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atto quinto. — sc. i, ii. 201

SCENA II.

EROFILO, CRISOBOLO.


Erofilo.(Voglio ire in casa, e far tanto ch’io mitighi
Mio padre; e se non fosse per soccorrere
Volpino, io non vorrei di questi quindici
Giorni venir dove fosse. Ma ecco la
Nostra porta che s’apre. È desso: sentomi
Muovere il sangue, e il côr nel petto battere.)
Crisobolo.Come quest’altri gaglioffi s’indugiano
A ritornar! In nessun lato appajono
Ancora: e dove a quest’ora ponno essere?
Ve’ che saría se un poco discostatomi
Fossi da casa, e due o tre mesi statone
Lontan; chè un giorno solo, nè tutto integro,
Ch’io me ne son levato, a sì buon termine
Trovo me e le mie cose! Ma se ’l perfido
Mai più mi giunta, gli perdono libera-
mente. Deh come ero io ben sciocco a credere
Alle sue ciance!
Erofilo.                              (Io son pur anco in dubbio
S’io debbio o s’io non debbio appresentarmegli.)
Crisobolo.Se tanto saprà far con le sue astuzie,
Ch’esca de’ ceppi ov’io l’ho fatto mettere,
Son contento e gli do piena licenzia
Che me vi faccia mettere in suo cambio.
Erofilo.(Bisogna, in somma, ch’io faccia un buon animo;
Altrimenti, Volpin farà1 malissimo.)
Crisobolo.Oh valent’uom!
Erofilo.                              Tu non sei ito a Procida,
Padre?
Crisobolo.             (Vedi ribaldo, con che audacia
Mi viene innanzi!)
Erofilo.                                Oh mio padre, rincrescemi
E ducimi grandemente, che materia
Io t’abbia dato di turbar.2


  1. Così l’edizione del Giolito; ed è lo stesso che: la farà. Non so con quale autorità i moderni sostituirono: Volpino andrà.
  2. I moderni fecero, senza bisogno: di turbarti. Il caso medesimo ci occorre dopo sei versi, ove leggesi nelle migliori stampe: darti cagion legittima Di dolere; mutato dal Molini e da altri in, dolore.