittima
Di dolere.
Crisobolo.                   Eh! non mi voler, Erofilo,
Con parole donar quel che ti studii
Levar con fatti. Non avrei sì facile-
mente possuto credere, che d’ottimo
Fanciullo che con tanta diligenzia
Io t’ho allevato, or in adolescenzia,
Or che dovría con gli anni il senno crescere,
Mi riuscissi un de’ più tristi gioveni
E dissoluti che sia in tutto Sibari;
E quando io mi credea che dovessi essere
Baston per sustentar la mia decrepita
Età, mi sei fatto baston per battere
E romper tutto d’osso in osso, e mettermi
E cacciarmi sotterra innanzi il termine.
Erofilo.O padre!
Crisobolo.                 Con le ciance tu mi nomini
Padre, ma poi con gli effetti in contrario
Mi ti dimostri nimico.
Erofilo.                                     Perdonami,
Padre.
Crisobolo.            Se non che pur non voglio offendere
Qui l’onor di tua madre, io diría, Erofilo,
Che non mi fossi figliuol. Non veggo opere
In te, o costumi, che mi rassomiglino
Molto; e molto più caro avrei vedermiti
Simil nelle virtù, che nella effigie.
Erofilo.Padre, l’etade e la poca avvertenzia
M’ha fatto teco in questo errore incorrere.
Crisobolo.Non credi tu che anche io sia stato giovene?
Io, dell’etade tua, quasi continua-
mente veduto ero allato a tuo avolo,
E con molta fatica e con più industria
Lo ajutava amplïar il patrimonio

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E facultadi nostre, che tu, prodigo,
Con tue disonestà, con tue lascivie,
Studi di consumare e di distruggere.
Nella mia giovanezza era il mio studio,
Era il mio intento, era il mio desiderio
D’esser stimato buono appresso gli uomini
Buoni, e con quelli solo avevo pratica,
E mi sforzavo, quanto più possibile
Era, imitarli: ma tu, pel contrario,
Ti reputi a vergogna che ti veggano
Le genti meco; e chi ti vuol, ritrovati
Con ruffian, bevitor, con barri e simili
Tristi; che di vergogna dovresti ardere,
Non che in viso arrossir, che teco fossino
Veduti dagli augei, non che dagli uomini.
Erofilo.Padre, ho fallito; il confesso: perdonami,
E sta sicur che questa serà l’ultima
Volta ch’avrai cagion d’entrare in collera
Meco.
Crisobolo.        Per dio, per dio ti giuro, Erofilo,
Se non ti emendi e non torni al ben vivere,
Io ti farò con tuo danno conoscere
Ch’io mi risento, e ch’io non sono un bufalo,
Come mi par che vi date ad intendere.
Se talor fingo non veder, non credere
Ch’io sia cieco però: farò il mio debito,
Se tu il tuo non farai. Meglio m’è vivere
Senza figliuol, ch’averne un che mi stimuli
Sempre e flagelli, e non mi lasci vivere.
Erofilo.Per l’avvenir mi sforzerò più d’esserti
Ubbidïente.
Crisobolo.                  S’attendi a le buone opere,
Oltre che mi farai cosa gratissima
E quel che ti conviene, maggior utile
Farai a te, che ad alcun altro: e credimi.


SCENA III.

FULCIO.


Non farò in tutta notte altro servizio
Nè altra cosa, s’io qui la voglio attendere

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Che finisca d’ornarsi. Tu sollicita
Fin ch’io ritorno;10 altre cose m’importano
Non men, chè sarà meglio di espedirmene
Intanto. O quanto, quanto tempo11 perdono
In vestirsi e lisciarsi queste femmine!
Aspetta, aspetta pur: mai non ne vengono
A fin. Trecento spilletti han da mettersi
Intorno, a ciaschedun de’ quali mutano
Trecento volte loco, nè li lasciano
Poi fermi ancora. Ogni capello voltano
In cento guise, nè ancor si contentano,
Nè ancor così lo lasciano. Poi vengono
A i lisci: or qui ti voglio, oh pazienzia!
L’uno col bianco e poi col rosso mettono,
Levano, acconcian, guastano; cominciano
Di nuovo: più di mille volte tornano
A rivedersi nello specchio. Oh che opera
Lunga in pelarsi le ciglia! oh che industria
In rassettarsi le poppe, che stiano
Sórte per forza, e giù fiacche non caschino!
Che fan col coltellin, che con le forbici
All’ugne, e che coi saponetti liquidi
E limoni alle mani? Un’ora vogliono
A lavarle, ed appresso un’altra ad ungere
E stropicciarle, perchè stieno morbide.
A stuzzicarsi i denti quanto studio,
Quanto a fregarli con diverse polveri
Si mette! Quanto tempo, quanti bossoli,
Quante ampolle e vasetti, quante tattare
Che non saprei contar tutte, s’adoprano!
In minor tempo si potría un navilio
Armar di tutto punto. Ma che diavolo!
Se s’ha da dir il ver, perchè riprenderle
Si dee che ’l proprio loro instinto seguono,
Il qual è di cercar con ogni studio
Di parer belle, e supplir con industria
Dove manchi natura? Ed è giustissimo

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Desir, perchè non hanno altro, levandone
La beltà, che le faccia riguardevoli.
Ma che diremo noi de’ nostri gioveni,
Che per virtù s’avríano a far conoscere
Ed onorare? Il tempo che dovríano
Spender per acquistarle, anch’essi perdono
Non meno in adornarsi, e fin a mettere
Il bianco e il rosso. Fan come le femmine
Tutte le cose: han lor specchi, lor pettini,
Lor pelatoi,12 lor stuccetti di varii
Ferruzzuoli13 forniti; hanno lor bossoli,
Lor ampolle e vasetti: son dottissimi
In compor, non eroici nè versi elegi
Dico, ma muschio, ambra e zibetto: portano
Anch’essi i faldiglini, che li facciano
Grossi ne’ fianchi, e li giubboni empiendosi
Di bambagia nel petto, si rilievano;
E con cartoni o feltri si dilatano,
E fan larghe le spalle come vogliono:
Molti alle gambe, che si rassomigliano
A quelle delle grue, con doppie fodere
E le cosce e le polpe anco si formano.14
Sì che, se in adornarsi s’ha da perdere
Tempo, gli è più escusabil quel che perdono
Le donne: e però è giusto, ch’io dia comodo
Di polirsi a Corisca; e questo spazio
Di tempo io spenda in assalir Crisobolo,
Il qual spero di far non meno arrendere,
Ch’abbi fatto il ruffiano. Orsù, l’esercito
Delle menzogne venga innanzi, e diasi
Il guasto a questo vecchio tenacissimo.
Convien che mi si faccia tributario,

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Ogni modo.15 Fortuna, sii propizia,
Ch’io ti sarò del voto raccordevole:
Concedi che sia tutta questa gloria
Mia sola. Innanzi, innanzi: accostar vogliomi
Alle porte nemiche, e percotendole,
Far improvviso sbigottir le guardie.


SCENA IV.

SERVIDORE, FULCIO, CRISOBOLO.


Servidore.Chi picchia qui?
Fulcio.                              Fa saper a Crisobolo,
Ch’io sono un servidor d’un suo amicissimo,
Che vô parlargli per cose che importano.
Servidore.Se tu gli vuoi parlar, perchè non entri tu
In casa?
Fulcio.                 Per qualche rispetto vogliolo
Aspettar qui di fuor; nè gli ha da increscere,
Se m’ode, di aver preso questo incomodo.
Crisobolo.Chi è che a questa ora mi vuol?
Fulcio.                                                       Perdonami
Se disagio ti do, chè chi mandatomi
Ha a te, non vuol ch’io mi lasci conoscere
Da questi tuoi di casa, nè che sappiano
Chi a te mi manda. Fa pur che ritornino
Dentro.
Crisobolo.               Tornate in casa, ed aspettatemi
Costì. Tu di’ quel che hai da dirmi.
Fulcio.                                                          Mandami
A ritrovarti il mio patrone giovene,
Figliuol del capitano di giustizia,
Il qual per buona e fraterna amicizia
Che ha con tuo figliuol, ti osserva ed amati
Come padre; e perciò dove farti utile
Egli possa ed onor, e schivar biasimo,
Non è mai per mancar.
Crisobolo.                                        Io lo ringrazio,
E sempre gli ne sono obbligatissimo.

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Fulcio.Or odi. Uscía di casa ora per irsene
Un poco a spasso, come usano i giovini,
Ed io veniva seco, e per bonissima
Sorte, appiè delle scale rincontrammoci
In un certo ruffiano, il qual dice essere
Tuo vicino.
Crisobolo.                  Che poi?
Fulcio.                                   Veniva in collera
Gridando, e di te molto lamentandosi,
E di Erofilo tuo con certi ch’erano
Seco.
Crisobolo.          E che sapea dir?16
Fulcio.                                      Volea venirsene
Diritto al capitano di giustizia,
Se Caridoro nostro ritenutolo
Non avesse, a dolersi, e fargli intendere
Certa barattería che par che Erofilo
Tuo gli abbia fatta; che se, come dettoci
Ha, fosse vera, sarebbe di pessima
Sorte.
Crisobolo.          Or pon mente, se per imprudenzia
Di questo pazzarello apparecchiatomi
Sarà non poco travaglio!
Fulcio.                                           Dicevaci,
Ch’oggi vestito avea a similitudine
Di mercatante un barro, e che mandatogli
L’avea con certo pegno...
Crisobolo.                                           Ve’ se ’l diavolo
Ci sarà ancora!
Fulcio.                           Il qual pegno lasciandogli,
Il barro gli avea tolta una sua femmina.
Io non l’ho inteso appunto, chè mandatomi
Ha Caridoro in fretta ad avvisartene.
Crisobolo.Noi gli siamo obbligati: ha fatto uficio
Di gentiluomo e d’amico.
Fulcio.                                          I dui ch’erano
Col ruffian, come ho detto, par che vogliano
Per lui testificar, e darti carico.
Crisobolo.E che carico dar mi pònno?
Fulcio.                                                  Dicono
Che ’l barro è in casa tua, e di tua scienzia

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Questo giunto ordinò.
Crisobolo.                                     Di mia scïenzia?
Fulcio.Così dicono; e parmi che dicessino
Anco, se ben mi ricordo, che entratogli
Eri tu in casa con gente, e levatogli
Avevi o cassa o forziero. A te spinsemi
In tanta fretta Caridor, che intendere
Non l’ho potuto così appunto. Or mandami
A te il patron, e per me ti significa,
Ch’esso è per far quanto gli sia possibile,
Che non possa il ruffiano aver udienzia
Dal capitan questa notte. Ingegnatevi
Di mitigarlo intanto, e fare ogni opera
Che al signor non si dolga; chè, dolendosi,
Non potrà tuo flgliuol se non ricevere,
Oltra il tuo danno, una vergogna pubblica.
Crisobolo.Che provvisione farci, che rimedio
Poss’io?
Fulcio.                Fargli17 restituir la femmina.
Crisobolo.Non si può, chè non l’ha, nè sa chi tolta gli
L’abbia.
Fulcio.                Questo è gran mal.
Crisobolo.                                                Non potrebbe essere
Peggio.
Fulcio.            E come farem, dunque?
Crisobolo.                                                     Che domine
So io? Non è il più sfortunato e misero
Uomo al mondo di me.
Fulcio.                                      Il miglior rimedio
E più breve sarà, che la sua femmina
Paghi al ruffiano quello18 almen che venderla
Potè altre volte, e lo facci star tacito.
Crisobolo.Strano mi par ch’io debba così spendere
Il mio danajo, ch’io non uso spendere
Se non in cose che mi sieno d’utile.
Fulcio.Non si può sempre guadagnar, Crisobolo:
Benchè però non si può dir poco utile,
Vietar con pochi danar, che gravissimo
Danno, e più biasmo e una vergogna pubblica,
Ti venga addosso. Se verrà a notizia

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Del signor, mio patrone, che ’l tuo Erofilo
Con tal fraude abbia assassinato un povero
Forestiero e disfattolo, a che termine
Ti truovi? Potrai tu sentir inquirergli
Contra? sentir che in ringhiera lo chiamino,
Che gli dian bando? Oltra questo, sovvengati
C’hai nome del più ricco uomo di Sibari,
E che tu a quello a che forse potrebbono
Riparar gli altri con poco dispendio,
Tu non riparerai senza gran numero
Di scudi. Sei prudente, e pômmi intendere.
Crisobolo.Che mi consigli tu?
Fulcio.                                 Il ruffian è povero,
E, come li suoi pari, vile e timido.
Se gli sarà pagata la sua femmina,
Starà cheto: chè già gli ha fatto intendere
Il nostro Caridoro, s’egli litiga
Teco, sarà più il danno suo che l’utile;
Chè tu ti truovi danar senza numero...
Crisobolo.Per dio, son meno assai di quel che credono.
Fulcio.Da poterlo tener tutta in litigio
La vita sua; nè parenti ti mancano,
Nè buoni amici da fargli rincrescere
D’aver cercato di darti molestia.
Crisobolo.Sai quanto si tenesse questa femmina
Cara, o quanto potuto l’abbia vendere?
Fulcio.Odo ch’un mercatante di Tessaglia
Cento quaranta ducati profferti gli
Avea, nè dargli la volle, e chiedeane
Dugento.
Crisobolo.                 È troppo: comprar si potríano
Cinquanta vacche con manco pecunia.
Io non ne son per far altro; lamentisi,
E faccia al peggio che può.
Fulcio.                                             Meravigliomi
Che questi pochi danari...
Crisobolo.                                           A te pajono
Pochi?
Fulcio.            Tu estimi più che ’l figliuol proprio
E che te stesso e l’onor tuo! Tornarmene
Posso al mio patron dunque, riferendogli
Che non ne vuoi far altro.

[p. 210 modifica]

Crisobolo.                                             Non potrebbesi
Con minor spesa acchetarlo?
Fulcio.                                                Potrebbesi
Con un coltel, che s’avría per pochissimo
Prezzo, scannarlo, e così far che tacito
Stesse.
Crisobolo.            Io non dico così; pur gran numero
Dugento scudi o ducati mi pajono.
Fulcio.Io tel confesso: forse accheterebbesi
Per meno. Io credo che se avrà il medesimo
Che già ne potè aver, che starà tacito.
Crisobolo.E non per meno?
Fulcio.                              Io vorria in tuo servizio
Che s’acchetasse con nulla. Perdonami
S’io ti consiglio: pur dirò. Parrebbemi
Che tu mandassi incontinente Erofilo
Meco con quei denar che ti paressino
Bastar: vedrà Caridoro di metterlo
D’accordo col ruffiano, e fargli spendere
La minor somma che gli sia possibile.
Non si potrà schermir: così saremogli
Addosso tutti, che ’l faremo arrendere.
Crisobolo.Or, non è molto meglio ch’io medesimo
Vi venga?
Fulcio.                  Non, secondo il mio giudicio;
Chè se il ruffian ti vede in questa pratica
Sì caldo, crederàssi che giuntatolo
Abbia di tuo consentimento Erofilo;
E con speranza per questo di metterti
Più taglia, arresteràssi e farà l’asino.
Anzi, mi par ch’abbia a venir Erofilo
Solo, con finzïon che non sapendolo
Tu, cerchi questo accordo, e fatto s’abbia
Danar prestar dagli amici; anzi toltogli
All’interesse, con suo grande incomodo.
Crisobolo.Che venga sol? Sì, per dio, che gli è giovane
Molto cauto! in un tratto lascerebbesi
Avviluppare, e tirar come un bufalo
Pel naso.
Fulcio.                Ma di questi che al servizio
Tuo stanno, non ce n’è alcun sì pratico,
Che ti potesse parer buono ad essere

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Con lui? Pur suol Volpin tuo avere il diavolo
In corpo: egli saría pur troppo idoneo
A questo, nè il miglior potresti eleggere.
Crisobolo.Quel ladroncel? esso è stato potissima
Cagione, è stato la guida, il principio
Di questo mal, di tutto questo scandalo.
Io l’ho cacciato in ceppi, e mi delibero,
Per dio, di castigarlo come merita.
Fulcio.Deh non lasciar, Crisobol, che la collera
Ti vinca e offuschi la ragione: mandalo
Con tuo figliuol: non puoi far meglio; e credimi.
Crisobolo.È il maggior tristo.
Fulcio.                                 Tanto è più a proposito
Tuo in questo, quanto gli è più tristo. Mandalo
Ogni modo, chè non potresti scegliere
Fra mille il più sufficïente; mandalo
Con tuo figliuolo, e fa che vengan subito.
Crisobolo.Ancorchè sia quel che gli è, e ch’io ’l desideri
Di castigar, pur mi è forza ricorrere
A lui; perchè fra quanti altri mi servono,
Non ci conosco un che sapesse mettere
Insieme due parole che ben stessino.
Dio sa che mi rincresce fin all’anima!
Fulcio.Lascia andar: ben potrai con più tuo comodo
Dell’altre volte castigarlo.19
Crisobolo.                                              Duolmene,
In somma, e molto mi par duro a rodere
Quest’osso. Ma non ti partir: aspettali
Un poco qui: vô ch’ambi teco vengano.
Fulcio.Va, ch’io gli aspetto. — Or mi convien ben debita-
mente il trionfo: or convien ben che cintomi
Sia questo capo, pien di sapïenza,
Di corona di lauro; poichè rompere
Ho saputo i nemici e in fuga volgere:
Ho rotto e guasto lor ripari, e entratovi
Per forza; ho prese le fortezze ed arsele;
Gli ho saccheggiati e messi a taglia, e fattili
Di più somma al mio fisco tributarii,
Ch’io non ebbi speranza da principio,

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Senza alcun danno di me e del mio esercito.
Non mi resta or se non sciormi dall’obbligo
Ch’io ti feci, Fortuna, succedendomi,
Come successa mi sei, favorevole,
Di star in onor tuo questi continui
Tre dì imbriaco, e di vino più putrido20
Che mai Moschino o li compagni21 fossino.
Ma ecco s’apre l’uscio: forse Erofilo
E Volpino saran. Già non mi pajono
Dessi: ma chi è quest’altro? Or riconoscolo,
Gli è il nostro mercatante, in cui miracolo
La santa fune dimostrò, che sciogliere
Gli fe la lingua e non esser più mutolo.


SCENA V.

TRAPPOLA, FULCIO.


Trappola.Non sarà mai più ver che, con pericolo
d’averne io danno, faccia altrui servizio.
Non è per me nè per la trascuraggine
Di Volpin già mancato, che non m’abbiano
Mandato al capitano di giustizia,
Legato come un ladro; il qual se avutomi
Avesse, non potea mancar di mettermi
Immantinente alla fune, e di darmene
Duo tratti prima che volesse intendere
Altra cosa da me: poi domandatomi
N’avrebbe tante e tante, e pur facendomi
Cantare in aria a guisa delle lodole...
Fulcio.(Costui si appone.)
Trappola.                                   Ch’andava a pericolo
Di non poter mai più riveder Napoli:
Ancorchè forse levato mi avrebbono
Tanto da terra, che già non dovríano
Il guardar da lontano impedir gli arbori.
Fulcio.(Fu buona sorte che così passarsene,

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Senza fargli altro, volesse Crisobolo.)
Trappola.Ma poichè questa volta, buona femmina,22
Ne sono uscito, più non mi ci cogliono.
S’io vorrò altrui giuntar e far tristizie,
Per me lo vorrò far, e non per utile
d’alcun.
Fulcio.                (Non è però pentito d’essere
Tristo, ma solo di far le tristizie
Senza profitto.)
Trappola.                          Nè pur guadagnarmene
Posso una cena. E perchè disegnatomi
Ben avéa23 di godere e stare in gaudio
Sin all’alba del giorno...
Fulcio.                                        (Non riescono
Sempre i disegni)
Trappola.                                E perchè troppo24 in ordine
L’appetito ho stasera, più rincrescemi:
Chè s’io torno all’albergo, do materia
A quel gaglioffo villano di ridere
Di me. E pur, son forzato di ridurmivi;
Chè non ho luogo altrove, ove mi pascere.
E, se non che la fame pur mi stimula,
Non cenerei per non lo far accorgere
Di quel che gli darà piacer grandissimo,
Se lo sa: ma più tosto avrò pazienzia
Che mi dileggi, che la fame a rodermi
Tutta notte abbia e a consumar lo stomaco.
Fulcio.(Credo sia il meglio, chè la fame supera
Ogni altro mal: non è tanto pericolo
L’esser beffato e dare altrui da ridere.
Ma ecco, sento che le porte s’aprono,
E li soldati miei veggo, che carichi
Di ricca preda al capitan ritornano.)


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SCENA VI.

VOLPINO, EROFILO, FULCIO.


Volpino.Io vederò di farlo restar tacito,
Non dubitar, per quel men che possibile
Sarà; e spero di far più che se proprio
Tu ci venissi anco in persona. Lasciane
A me la cura pur: so che dell’opera
Mia ti contenterai. Ma veggo Fulcio.
Erofilo.Dov’è?
Volpino.               Vedilo là.
Erofilo.                               Lo veggo. O Fulcio,
Quando mai ti potrem riferir25 grazie
Degne e convenïenti al benefizio
Che fatto ci hai? Se tutto in tuo servizio
Ponessi ciò c’ho al mondo, anco parríami
Poco, e ch’io non soddisfacessi all’obbligo
Ch’io t’ho infinito.
Fulcio.                                Assai mi basta, Erofilo,
Che mi faccia buon viso.
Volpino.                                          O mia infallibile
Speranza, o mio rifugio, o mia vera, unica
Salute! Fulcio, tu m’hai di grandissimo
Travaglio tolto, ed hai di crudelissimi
Tormenti liberato questa povera
Vita; la qual io son per sempre mettere
A tutti i cenni tuoi.
Fulcio.                                  Queste son opere,
Questi sono servizi che si prestano.
Volpin, non ne dir più. Ti par, Erofilo,
Ch’abbia saputo trovare e far nascere
Danar, come io promisi, in abbondanzia?
Erofilo.E più di quelli ancor che bisognavano.
Volpino.Or se tu n’hai più del bisogno, rendili
Al tuo padre.
Erofilo.                       Non farò già.
Fulcio.                                                Nè Fulcio
Ti dà questo consiglio.
Erofilo.                                      E meno io prendere

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Lo vorrei.
Fulcio.             Saran buoni quei che avanzano,
Da farti qualche giorno con Eulalia
Tua goder.
Erofilo.                  Quanti a Lucramo vogliamone
Dar?
Fulcio.        Quei che potrem manco. Ci ha a concorrere
Per la metade Caridoro.
Erofilo.                                          Pigliali,
E fanne quel che ti par.
Fulcio.                                          Anzi portali
Teco, chè tosto ch’abbi questa giovane
Condotta a Caridor, a trovar vengoti
A casa di Galante.26 — Or ritornatevi,
Brigata, a casa; perchè questa giovene
Ch’io son per menar meco, non vuol essere
Veduta, chè le par forse che in ordine
Non sia a suo modo; d’ornamenti dicovi,
Perchè nel resto non è men che siano
Da ogni tempo l’altre donne in ordine:
E dovendo il ruffiano anco fuggirsene,
Non vuole, e non sarebbe a suo proposito,
Che lo vedesse tanta moltitudine.


Note

  1. Vedi la nota al luogo corrispondente della Commedia in prosa (p. 49).
  2. Nell’ediz. del Giol.: polliza.
  3. Alcune stampe hanno t’aspetta. Ad ogni modo, è da intendersi Fulcio insieme con la giovane.
  4. Ed. Giol.: va; che egualmente intendesi per Vedi o Guarda.
  5. Ed. Giol.: Non potrai.
  6. Più al, in una sola sillaba. Dura elisione: ma così hanno tutte le stampe.
  7. Alcune moderne stampe: Orsù, sì.
  8. Così l’edizione del Giolito; ed è lo stesso che: la farà. Non so con quale autorità i moderni sostituirono: Volpino andrà.
  9. I moderni fecero, senza bisogno: di turbarti. Il caso medesimo ci occorre dopo sei versi, ove leggesi nelle migliori stampe: darti cagion legittima Di dolere; mutato dal Molini e da altri in, dolore.
  10. Queste parole, che dice nell’uscir della casa di Lucramo, sono rivolte ad alcuno che è colà entro; forse a Furbo. — (Tortoli.)
  11. Così la buona stampa del Giolito, avvertendo che altri, e il Barotti medesimo, omisero il secondo quanto. Dal che la correzione fatta dai più moderni: O Dio, quanto mai tempo.
  12. Ordigni per radere o svellere i peli. — (Pezzana.) — Ed è esempio da aggiungersi al Vocabolario, che un solo ne ha di senso diverso, e figurato.
  13. Se così è, come nel più delle edizioni, sarà sottodiminutivo di Feruzzo. Il Giolito legge Ferracciuoli, che considerato lo scambio solito in quella stampa del z in c, darebbe Ferrazzuoli: se non che la quinta lettera può essere errore tipografico.
  14. Ci piace riportare la nota che a questo luogo fece il Pezzana: «Se riflettasi a quanto l’Ariosto riferisce nelle sue Commedie intorno al lusso, alle mode ed alle usanze de’ suoi tempi, la differenza da quelli a questi non parrà tale, da lasciar luogo a’ lodatori dell’antica moderazione. Cangian le forme: la materia d’ordinario è la stessa.»
  15. Non può non porsi mente alla frequenza con che l’Ariosto fece uso di questo modo avverbiale, ch’è pure della lingua parlata, e più fedele rappresentazione del latino omnimode. I moderni editori lo mutarono, il più delle volte, in A ogni modo.
  16. Ediz. Giol.: E che sapea egli dir?
  17. Ed. Giol., certo men bene: Fagli.
  18. Quel tanto.
  19. Così la stampa del Giolito. In tutte le altre questo luogo trovasi così mutato: Lascia or andar, ch’avrai (o, che avrai) tempo più, proprio De l’altre volte castigarlo (o, a gastigarlo.)
  20. Putrido è qui detto dagli effetti del vino, come talvolta dicesi anche Fradicio.
  21. Di questi beoni, come di Ferraresi de’ suoi tempi, parlò l’Ariosto nella Satira I, v. 64: «Ed a messer Moschin pur dia la caccia, A fra Gualengo ed a’ compagni loro, Che metton carestía nella vernaccia.» — (Barotti.)
  22. Il Pezzana ed il Tortoli pongono tra virgole queste parole, che forse fanno parte di qualche locuzione proverbiale, nè sembrano potersi collegare in una sola proposizione col verbo sono uscito.
  23. Così la stampa del Bortoli, seguitata anche dall’ultimo editore fiorentino. La più comune lezione Non avea, pare a noi priva di senso; e un poco arbitraria la correzione del Pezzana: Avea di ben godere. Il quale però avverte giustamente, che questa clausola, come le seguenti del Trappola, sono rette dal verbo rincrescemi, che trovasi tre versi appresso.
  24. Seguitiamo qui pure il Bortoli, benchè il Giolito e il Barotti abbiano: non ho; il Pezzana, il Molini e il Tortoli: bene.
  25. Così nel Giolito. Gli altri: «render le
  26. Nominato nell’atto III, sc. 7, p. 162.