L'olmo e l'edera/XI
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XI.
La malattia della signora Luisa appariva ostinata oltre ogni credere, e Laurenti scorgeva come fosse malagevole il vincerla, imperocchè tutto quanto egli avrebbe tentato di fare, coll’aiuto della scienza, per rinnovare il sangue in quel morente organismo, sarebbe stato quotidianamente combattuto, contramminato, distrutto dall’interno nemico.
Questo nemico e’ lo aveva sentito, quasi lo aveva veduto. Alcune frecciate, accortamente tratte, avevano colto nel segno, e l’interno struggitore avea dato cenno della sua assidua presenza.
A chi non è egli avvenuto, nei dì dell’infanzia curiosa e sollazzevole, di andarsi a sdraiare su d’un prato, quando l’erba è falciata, e la terra lascia scorgere, tra ciuffi di verde reciso, tutti i misteri della sua crosta? Si notavano allora certi buchi, artisticamente scavati tra le radici della gramigna o del sermolino, che andavano in linea diagonale nel profondo della terra, e dato di piglio ad un fuscellino, il più diritto e il più lungo che si potesse trovare, si frugava leggermente in quella piccola tana, fino a tanto che non si vedesse sbucar fuori un animaletto nero, dalla corazza rabescata. Era il grillo solitario, il notturno cantore, che faceva capolino sull’uscio, e si rintanava sollecito.
Questo ricordo d’infanzia tornò alla mente del giovine. Il negro animale, stuzzicato dalle sue dimande improvvise, era comparso più volte, mostrando le sospettose antenne, ma s’era rimbucato da capo. La sua presenza era posta in sodo, ed oramai, per sloggiarlo, e’ bisognava lavorar di fine, usare accorgimento e prudenza, ma non dargli più tregua.
Ella non vuole essere risanata, pensò, dappoichè non vuol consolarsi, riamare la vita. S’ha dunque da risanarla a suo malgrado, e senza che veda, senza che sospetti il come. Disturbiamo il suo pensiero, non gli diamo più agio di operare, e sarà tanto tempo guadagnato pel lavorìo della scienza. La natura farà il rimanente. Nei recessi dell’anima stanno rimedii sottili, imponderabili, ignoti, ma potenti, efficaci, solo che abbiano il modo di svolgersi. E’ fu un sassolino, spiccatosi dal monte, che scese a rovesciare la statua. L’operosità latente, stimolata da un nonnulla, in certe occasioni particolari, si sveglia e riedifica; il germe, bagnato da una goccia di rugiada, si fa pianta e prospera anco in una fenditura di marmo.
Laurenti argomentava benissimo, e il suo cuore indovino metteva le fondamenta di un ottimo sistema terapeutico. Ma egli v’era alcun che di maggiore, di più efficace, che gli veniva in aiuto, e che egli per fermo non poteva scorgere, non che mettere in conto, poichè quella tal cosa era egli, egli stesso. La signora Argellani non aiutava il suo medico, non lo secondava nei generosi conati ch’egli faceva per arrestare lo struggimento delle sue forze vitali. Ma intanto un nuovo elemento era penetrato nella sua esistenza, e creava necessariamente consuetudini nuove. Il ghiaccio era rotto; la primavera alitava dintorno a lei, tutti i suoi stimolanti profumi, tutti i suoi vivaci tepori. La bella inferma credeva di esser sempre sola col suo rammarico, e non lo era già più. Il suo deserto era popolato, e un’aria di giovinezza, spirando da tutti i lati, recava i germi della vita nuova. Stava daccanto a lei l’apparenza del medico; ma sotto quella spoglia tranquilla, palpitava il cuore, ardeva la mente dell’innamorato, che doveva circondarla di una rete invisibile, operare per la sua anima, ingombra dal tedio d’ogni cosa, quello che aveva operato la fantastica volontà di un altro innamorato per gli occhi di Caterina di Russia, allorquando fiorivano i giardini e sorgevano i villaggi lungo la brulla strada che essa doveva percorrere.
Ora, questo innamorato, fin dal primo momento aveva impreso a fabbricare la sua rete. Uscito dalle stanze della inferma, era andato dal Giacomo, diventato di botto suo primo assistente, ad indettarsi con lui per tal cosa che questi dovesse fare nel giorno medesimo.
La conseguenza di questo dialogo si fu che, verso il cadere del sole, la signora Argellani scese a diporto in giardino.
Era fiacca, come al solito, la donna gentile, e dopo aver passeggiato per pochi minuti, come fu presso l’albero di pino, si adagiò sul rustico sedile, e rimase immobile per contemplare le nuvole rosee dell’occidente. L’immagine del suo medico era le mille miglia lontana.
Ma il medico, lontano dalla sua mente, non era distante dall’albero di pino. Egli veniva lentamente pel sentieruolo, col capo chino, col suo solito libro tra mani, e si avvicinava a lei, che finalmente allo scalpiccio de’ piedi sulla ghiaia, volse gli occhi dalla sua parte, e si addiede della sua presenza.
La prima impressione che quella vista fece nell’animo della signora Argellani, fu di molestia; ma, cortese com’era, si pentì tosto, e volse al suo medico il più affettuoso saluto.
Laurenti intese quel senso di molestia, e si sentì stringere il cuore; ma vide il pentimento subitaneo e si riebbe. Il volto diafano della signora era uno specchio fedele di tutte le interne sensazioni.
— Signora, le disse egli inchinandosi, le chieggo scusa e licenza ad un tempo di venirla a turbare nella solitudine del suo giardino. Ero venuto a cercare del Giacomo, del mio amico e collega in botanica.
— Ella non ha da chiedere nè licenza nè scusa, signor dottore, ed è qui, come lassù, padrone assoluto.
— Grazie; ed io vengo per l’appunto a far atto di padronanza.
— Ah! esclamò là signora con un sorriso che invitava a proseguire.
— Sì, soggiunse Laurenti, debbo impadronirmi d’una bella varietà di viole del pensiero, la quale io non ho, e il suo giardino ne ha parecchi esemplari. Così passeggiando sono sceso ne’ suoi dominii....
— Col fidato volume tra mani, aggiunse la signora.
— Fidato davvero; è il mio Virgilio.
— Come? Dalla scienza alla poesia?
— Sissignora, ma poesia latina.
— Che differenza ci vede ella, signor dottore?
— Grandissima. Qui c’è la fragranza arcana della lingua disusata; però si studia ogni frase, si colgono intime bellezze di espressione che nella lingua nostra non si avvertirebbero nemmanco.
— Ed ecco una consolazione che noi povere donne non possiamo avere, noi sbandeggiate dagli studi classici.
— Ah, Ella si ricorda della conversazione di stamane? Questo è buon segno, almeno per me!
Ciò detto, e per non prolungare un dialogo che la signora Argellani aveva cominciato per mero debito di cortesia, Laurenti si volse al giardiniere, che stava pochi passi discosto a sarchiellare un’aiuola.
— Orbene, Giacomo; la mia pianta...
— Oh, non se l’ha mangiata il lupo, signor Magnifico, ed è laggiù che l’aspetta. Se Vossignoria vuole portarsela con sè, venga e la leveremo da terra.
— Signora, — disse Laurenti, volgendosi alla donna gentile — potremo averla patrona in opera di tanto rilievo?
— Volentieri.
E la signora Argellani si alzò: ma Guido non le offerse il braccio, sebbene ne avesse una voglia spasimata. Con quella donna ci voleva giudizio, e l’amore, che lo fa perdere a tanti, ne dava al giovine naturalista una libbra di più.
Egli anzi, con quella facilità che è sempre l’eccesso dello stento, si messe a chiaccherare di botanica e di orticoltura col Giacomo, dei proverbi contadineschi sul bel tempo e sulla pioggia, e di altre cose simiglianti, con le quali io non eserciterò per fermo la pazienza del benigno lettore. Venne poscia una filatessa di considerazioni sulle figure che erano rappresentate dai quattro petali screziati della viola del pensiero; quella per esempio che il Giacomo levava da terra per lui, era il ritratto parlante di un professore di greco di sua conoscenza.... e sapeva il greco del pari. Considerazioni che fecero ridere la signora Argellani, quantunque ne avesse così poca voglia nel cuore.
Ma erano pallidi sorrisi, come dicono i francesi con efficacia d’immagine. La gentil donna non era punto distratta; anzi seguitava la conversazione, e con quella eletta cortesia che è pregio naturale delle grandi anime, tenea vivo ella stessa il dialogo, aiutava le arguzie a sbocciare. Senonchè, mentre le labbra parlavano e sorridevano, in fondo al cuore c’era il vuoto, e di tanto in tanto ella ne sentiva gli arcani stringimenti.
Intanto venne la notte, e colla notte l’eterno discorso della rugiada, che invita a mettersi al coperto. Guido stava per accomiatarsi, ma la signora Argellani lo invitò ad entrare in casa, ed egli si tenne i suoi saluti tra i denti.
Era quella la tristissima ora, l’ora saturnia della giornata, per quella povera bella. Era l’ora in cui, in altri tempi, il campanello scosso mandava il più argentino dei suoi squilli, e poco dopo il servitore, sollevando la portiera del salotto dov’ella stava a lavorare, o a suonare il cembalo, diceva le consuete parole: «il signor Eugenio Percy.»
Egli entrava e portava la luce con sè. Ragionavano di nonnulla, nei primi tempi, stavano a guardar la luna dai vetri delle finestre, si bisticciavano fanciullescamente per una fettuccia, per una acconciatura di testa, per un’aria di ballo; ma i nonnulla dicevano una cosa sola; la luna sollevava nei loro cuori la marea di un solo sentimento; tra le loro contese, tra gli sdegni e il volar degli strali, danzava sempre, si rigirava uno spirito folletto colle alucce di farfalla, il quale spandeva filtri amorosi nell’aria e avvelenava le punte col miele.
Più tardi, non si guardava più la luna, non si contendeva più di nonnulla; era in quella vece un intimo favellio, un ricambio di dolci pensieri, una melodia susurrata, sospirata anzi, nella nicchia d’un sofà di velluto, colle mani strette nelle mani, gli occhi incantati negli occhi. Poi la lettura di un libro, spesso interrotta, o insensibilmente trasmutata in un’estasi; poi l’attesa di lui, fino a tanto che ella si fosse vestita per andare a teatro: poi un mondo di cose, e tutto in quell’ora, tutto ricordato in quell’ora, riassunto in quell’ora.
E quell’ora, già consacrata da tanto affetto, era vuota. I bei giorni erano finiti; il nodo si era spezzato; ma quell’ora non poteva essere dimenticata, per le consuetudini che essa richiamava alla mente.
A me duole di averlo a dire, perchè mi si darà forse, ed immeritamente, nota di materialista. La consuetudine è un forte vincolo; ella rafforza l’affetto quando è vivo e lo fa parer vivo quand’esso è già morto. Per tal guisa durano certi amori e certe amare ricordanze che la dignità offesa dovrebbe aver discacciate dall’anima. Imperocchè, se il cuore sanguina, la ragione può rimarginare la ferita; ma la consuetudine, quest’abito morboso della esistenza, offende i nervi anche dopo il risanamento, e riproduce la sensazione del dolore.
Quell’ora dunque era vuota; nessuna novità veniva mai a turbarne la solitudine dolorosa, e la povera inferma, seduta in un angolo del suo pensatolo, suggeva più veleno in quell’ora che in tutto il rimanente della giornata. Guido Laurenti, senza conoscere la cagione, aveva indovinato il male, anzi il punto culminante del male.
Entrato nel salotto della signora Argellani, egli stette a discorrere di cento cose. Ella era un tal poco distratta: ma era già molto che non fantasticasse da sola. Di discorso in discorso, di palo in frasca, si venne a ragionare di viaggi, e Laurenti si fece a dirle della mania ch’egli aveva da giovine di correre il mondo, mania tanto più forte, quanto egli era più impossente a soddisfarla.
Suo padre amava che egli studiasse; danari quanti ne voleva, ma non si muovesse per nissun pretesto da Genova. Un giorno, cionondimeno, fatti gli esami del primo anno di medicina, e’ gli aveva mandato un bel gruzzolo di monete, perchè contentasse la sua voglia di andare a Roma. Quel viaggio e’ lo aveva in mente da un pezzo, e gli parea mill’anni di non mettersi la via tra le gambe; ma l’uomo propone, e gli amici dispongono. I danari del babbo erano andati in mano di uno strozzino, per salvar dalla prigione un suo amico e parente, che era meno ricco e più scapato di lui, Come cavarsela con suo padre? E sopratutto, come cavarsi la voglia di fare una gita? Pensa, ripensa, e’ non trovò altro partito che quello di viaggiare nelle proprie tasche, e dettare una relazione del viaggio, per mandarla a suo padre.
Gli era un bel paese davvero, sebbene un po’ brullo. Anzitutto non c’era da snocciolare nemmanco una lira in beveraggi a’ cocchieri; il conto dell’oste si pagava colla massima agevolezza; i ciceroni non costavano nulla. La scatola dei solfanelli lo conduceva a dotte considerazioni sul progresso delle industrie; il fil di seta col quale erano cucite quelle tasche, lo guidava fuori del laberinto, e di costura in costura lo portava a passare la Manica. Una lettera, un sigaro, erano accidenti importantissimi del viaggio. La scoperta di un ultimo scudo nel taschino del panciotto, era un amico, un compaesano trovato a mezza strada. Il conto del sartore che lo aveva vestito, poteva adombrare benissimo un incontro di briganti che lo avessero spogliato. E giù di questa conformità. Il padre aveva letto, aveva riso, ed aveva mandato qualche altro migliaio di lire a suo figlio, perchè andasse a viaggiare da senno.
Il racconto era condito di piacevolezze, di argute considerazioni, di modeste reticenze. La signora Argellani, da distratta si fece attenta, si lasciò andare in balìa di nuove sensazioni, e viaggiò anch’essa col suo medico, diventato di punto in bianco umorista, sulle orme di Enrico Heine e di Giuseppe Revere.
Suonarono le dieci. La negra cura per quel giorno era vinta; il medico otteneva il suo primo trionfo, senza rullo di tamburi e senza suono di trombe.
Nè fu la sola. Il giovanotto, diventato prudente come la serpe della Scrittura, aveva diradate le sue visite mattutine, poichè il permesso di scendere dopo il pranzo nella villa Argellani, gli recava la dolce consuetudine di veder la signora con manco cerimonie, e accompagnarla di prima sera in casa, dove stava a ragionare una o due ore con lei. Gli era un medico, un amico ed un vicino insieme; condizione complessa, irta di difficoltà, imperocchè egli aveva sempre qualche cosa a temere. La donna malinconica, infastidita del vivere, poteva un bel giorno non vedere altro in lui che il medico ostinato a risanarla, e ribellarsi alle sue cure. L’interno nemico, stretto soverchiamente, potea rivoltarsi anco lui, e condurre la signora Argellani a sospettar dell’amico, a diffidare delle cortesie del vicino. Gli bisognava dunque temperare accortamente una cosa coll’altra, star di continuo all’erta, indovinare qual lato dovesse porre in rilievo, qual altro dissimulare. Fatica improba, che solo un profondo amore potea far sembrare gradita.
Le ore dopo il pranzo erano, come ho detto, consacrate al giardino. Virgilio rallegrava il viaggio dalla postierla fino all’albero di pino; quindi andava a dormire nelle tasche della giubba, e cominciavano le svariate conversazioni. La signora era di mente colta come di cuor delicato, e Laurenti sapeva farla pensare, com’ella sapeva farlo parlare. Si usavano cortesie a vicenda, e le ore passavano rapide come baleni.
I pallidi sorrisi, le dolci malinconie, i subitanei stringimenti di cuore, rispondevano ai diversi stati dell’animo della signora Argellani. Ma intanto la natura operava, e le nuove consuetudini si filtravano inavvertite nel suo delicato organismo. Guido Laurenti, il quale, per tutta la gente di casa, era il Magnifico, vo’ dire il medico, e che ci aveva acquistato una grande autorità, dettava la lista della colazione e del pranzo; poi, col pretesto di procacciare sonni lunghi e tranquilli all’inferma, le dava a bere i suoi tonici, le sue pozioni ferruginose, e le andava man mano rinnovando il sangue nelle vene.
Non se ne addava ella punto? No certamente, poichè non le accadeva mai di pensarvi su. La sua melanconia non era apertamente turbata, ed ella lasciava che il medico facesse a modo suo. I modi del giovine erano prudenti e cortesi; la conoscenza di lui non riusciva di peso, ed ella non poteva scorgere in lui un amante.
O come non lo vedeva? — chiederà taluno. Le donne vedono sempre ogni cosa.
Sì, benigno lettore, esse vedono sempre ogni cosa, ma quando non abbiano in mente una di quelle preoccupazioni, le quali tolgono di badare al rimanente. Vi è egli mai avvenuto di amare una donna, la quale vi usava ogni maniera di cortesie, e frattanto non andavate innanzi di un passo? Quella donna, se vi rammenta, pensava ad un altro, e voi, poverino, voi non eravate che un semplice amico. Noi, pigliati a mazzo, uomini e donne, non abbiamo cuore che per chi piace a noi, e quando il cuore non c’è, egli avviene eziandio (salvo il caso di una dichiarazione, la quale non consenta più di ignorare) egli avviene, dico, che non ci sia neppure la mente. E voi, un bel giorno che quella lunga adorazione sulla soglia del tempio v’era paruta troppo lunga, fattovi un cuor da leone, incominciavate a parlare. Ella a prima giunta si meravigliava di quella novità, poi vi compiangeva, s’industriava a consolarvi con melate parole, e finalmente vi metteva, sebbene con tutti gli onori dovuti ad un cuor generoso, fuori l’uscio di casa. Voi tosto a maledire il giorno, l’ora e il momento che l’avevate veduta; voi a farle colpa de’ suoi superbi disdegni, e perfino delle sue gentilezze. Povera donna! Come si è spesso ingrati ed ingiusti per ragion d’egoismo!
Non mi si dica dunque che le donne vedono tutto. Vedono, quando non hanno altra immagine che loro ingombri la vista. Se il loro cuore è tranquillo, sì certamente elleno si accorgeranno del vostro amore, anche quando sia ai cominciamenti, anche prima che ve ne accorgiate voi medesimo. Ma pur troppo, con tutta la loro avvedutezza, con tutta la loro perspicacia, le povere donne hanno la benda sugli occhi, quando amano e soffrono.
E nulla vedeva, di nulla si accorgeva, di nulla sospettava la signora Argellani. Vi ho già detto che ella non si addava quasi dell’opera del medico, e che ignorava affatto il lavoro possente della nuova consuetudine. Il rimedio arcano, imponderabile, si era svolto dai recessi della sua anima, ed operava inavvertito come la dose dell’omeopatico.
Guido Laurenti, dal canto suo, cercava sempre il nemico, e lo combatteva gagliardamente, efficacemente, senza conoscerlo ancora.