L'amante di sè medesimo/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III
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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Sala.

La Marchesa Ippolita.

Non so che cosa m’abbia. Non so che cosa sia.

Mi par questa mattina d’aver melanconia.
Son vedova, son ricca, chi sta meglio di me?
Eppur, per istar bene, mi manca un non so che.
Oh, siamo le gran pazze noi altre sciagurate!
Ci pare una gran cosa quell’esser maritate.
Alfine una fanciulla più di così non sa,
Sagrifica alla cieca la propria libertà.
Ma io, che ci son stata tre anni per disgrazia,
D’una catena simile dovrei esserne sazia.
Eppure mi circondano certi pensieri strani,

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Eppure a maritarmi ritornerei domani.

La libertà è preziosa, so che del cielo è un dono,
Ma ha il matrimonio ancora la sua parte di buono.

SCENA II.

Il Conte e la suddetta.

Conte. Oh signora Marchesa, voi sola in questo loco?

Ippolita. Conte, son malinconica; divertitemi un poco.
Conte. Che ci vorrebbe mai per farvi divertire,
Per rallegrar gli spiriti?
Ippolita.   Non so, nol saprei dire.
Conte. Eh, so ben io, signora, per voi che vi vorria.
Ippolita. Voi mi verrete al solito a dir qualche pazzia.
E poi, se donna Bianca vi sente a dir così,
La vederete il grugno alzar per tutto il dì.
Conte. Donna Bianca è una dama ch’io rispettare intendo,
Ma soggezion di lei per questo io non mi prendo.
Ippolita. Ma quando di una donna l’amor si vuol pretendere,
Signor Contino amabile, da lei si ha da dipendere.
Conte. Dipendere, l’accordo, in cosa concludente.
Non in cose da nulla.
Ippolita.   Dipender ciecamente.
Conte. Io non penso così, signora.
Ippolita.   Poverino!
Se aveste a far con me, caro il mio bel Contino,
Star per amore, o a forza, alla passion dovreste.
Conte. Non ci starei, signora.
Ippolita.   Oh oh, se ci stareste!
Conte. Voi avete un gran merito, lo vedo, lo confesso;
Ma qual faccio coll’altre, con voi farei lo stesso.
Ippolita. Ed io dopo tre giorni, Contin, vi manderei.
Conte. Ed io dopo tre giorni. Marchesa, me n’andrei.
Ippolita. Eh, quando si vuol bene, non si può dir così.

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Conte. A dirlo1 fin adesso amor non m’impedì.

Ippolita. Dunque mai non amaste.
Conte.   Anzi non stetti un giorno
Senza sentir d’amore qualche passione intorno.
Ippolita. Ma che vuol dir, che tante passion cambiate avete?
Conte. Vuol dir, che son le donne un po’ troppo indiscrete.
Ippolita. Che pretendete voi?
Conte.   Dirò la verità:
Un pò’ di soggezione, e un po’ di libertà.
Ippolita. Non mi dispiace, a dirla; mi par la cosa onesta.
Conte. Che spiaccia, o che dispiaccia, la mia ragione è questa.
Dico così, che amore non ci ha da recar duolo.
Pria che con altri piangere, vo’ rider da me solo.
Ippolita. E una massima buona.
Conte.   Pretendono le belle,
Che s’abbia tutto il giorno a sospirar per elle;
Che si stia come statue. Non vedon col pensiero,
Che gli amanti si stancano?
Ippolita.   Non dite male. E vero.
Avete certe regole da farne capitale.
Fra noi, a quel ch’io vedo, non si starebbe male.
Conte. Si starebbe malissimo.
Ippolita.   Perchè?
Conte.   Per la ragione
Ch’io non son uom sì facile da star alla passione.
Ippolita. Oh, mi credete poi sì strana? v’ingannate.
Conte. Io sento quel che dite; non so poi quel che siate.
Ippolita. Son una, che agli incontri accomodar si sa.
Conte. Questa non è, per dirla, cattiva qualità.
Però da voi sentito ho cento volte e cento,
A dir che questi amori non sono che un tormento.
Che niuno in questo mondo legar non vi potria....
Ippolita. Quante cose si dicono così per bizzarria!

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Conte. È vero, e può anche darsi che sia un bizzarro umore,

Volante, passeggero, il dir ben dell’amore.
Ippolita. Il bene, il mal d’amore anch’io distinguo e vedo.
Voi mi piacete assai.
Conte.   Oh, adesso non vi credo.
Ippolita. Perchè?
Conte.   Quando le donne principiano a lodarmi.
Ho subito sospetto che vogliano ingannarmi.
Ippolita. Dunque s’ha da sprezzarvi, per rendervi contento?
Conte. Le donne che mi sprezzano, le pianto sul momento.
Ippolita. Siete un bell’umorino.
Conte.   Son così di natura.
Ippolita. Che sì, che vi fo piangere?
Conte.   Non mi fate paura.
Ippolita. Gli è che, per dir il vero, perdere non vorrei
Per voi la miglior traccia delli disegni miei.
Conte. Volete maritarvi?
Ippolita.   Oh signor Cavaliere,
Ella, con sua licenza, non è mio consigliere.
Conte. Altro ci vuol, signora, che li consigli miei,
Per reggere una donna bizzarra come lei.
Ippolita. Parmi, signor Contino, troppo eccedente il gioco.
Conte. Ma non mi avete detto, che vi diverta un poco?
Ippolita. Signor, io vi consiglio andar da donna Bianca.
Conte. Vi andrei, ma a dir il vero, troppo voler mi stanca.
Ippolita. So pur, che senza amori vivere non potete.
Conte. Ne posso degli amori trovar quanti volete.
Ippolita. Il merito del Conte ne trova da per tutto.
Conte. Un merto troppo sterile non può sperar buon frutto.
Ippolita. Certo, che mai non fruttano, o fruttano assai meno,
Le piante che non durano tre giorni in un terreno.
Conte. Ma se un terren trovassi, che fosse confacente,
Vorrei le mie radici fissarvi eternamente.
Ippolita. Dunque si può sperare vedervi maritato.
Conte. Io non giurai per anche serbare il celibato.

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Ippolita. Fatelo.

Conte.   È un po’ difficile.
Ippolita.   Non ci pensate su.
Conte. Eh, quando è fatta, è fatta, e non si disfà più.
Voi che legata foste, ed or libera state,
Perchè, s’è cosa buona, non vi rimaritate?
Ippolita. Perchè laccio a proposito peno trovare anch’io.
Conte. Ditemi, in confidenza. Sarebbe buono il mio?
Ippolita. Voi scherzate, signore.
Conte.   E a voi preme davvero.
Ippolita. Mi prema, o non mi prema, non deggio a voi svelarlo.
Ma il modo, se ne ho voglia, non mancami di farlo.
Son libera, son giovane, non ho bellezza alcuna,
Ma ho dote, che può fare d’un uomo la fortuna.
Non cercherò un marito nel ceto degli eroi;
Mi basta non trovarlo sprezzante come voi. (parte)

SCENA III.

Il Conte, poi Frugnolo.

Conte. Questo, per dir il vero, se tal voglia ne avesse,

Sarebbe un matrimonio per far il mio interesse.
Ma pria di maritarmi tutto pensar conviene:
Il matrimonio è un laccio. La libertà è un gran bene.
Son solo, e la famiglia vuol ch’io lo faccia, il so;
Ma la catena al piede più tardi che si può.
Mi piace la Marchesa brillante nei pensieri,
Farei l’amore un poco con essa volentieri,
E benchè mostri altera sprezzarmi apertamente,
Mi par, se non m’inganno, piacergli internamente.
Oh, non durerà molto, perch’è una donna scaltra.
Eh ben, son sempre a tempo di ritrovarne un’altra.
Frugnolo. Eccomi qui, signore.
Conte.   Che c’è? Vi è dell’imbroglio?
Frugnolo. Madama commissaria gli manda questo foglio.

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Conte. Sentiam che cosa dice.

Frugnolo.   Se potesse grazianni,
Avrei necessità di presto liberarmi.
Conte. Che cosa vuoi?
Frugnolo.   Mi pare, signor... così all’intorno....
Che m’abbia un altro scudo promesso al mio ritorno.
Conte. E ver, la mia promessa defraudar non voglio2;
Ma lascia pria ch’io legga quel che contiene il foglio.
Vuoi tu, s’ella mi sprezza, ch’io ti regali ancora?
Frugnolo. So io quel che di voi mi ha detto la signora.
Conte. Narrami qualche cosa.
Frugnolo.   Dal foglio sentirete.
Non le par d’esser degna.
Conte.   Dici davver?
Frugnolo.   Leggete.
Conte. Ha un gran brutto carattere.
Frugnolo.   Ha scritto in fretta in fretta.
Potrebbe, verbi grazia, darmi lo scudo?
Conte.   Aspetta.
Signor Conte Illustrissimo. Intendo a discrezione.
Sono serva obbligata; lei sono mio padrone.
Le dico come quando, disse il Signor Lacchè
Vuol esser favorito Vossignoria da me.
Perchè Vossignoria vuol esser favorito,
Ho detto la cagione di questo a mio marito.
E perchè mio marito, ch’è il Signor Commissario,
In casa più non vuole l’Agente temerario.
Perchè lui come quando vidde il signor Lacchè
Del Lustrissimo Conte ha strappazzato a me.
E io gli ho detto Asino, signor Conte Illustrissimo,
E lui è andato in questo subito via prestissimo.
E come quando vuole, le faccio questo invito,
E il Signor Commissario ancora mio marito.

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E scrivo questo foglio, e il Signor Conte mando,

E alla sua bona grazia son serva come e quando.
Se vuol aver l’onore di venire da me;
E condurrà con lui anche il Signor Lacchè.

Che lettera, che lettera da mettere in cornice:
Se tratto questa donna, ho da essere felice!
Io che sol divertirmi cerco qualche momento.
Dove mai trovar posso miglior divertimento?
Prendi, che te lo meriti. (gli dà uno scudo)
  Da madama Graziosa.
Anderò quanto prima.
Frugnolo.   Signore, un’altra cosa:
In fin di quella lettera ha detto, pare a me,
«E condurrà con lei anche il signor lacchè».
Conte. Temerario! Lo so, che voi altri bricconi
Volete essere a parte talor con i padroni.
Se ardirai di por piede mai più su quelle scale,
Affè, di bastonate ti fiaccherò le spalle.
Frugnolo. Non ci anderò, signore, si fidi pur di me.
Quando non mi chiamasse a torcere il toppè. (parte)

SCENA IV.

Il Conte solo.

Ma che diran le dame, se vedon che mi getto

A fare a una pedina la corte a lor dispetto?
Dican quel che san dire; non manco al mio dovere,
Trattando alle ore debite con lor da cavaliere.
Circa all’affetto poi, posso con libertà
Disporre, senza offendere la loro nobiltà.
Donna Bianca è sdegnata, è ben troncar l’impegno,
Che un dì potria condurmi a perdere l’ingegno.
Mi è ancor della Marchesa l’inclinazione oscura,
E madama Graziosa è pronta, ed è sicura.
Credo impiegarla bene un po’ di servitù.
Io bramo divertirmi, senza cercar di più.

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SCENA V.

Il signor Alberto e detto.

Alberto. Amigo, son da vu con delle cosse tante.

Conte. Amico, in questo punto mi ho trovato un’amante.
Alberto. Donna Bianca, gramazza, l’abbandonè cussì?
Conte. Che dice donna Bianca?
Alberto.   La pianze tutto el dì.
Conte. Ecco, codeste lagrime mi seccano all'estremo.
Alberto. Le dise ben le donne. Gran omeni che semo!
Se una donna ne manca un attimo, un momento.
Se cria, se dise roba, se fa ressentimento,
El sesso tutto intiero se sente a maledir;
E de nu, poverazze, cossa no porle dir?
Conte. Io non son stato il primo. Ragione ho sufficiente
Di staccarmi da lei.
Alberto.   Ma la lassè per gnente.
Conte. Per niente? Ho da soffrire per sciocca gelosia,
Che mi perda il rispetto?
Alberto.   Tolè, la xe pentia.
Conte. Pentita? Non lo credo.
Alberto.   Conte, da quel che son,
Mi l’ho ridotta infina a domandar perdon.
Conte. Perdono? Ad una dama tanto non si convien.
Alberto. Eh, che no xe mai troppo, quando che se vol ben.
Conte. Chiedere a me perdono?
Alberto.   Sì ben, tra de nu tre.
Conte. Ma poi non lo farebbe.
Alberto.   No l’al faria? Perchè?
Co ve lo digo mi.
Conte.   Sarebbe un bel trionfo
Questo per un amante.
Alberto.   Deventeressi sgionfo.
Conte. Finor qualunque donna costretta a distaccarsi,
L’ho veduta crepare piuttosto che umiliarsi.

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Alberto. E questa la se umilia, questa sa far de più

De tutte le altre donne.
Conte.   È una bella virtù.
Alberto. Via, andemola a trovar; no fè che la zavaria.
Conte. Mi ha mandato a chiamar madama commissaria.
Alberto. E vorressi lassar per sto pettegolezzo
Una putta de un cuor, che al mondo no gh’ha prezzo?
Conte. Per dirvi quel ch’io penso, da amico confidente,
Dal cuor di donna Bianca son tocco internamente.
Ma ora s’io venissi a ragionar con lei,
La sentirei a piangere, e mi rattristerei.
Fate così: trovato, dite, che non mi avete;
Ditele che sperate, che alfin mi conoscete.
Che son un che si placa, quando un amico parla;
Cercate a poco a poco la via di consolarla.
Quando sarà calmata, verrò più volentieri.
Vedrem se son costanti frattanto i suoi pensieri.
Non dico ch’io pretenda ch’ella perdon mi chieda,
Ma dite che non pianga, che taccia e che mi creda.
Intanto da madama vo a trattenermi un poco:
Non vado per amore, vadovi sol per gioco.
Vado, perchè la visita è da madama attesa.
Se nol sa, donna Bianca non può chiamarsi offesa.
Non fo che a me scemare la noia di quel pianto.
Finchè voi la placate, vo a divertirmi intanto.
Quando si può un momento aver di quiete al mondo,
S’ha da lasciar per piangere? Signor no, vi rispondo.
Io sono un galantuomo, farò quanto vi dico;
Ma voglio divertirmi. A rivederci, amico. (parte)

SCENA VI.

Signor Alberto solo.

Con tutta l’amicizia, sì per diana de dia,

Che sto caro sior Conte quasi lo mandaria.
Mi che son de buon cuor, che là son arlevà,

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Dove se pregia tutti d’aver della pietà,

No me posso dar pase, che el tratta in sta maniera
Una che ghe vol ben, che pianze e se despiera.
Gh’ho proprio el cuor serrà: eh, matto che son mi;
No gh’intro per un bezzo, e afflizerme cussì?
Se tanto me dà tanto, se son appassionà,
Cossa faravio allora, se fusse innamorà?
Creperave, ho paura. Donca, scomenzo a dir
Che el Conte gh’ha rason d’andarse a devertir.
Ma el gh’ha torto, el gh’ha torto. Chi vol la libertà.
Se lassa star le putte. La xe una crudeltà.
Avanti de taccarse, bisogna aver inzegno.
Dopo, chi è galantomo, no ha da lassar l’impegno.
O el Conte ha da resolver de far quel che ghe digo,
O in mi, ghe lo protesto, el trova un so nemigo.
I omeni onorati no i pol soffrir ste azion.
Son Venezian, ne voggio far torto alla nazion. (parte)

SCENA VII.

Camera in casa del Commissario.

Madama Graziosa ed il Conte.

Madama. Favorisca, illustrissimo. (alla dritta del Conte)

Conte.   Oh, formiamo i capitoli.
Primo, che fra di noi s’ha da lasciare i titoli.
Madama. Compatisca, son usa così titoleggiando,
Perchè, veda, anche me mi van lustrissimando.
Conte. Bene, tutto va bene, vi venero, vi stimo.
Ma da una banda i titoli per capitolo primo.
Madama. Come comanda lei: favorisca sedere.
Oh no, da questa parte. (passa alla sinistra)
Conte.   Oibò.
Madama.   So il mio dovere.
Conte. Capitolo secondo: fra noi, vi raccomando,
Che vadano per sempre le cerimonie in bando.

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Madama. Illustrissimo sì.

Conte.   Via, madama carissima,
Sedete.
Madama.   No, s’accomodi vossignoria illustrissima.
Conte. Oh, va lunga l’istoria. Se devo venir qui,
Vo’ che trattiam del pari.
Madama.   Illustrissimo sì.
Conte. Dunque alla commissaria, per fare i dover miei,
Darò anch’io l’illustrissima.
Madama.   Come comanda lei.
Conte. (Oh, me l’ho da godere!) Che cosa mi comanda
Vossignoria illustrissima?
Madama.   I titoli da banda.
Conte. Madama, è qualche tempo che aspiro a quest’onore,
D’essere vostro amico e vostro servitore.
Madama. Se andate su nei cembali, signor, non vi rispondo.
Le cerimonie a parte. Capitolo secondo.
Conte. Così mi piace, e il terzo capitolo sarà,
Che abbiate a comandarmi con tutta libertà.
Madama. Anch’io, se in qualche cosa potessi favorirla...
Conte. (Povera commissaria! Bisogna compatirla). (da sè)
Madama. Starà molto da noi?
Conte.   Sì, spero di fermarmi.
Madama. Mi farà sempre grazia, se verrà a incomodarmi.
Conte. Ma voi vi confondete in vani complimenti.
I capitoli nostri saranno inconcludenti.
Madama. Siccome sono avvezza legger continuamente,
Imparo i buoni termini, e me li tengo a mente.
Conte. Che leggete di bello?
Madama.   Non mi ricordo più.
Leggo... come si chiama? Ah sì, il Fior di virtù.
Conte. Non avete commedie scritte sul stil moderno?
Madama. Oh, che son tanto belle! le ho lette quest’inverno.
Ma non erano mie: se le potessi avere!
Conte. Le farò venir io.

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Madama.   Mi farà ben piacere.

Conte. Sì, scriverò in Venezia.
Madama.   Scrive a Venezia? Aspetti.
Faccia venire ancora un poco di fioretti.
Conte. Ben volentieri.
Madama.   E.... senta. Potria coll’occasione
Ordinar dell’argento per una guarnizione:
Dieci o dodici braccia. Me lo farà mandare?
Conte. (Eh, per la prima visita mi posso contentare). (da sè)
Dirò, l’argento, i libri, i fiori, tutto insieme
Farà troppo volume.
Madama.   Dei libri non mi preme.
Conte. Sentite, mia signora, voglio pariarvi schietto,
Per darvi un certo segno d’amore e di rispetto.
Son cavalier, son tale che il suo dover lo sa;
Che comandiate, ho detto, con tutta libertà.
Ma son uom capriccioso. Godo infinitamente
Che giungano le cose così improvvisamente.
Vedrò quel che vi piace, con animo di farlo,
Senza che vi prendiate fastidio a domandarlo.
Madama. Oh, non son io di quelle che usano domandare.
Il cielo me ne guardi. Non saprei come fare.
Quello che mi bisogna, me lo fa mio marito;
Saran due settimane, che mi comprò un vestito.
Manca la guarnizione; vedrà ch’è necessaria;
Ma non domando niente, non son sì temeraria.
Conte. (A far i complimenti non ha molto imparato.
Ma per tirar dei colpi pare un libro stampato), (da sè)
Madama. Lo vuol veder quest’abito?
Conte.   Lo vederemo poi.
Or, madama carissima, mi basta veder voi.
Madama. Vede poco di buono.
Conte.   Eh, vedo un occhio scaltro.
Vedo, o di veder parmi (credo non ci sia altro).
Madama. Come sta di amorose, signor Contino mio?

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Conte. Non son ventiquatt’ore, che libero son io.

Madama. Caspita, il ferro è caldo!
Conte.   Un ferro indebolito
Da voi più facilmente può essere colpito.
Madama. Se potessi rispondere!
Conte.   Dite, son preparate.
Madama. Direi che dall’amore il ferro è logorato.
Conte. Cospetto, questa frase è affatto romanzesca.
Madama. Che crede, mio signore? Anch’io son Petrarchesca.
Conte. Sapete far sonetti?
Madama.   Oh sì, signore, in letto.
Conte. (Costei ha dello spirito. Ci ho gusto, ci ho diletto).
Il signor de’ Martini3 vien da voi?
Madama.   No, signore.
Sarà, che non ci viene...
Conte.   Quanto sarà?
Madama.   Sei ore.
Conte. Madama, vi ho capito. Non siete sempliciotta.
E se il mio ferro è caldo, il vostro ferro scotta.
Madama. Non lo voglio più certo quel prosontuoso ardito.
Conte. Che cosa vi ha egli fatto?
Madama.   Ecco qui mio marito.

SCENA VIII.

Il Commissario e detti.

Conte. Oh signor commissario, di grazia, si contenti (s’alza)

Gli faccia i miei divoti sinceri complimenti:
A lei che tanto stimo, permetta che offerisca
Servitù senza fine, e ch’io lo riverisca.
Commissario. Signor, troppo mi onora, venendo in queste soglie
A favorir la casa, a favorir mia moglie.

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S’accomodi, la prego, la prego, signor mio.

Conte. Ella vuol star in piedi?
(il Conte vuol prender egli la sedia)
Commissario.   Sederò un poco anch’io.
(il Commissario la prende da se, e siedono)
Cosa abbiamo di nuovo delle cose del mondo?
Conte. Io colle novità davver non mi confondo.
La novità che stimo, in questo dì felice,
È l’amicizia vostra.
Madama.   Oh signor, cosa dice?
Nostro onor che si degni venire in questi quarti.
Commissario. Da brava, commissaria, fate voi le mie parti.
Conte. Gentil moglie e marito. Dite, signor, vi prego,
È molto che godete l’onor di quest’impiego?
Commissario. Il triennio è vicino a terminar ben presto.
E non so dir poi dopo, se resto o se non resto.
Si aspetta il feudatario da noi, oggi o domani:
Vorrei mi confermasse; ciò sta nelle sue mani.
Ma ho dei nemici molti: con arte e con malizia
Hanno disseminato ch’io vendo la giustizia.
Ciò non è ver, credetelo. Non sono interessato;
Ma siamo malveduti da tutto il marchesato.
Mia moglie, ch’è la donna più amabile del mondo,
L’invidiano, l’invidiano quei di Castel Rotondo.
Dicono i maldicenti quel che lor viene in bocca;
Ed è la mia rovina, se andarmene mi tocca.
Oggi o doman si aspetta il nostro feudatario.
Signor, non vorrei essere ardito e temerario:
Altri che voi non puote far che il signor Marchese
Voglia un altro triennio tenermi nel paese.
Vi prego, signor Conte, di questa grazia, e poi...
Signora commissaria, pregatelo anche voi.
Conte. (Oh, son bene impicciato!) (da sè)
Madama.   Non ho merito alcuno...
Conte. Voi meritate molto.

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Commissario.   Signor Conte, io son uno (s’alza)

Che non può lungamente parlare, e star seduto.
Mi raccomando, e basta. Vi abbraccio e vi saluto.
(parte)

SCENA IX.

Madama Graziosa ed il Conte.

Conte. (Son venuto in buon’ora). (da sè)

Madama.   E ben, sperar potrò
Che parliate al Marchese?
Conte.   Signora, io parlerò.
Madama. Si vederà da questo, se siete un vero amico.
Conte. (Ho da cercar fastidi, io che ne son nemico?
Basta, ci sono). (da sè)
Madama.   A dirla, poco lei mi consola.
Conte. Son cavalier, madama, vi do la mia parola.
Parlerò col Marchese con forza e con impegno,
Sol della grazia vostra per rendermi più degno.
Faccio però lo sforzo maggior di vita mia:
Son uno che mi piace la quiete e l’allegria.
Madama. Oh caro signor Conte, non dubiti niente;
Staremo, in avvenire, staremo allegramente.
Da me non averete altri fastidi al mondo.
Conte. Io penso a viver quieto, a vivere giocondo.

SCENA X.

Il signor De’ Martini finanziere, e detti.

Martini. Si può venir? (di dentro)

Conte.   Chi è questi?
Madama.   Costui più non lo voglio.
È il signor de’ Martini.
Conte.   (Oh, questo è un bell’imbroglio!)
Martini. Servo di lor signori.

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Conte.   Servitore obbligato.

Martini. Favorite: don Mauro, signor, non vi ha parlato?
Conte. Di che dovea parlarmi?
Martini.   D’un certo non so che,
Che v’interessa voi, questa signora, e me.
Madama. Oh signor de’ Martini, vi dico apertamente,
Che qui non mi venite a far l’impertinente.
Finor, se vi ho sofferto, sapete come fu.
Ve lo ridico in faccia, non ci venite più.
Martini. Oh cospetto!...
Madama.   Portate rispetto al commissario.
Tocca a voi, signor Conte, punir quel temerario.
(parte)

SCENA XI.

Il Conte ed il signor De’ Martini.

Martini. Voglio soddisfazione.

Conte.   (Orsù, questa non è
Casa, per quel ch’io vedo, da frequentar da me).
(da sè)
Martini. Farmi un affronto simile? A me codesta azione?
Conte. Quietatevi, signore.
Martini.   Voglio soddisfazione.
Conte. Ehi, signor de’ Martini, zitto, che siamo in due;
Ognuno in questo caso può far le parti sue.
Ma io coi pari vostri, se von soddisfazione,
Zitto, signor Martini, adopero il bastone.
Martini. Vossignoria illustrissima non sa quel che m’han fatto.
Conte. Per me vi parlo schietto, non vo’ diventar matto;
Non vo’ scaldarmi il sangue; di core ve lo dico.
Se posso compiacervi, vi sarò buon amico.
Soffrite un giorno solo lontan da questo tetto,
E poi la casa libera lasciarvi io vi prometto.
Martini. Perchè un giorno lontano?

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Conte.   Candidamente io parlo.

Son corso in un impegno, e voglio consumarlo.
A momenti s’aspetta che venga il feudatario;
Promesso ho di parlare a pro del commissario.
Puoi esser che una volta qui di venir m’accada,
E finchè ci son io, vossignoria sen vada.
Dopo, vi torno a dire, tornate francamente;
Ve lo prometto e giuro, non m’importa niente.
Martini. Ritornerò domani.
Conte.   Bene, ma intanto andate.
Martini. Aspetto il commissario.
Conte.   No, qui non l’aspettate.
Martini. Servitor umilissimo.
Conte.   Amico, vi son schiavo.
Martini. Non son uom di paura, ma ho del rispetto. (parte)
Conte.   Bravo.
Dice bene il proverbio, lo provo in questo giorno:
Alfine s’infarina chi del mulin va intorno.
Dai oggi, dai domani, cambia, ricambia amori,
Alfin si trovan quelli che costano sudori,
Impegni con signori, impegni con amanti,
Pericolo alla vita, pericolo ai contanti.
Per me, che son nemico di affanni e di tormenti.
Sta volta ho ritrovato buon pan per i miei denti.
Mi consolo per altro, che durerà per poco:
Grand’acqua non ci vuole per spegnere il mio foco.
Basta che trovi ostacolo alla mia pace vera,
Mi accendo la mattina, son libero la sera. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.

Note

  1. Così il testo. Forse è da correggere a dirla, come si trova qualche verso più sotto.
  2. Nelle edizioni Guibert-Orgeas, Zatta e altre, si legge: defraudar io non cogito.
  3. Così l’ed. Pitleri. Nell’ed. Guibert-Orgeas si trova sempre stampato Demartini, e nell’ed. Zatta De Martini.