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atto quinto. — sc. ii, iii. 203

E facultadi nostre, che tu, prodigo,
Con tue disonestà, con tue lascivie,
Studi di consumare e di distruggere.
Nella mia giovanezza era il mio studio,
Era il mio intento, era il mio desiderio
D’esser stimato buono appresso gli uomini
Buoni, e con quelli solo avevo pratica,
E mi sforzavo, quanto più possibile
Era, imitarli: ma tu, pel contrario,
Ti reputi a vergogna che ti veggano
Le genti meco; e chi ti vuol, ritrovati
Con ruffian, bevitor, con barri e simili
Tristi; che di vergogna dovresti ardere,
Non che in viso arrossir, che teco fossino
Veduti dagli augei, non che dagli uomini.
Erofilo.Padre, ho fallito; il confesso: perdonami,
E sta sicur che questa serà l’ultima
Volta ch’avrai cagion d’entrare in collera
Meco.
Crisobolo.        Per dio, per dio ti giuro, Erofilo,
Se non ti emendi e non torni al ben vivere,
Io ti farò con tuo danno conoscere
Ch’io mi risento, e ch’io non sono un bufalo,
Come mi par che vi date ad intendere.
Se talor fingo non veder, non credere
Ch’io sia cieco però: farò il mio debito,
Se tu il tuo non farai. Meglio m’è vivere
Senza figliuol, ch’averne un che mi stimuli
Sempre e flagelli, e non mi lasci vivere.
Erofilo.Per l’avvenir mi sforzerò più d’esserti
Ubbidïente.
Crisobolo.                  S’attendi a le buone opere,
Oltre che mi farai cosa gratissima
E quel che ti conviene, maggior utile
Farai a te, che ad alcun altro: e credimi.


SCENA III.

FULCIO.


Non farò in tutta notte altro servizio
Nè altra cosa, s’io qui la voglio attendere