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atto quinto. — sc. iv. 209

Del signor, mio patrone, che ’l tuo Erofilo
Con tal fraude abbia assassinato un povero
Forestiero e disfattolo, a che termine
Ti truovi? Potrai tu sentir inquirergli
Contra? sentir che in ringhiera lo chiamino,
Che gli dian bando? Oltra questo, sovvengati
C’hai nome del più ricco uomo di Sibari,
E che tu a quello a che forse potrebbono
Riparar gli altri con poco dispendio,
Tu non riparerai senza gran numero
Di scudi. Sei prudente, e pômmi intendere.
Crisobolo.Che mi consigli tu?
Fulcio.                                 Il ruffian è povero,
E, come li suoi pari, vile e timido.
Se gli sarà pagata la sua femmina,
Starà cheto: chè già gli ha fatto intendere
Il nostro Caridoro, s’egli litiga
Teco, sarà più il danno suo che l’utile;
Chè tu ti truovi danar senza numero...
Crisobolo.Per dio, son meno assai di quel che credono.
Fulcio.Da poterlo tener tutta in litigio
La vita sua; nè parenti ti mancano,
Nè buoni amici da fargli rincrescere
D’aver cercato di darti molestia.
Crisobolo.Sai quanto si tenesse questa femmina
Cara, o quanto potuto l’abbia vendere?
Fulcio.Odo ch’un mercatante di Tessaglia
Cento quaranta ducati profferti gli
Avea, nè dargli la volle, e chiedeane
Dugento.
Crisobolo.                 È troppo: comprar si potríano
Cinquanta vacche con manco pecunia.
Io non ne son per far altro; lamentisi,
E faccia al peggio che può.
Fulcio.                                             Meravigliomi
Che questi pochi danari...
Crisobolo.                                           A te pajono
Pochi?
Fulcio.            Tu estimi più che ’l figliuol proprio
E che te stesso e l’onor tuo! Tornarmene
Posso al mio patron dunque, riferendogli
Che non ne vuoi far altro.


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