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Apuleio - L'asino d'oro (II secolo)
Traduzione dal latino di Agnolo Firenzuola (XVI secolo)
Libro IV
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LIBRO QUARTO


Essendo già arrivato il sole alla metà del suo viaggio, pervenuti a una certa villetta, noi ne ponemmo a riposare con certi vecchiardi, amici e conoscenti di que’ ladroni, secondochè io sulla prima giunta per lo lungo ragionar loro, per le mutue carezze, ancorchè io fussi asino, accorger mi potetti: imperocchè, levatomi daddosso non so che coserelle, e’ le donarono loro, e con un certo ghigno così ascosto pareva ch’e’ volesser dire: noi l’abbiam rubate. E avendoci dopo questo scaricati di tutta la soma, e’ lasciarono andar noi altre bestie a nostro piacere entro a un prato, che quivi era assai vicino: ma il comune pascolo non mi potè nè coll’asino nè col mio cavallo ritenere, come colui che non era avvezzo a pascer fieno: perchè, avendo veduto appresso della stalla un orto, e morendomi di fame, io me ne entrai dentro alla libera, e ancorchè quegli erbaggi fossero crudi, ne presi una buona satolla, e raccomandandomi al cielo, guardava nondimeno per tutto il paese, se egli per avventura mi venisse veduto [p. 74 modifica]qualche bel rosaio; chè oramai il solitario luogo, l’esser fuor di strada, coperto e nascosto da ognuno, mi davano buona speranza, che prendendo quella medicina, d’una bestia di quattro gambe e carponi, ritornerei uomo diritto in su due piedi, e potre’mene agevolmente andar libero a mio viaggio. E mentre ch’io ondeggiava nel mar di questi pensieri, e’ mi parve veder così da discosto entro a un fronzuto boschetto una valletta assai spaziosa, fra le varie erbette e i ridenti virgulti della quale rosseggiasse lo acceso color delle fresche rose: perchè entro al mio cuore, che non però era d’asino affatto affatto, nacque un pensiero, che dove fra le riposte ombre scintillava lo splendore de’ lampeggianti fiori, ivi proprio fusse il ricettacolo di Venere e delle Grazie. Laonde, pregato Dio che ne desse prospero e felice successo, mi diedi a correr sì forte, ch’egli mi pareva essere, in buona fe’, non un asino zoppo e stracco, ma un valente cavallo: con tutto ciò il mio veloce sforzo non potè vincer la crudeltà della mia fortuna; conciofussecosachè come più ratto m’appressai al luogo, mi accorsi che quivi non eran le vive rose bagnate delle divine gocciole di nettare e di rugiada, le quali generano i felici rovi e le beate spine; nè vidi valle alcuna, anzi mi si appresentò la margine della ripa d’un fiume ripiena di spessissimi arboscelli, i quali erano di molte frondi rivestiti, e grandi non altrimenti che si sieno i nostri allori; e quelle che mi erano parute rose, erano alcuni fiori in modo di calicetti senza odore alcuno rosseggianti, i quali lo ignorante vulgo di quel paese, con villeresco vocabolo, le chiama rose d’alloro, ovvero rose laurine, il cibo delle quali tiene ognuno per certo che sia velenoso a tutto il bestiame. Ritrovandomi adunque fra tante fortune, schivo oramai della propria salute, spontaneamente bramava pigliare il veleno di quelle rose: e in quel tempo che io me ne andava così pian piano per pascerle, un certo giovane, secondo il mio giudicio quell’ortolano al quale io aveva poco avanti guasti tutti [p. 75 modifica]gli ortaggi, accortosi di sì gran danno, con un buon bastone se n’era corso alla volta mia, e giuntomi alla sprovvista mi diede tante bastonate, ch’e’ fu presso che per ammazzarmi; e avrebbemi finito certamente, se io, savio ch’io fui, non mi fussi aiutato da me stesso: imperocchè, mostro i ferri all’aria, gli diedi co’ piedi di dietro parecchi coppie di calci così bene, che io lo distesi per terra come morto. E andandomene poscia costa costa per un monte ivi vicino, mi era liberato da quella furia; se non che una certa donna, la moglie sua, come più tosto s’accorse del fatto, scesa d’un monte dov’ella era, correndo se ne venne da lui; e a cagione, per compassion di lei, mi procacciasse la presente rovina, invitò tutti i villani dintorno contro a di me colle sue strida: i quali chiamati i lor cani, e, acciocchè e’ venissero con maggior rabbia a divorarmi, aizzatigli da ogni canto, me gli mandarono addosso. Allora io, senza dubbio alcuno vicino alla morte, veggendo tanti cagnacci, e così grandi e così fieri, che non avrebbero avuto paura nè degli orsi nè de’ leoni, incrudelirsi ognor vie più contro di me per le lor grida, [p. 76 modifica]preso consiglio in sul fatto, restai di fuggire, e dato la volta addietro, con presti passi me n’entrai nella stalla di quella casa, donde io mi era partito poco fa. Perchè eglino, avendo con gran fatica rilegati i cani, attaccatomi con una buona fune a una caviglia, di nuovo mi cominciarono a mazzicare: e avrebbonmi senza dubbio alcuno ammazzato, se non che il ventre, pien di bietole e di altri erbaggi, assaltato, la mercè di quelle bastonate, da una sdrucciolevole soccorrenza, schizzando come un nibbio, di loro una parte ne ricoperse, e un’altra ne ammorbò con quello odore; sicchè, per lo miglior loro, e’ furono forzati a tormisi d’in sulle spalle. Inchinandosi il dì vegnente il sole verso il mezzo giorno, i ladroni, avendoci molto ben carichi, e massimamente me, ne cacciarono in viaggio: e quando noi avevamo fatta già buona parte della strada, e per la sua lunghezza, e per la sconcia soma, e per le molte battiture, avendo l’unghie guaste, andando zoppo e barcolloni, nè potendo più la vita, io mi fermai dentro ad un fossatello, che assai pigramente sotto mi correva; e invitato da quella occasione, mi posi ginocchioni in quell’acqua, con saldo e fermo proposito, per molte bastonate che mi dessero, non mi volere d’indi rizzare, nè mettermi in cammino: anzi mi era deliberato non solamente col bastone ma co’ pugnali lasciarmi ammazzare; che, a dire il vero, e’ mi pareva pur giusto oggimai, per esser debole e zoppo, e mezzo morto, meritar come cagionevole, esenzione dalla milizia asinina. Volevano adunque i ladroni, per la gran fretta ch’egli avevan di fuggire, e per non metter tempo in mezzo, levarmi la soma daddosso, e distribuirla sopra quelle altre due bestie; e per vendicarsi ben della ingiuria, che lor pareva avessi fatta loro, lasciarmi quivi soletto, pasto de’ rapaci lupi e de’ fieri uccelli: ma la mia cattiva sorte impedì così salutevole consiglio. Imperocchè quell’altro asino, indovinando, come io mi credo, il mio pensiero, fece in un tratto le viste d’essere stracco, e distesosi in terra con tutta la soma, [p. 77 modifica]e giacendo in forma di morto, non col punzecchiarlo, non col mazzicarlo, non col tirarlo per gli orecchi, non coll’alzarlo per la coda, nè con assettargli sotto le gambe, o altro aiuto, fece mai segno di volersi crollare, non che levare in piedi. Laonde que’ ladroni, stracchi e fuor d’ogni speranza del farlo rizzare, parlando non so che fra loro, deliberati di non vi perder più tempo intorno a quella bestia mezza morta, anzi di pietra, e di non metter più indugio al fuggir loro, compartita la soma sua fra me e il mio cavallo, e messo mano per una spada, gli tagliarono tutte quattro le gambe, e tiratolo così un poco fuor di strada su un alto monte, gli diedero la spinta, mentre che egli ancora alitava, in una profondissima valle. Allora, ripensando meco medesimo la disgrazia del mio commilitone, deliberai, posto da canto gl’inganni e le frodi, d’essere un buono e un dabbene asino; e tanto più volentieri il faceva, che io m’era accorto per lor ragionare, che lo alloggiamento non era lontano, e che tosto avevamo a venire a capo dal nostro viaggio. Avendo adunque trapassato un dolce monticello, noi arrivammo finalmente al desiderato luogo; dove presesi ognun le cose sue, e ripostelesi dentro, io rimasi scarico della soma; e per levarmi la stracchezza, dalla quale io era affannato maravigliosamente, in cambio di andare alle stufe, io mi diedi a voltolarmi molto bene su per la polvere: ma non fui mai da tanto, ch’io potessi dar la volta tonda.

La opportunità del tempo e la cosa in se par che il richieggano, che io vi descriva il luogo e la spelonca entro alla quale abitavano quei ladroni: perciocchè, oltre al far pruova in quel mentre dell’ingegno mio, voi vi accorgerete, se come era il corpo, era asino eziandio co’ sensi e colla mente. Era adunque un monte altissimo, alpestre, scuro, e tutto di salvatichi arbori ripieno, fra le cui ravviluppate spalle, di aspri sassi, e per questo inaccessibili, abbondantissime, apparivano alcuni profondissimi valloni, e con profondissimi fossi [p. 78 modifica]d’acqua, di pungentissimi sterpi senza numero ricoperti, i quali circuendo quel monte giù da basso d’ogni intorno con naturale siepe, vietavano il potervisi valicare. E’ veniva quest’acqua da una fontana, che in sulla cima del monte, sempre di sonagli ripiena e brillando, era abbondevolissima d’ogni tempo: e nasceva sulla più alta parte della montagna una altissima torre, con graticci di legname, comodo stallaggio per le pecore; e innanzi alla porta si distendevano due ali di chiudenda, ovvero steccato di legname in guisa di muro da ogni lato. A rifar sia di mio, se alla prima giunta tu non l’avessi giudicata una stanza da ladri: appresso alla quale non vi era altro che una picciola casetta con una coperta di canne assai leggiera, dove ogni notte alcuni del numero di quei ladroni tratti per sorte, come mi accorsi poi, in guisa di sentinelle facevan buona guardia. Giunti adunque che furono costoro a questo luogo, posciachè egli ebbero legate noi altre bestie con buone funi innanzi alla porta, entrati tutti in casa senza aspettarsi l’un l’altro, e’ si diedero assai importunamente a chiamare una certa vecchierella, che per li molti anni già aveva fatto arco delle schiene, e alla quale sola pareva che fusse commessa la cura di tutta quella famiglia; e dicevano: Tu sola, vecchia grinza, vituperio del vivere, unico rifiuto dello inferno, ti starai scherzando per casa, senza darci alcun sollazzo o refrigerio dopo tante e così pericolose fatiche; e non attendendo il dì e la notte ad altro che a cotesta golaccia, ti tracannerai il vin pretto, come se tu fossi una pevera, e noi staremo a denti secchi? Ma ella tutta tremando, e dando lor del buon per la pace, con una voce stridente: O fortissimi giovani e fedeli, sola cagion della mia salute, con grandissima cura e con soave sapore sono preparate tutte le vivande: ecci del pane a dovizia, e il vino è già in tavola, i bicchieri sono benissimo lavati, e secondo la vostra usanza è ordinata l’acqua calda per lavarvi a vostra posta. Nè prima ebbe dette costei queste parole, che i ladroni [p. 79 modifica]spogliatisi, e fatto una buona baldoria, tutti si ricrearono; e bagnati coll’acqua calda, e untisi coll’olio, e lavatisi molto bene, si misero a tavola, dove era abbondevolmente da mangiare. E a fatica si erano posti a sedere, ed eccoti venire più che altrettanti giovani, i quali subito che io gli vidi, io giudicai che fussero similmente ladroni; imperocchè, ed essi ancora, oltre a che e’ non avevano la miglior aria del mondo, vennero carichi e d’oro e d’ariento, di veste d’oro e di seta, e d’altre robe di pregio: i quali lavatisi colla medesima acqua, senz’altro dire, si misero a tavola con quegli altri; e tratto per sorte chi avesse a servire, mangiarono così alla carlona: l’una vivanda era sopra l’altra, l’un pane addosso all’altro; una squadra di bicchieri, una filatessa d’orciuoli erano in sulla tavola: mettono la casa a romore cianciando, cantano gridando, e scherzando si dicono villania: nè pareva altrimenti questo lor convito, che si paresse quello, secondochè scrivono i poeti, de’ Centauri e de’ Lapiti. E mentre tutta la casa rimbombava del lor gridare, e’ si rizzò su uno, il quale mostrava essere e colle forze e coll’ardire superiore a tutti gli altri; e disse: Noi avemo con grande animo certamente espugnata la casa di Petronio, e oltre alla copia di così gran fortuna acquistata per nostra virtù, noi siam tornati colla salvezza di tutto il nostro esercito; e se egli ci mancava nulla, aviamo menato otto piedi di più: ma voi altri che andaste a Vinegia, siete tornati senza il vostro fortissimo capitano, avete diminuito il vostro numero; la salute del quale io anteporrei, e meritamente, a tutte coteste robe che voi ne avete portate: la sua virtù, l’animo suo grande ce lo hanno tolto. Sieno adunque celebrate le prodezze sue tra le memorie degl’incliti re e de’ vittoriosissimi capitani: e voi altri ladroncelli andatevene per le stufe e per le case delle povere vecchierelle rubando ogni cosellina, e mettendo in pericolo se alcuno ve n’è fra voi che abbi in pregio l’onore, per picciola anzi per nessuna cosa talora. Allora un di que’ ch’eran venuti [p. 80 modifica]dipoi, sentendolo così parlare, riprese le parole, e disse: Or se’ tu quel solo che non sappi, ch’egli è molto più agevole ad espugnar le case de’ grandi (i quali, avvengachè con gran famiglia entro vi dimorino, ne lassano la guardia a chi pensa sempre più alla propria salute che a quella del padrone), più agevole, dico, che non non quelle de’ manuali? imperocchè questi cotali buoni omiciatti, che con poca famiglia si ritrovano, guardano la poca roba ch’egli hanno, o l’assai che con avara mano tengono rinchiusa, con maggior diligenza di quegli altri; ed essi medesimi, senza fidarsi d’altrui, con pericolo del proprio sangue vi hanno una estrema cura. L’esperienza finalmente dia fede alle mie parole: noi eravamo appena arrivati in Ancona (che sapete che quivi fiorisce lo studio di nostra disciplina), e andando diligentemente ricercando lo stato di que’ cittadini, finalmente noi scoprimmo ch’egli vi era un certo Lodovico, il quale avea di molti danari, e faceva un po’ di banco, e per tema delle gravezze con assai grande astuzia dissimulava questa sua ricchezza, e solo soletto in una picciola casetta, ma forte e ben guardata, si dimorava, e mal vestito e peggio calzato si stava covando tutto ’l dì i sacchetti di que’ suoi danari. Per la qual cosa noi deliberammo che costui fusse il primo fedito; tenendo per fermo, che appiccando la battaglia con un solo, noi non avremmo difficultà ad espugnar tutta quella roba: e però la vegnente notte senza indugio alcuno gli fummo intorno all’uscio, il quale trovammo così ben serrato, che noi non lo potemmo mai pur muovere, non che sgangherare; nè ci parendo a proposito, per non destare tutto il vicinato a nostro danno, lo spezzarlo, quel generoso nostro banderaio confidandosi nella molta virtù sua, messa la mano a poco a poco per quel buco, dove si metteva la chiave, ch’era assai ben grande, ed egli con un suo ferro l’aveva fatto maggiore, voleva sconficcar la toppa: ma quel Lodovico, pessimo di tutti quelli che vanno in su due piedi, essendosi desto un pezzo innanzi, e avendo [p. 81 modifica]veduto ogni cosa, senza far romore alcuno, ne venne alla porta, e preso un buon chiovo, conficcò la mano del nostro fortissimo capitano in una di quelle tavole dell’uscio; e lasciandolo attaccato a così crudel modo, se ne salse sul tetto della sua casetta, e d’indi gridando quanto mai della gola gli usciva, e chiamando i vicini tutti per nome, e ricordando loro il ben pubblico, diceva che in casa sua era appiccato il fuoco: laonde i vicini, ognun per tema delle cose sue proprie, corsero prestamente a dargli aiuto. Trovandoci noi adunque nel mezzo di così taglienti forbici, e bisognandoci o abbandonare il compagno, o esser giunti tutti in sul furto, pigliammo, di suo consentimento però, quel miglior rimedio che ne porgeva la presente strettezza: e messo mano un di noi per un tagliente coltello, e menandogli uno gran colpo sulla appiccatura della spalla, che passò a sesta per la commettitura dell’osso, gli spiccammo il braccio, e dipoi fasciata la ferita, e rivoltatala con molti panni, a cagione che le gocciole di sangue non discoprissero, cadendo, donde noi eravamo andati, prestamente nel riportammo. E mentre che noi ce ne venivamo, forzati, per tema d’esser sopraggiunti, a darla a gambe, nè essendo abile quel valente uomo nè a correr quanto bisognava, nè a rimaner quivi senza manifesto pericolo della vita e di scoprirne tutti noi altri, dolendosi della sua disgrazia, e rammaricandosi, ci pregava per la buona compagnia, per la fede, e per lo saramento che era fra noi, che noi liberassimo il nostro buon commilitone e dalla pena del tagliato braccio, e dal pericolo dell’esser preso e messo a mille strazj: concioffussecosachè egli non era onore a uno fortissimo ladrone, come egli era, sopravvivere a quella rapace mano, colla quale egli era avvezzo a rubare, ad assassinare e sgozzare uomini; e che gli pareva essere assai beato, ogni volta che gli fusse concesso, volendo egli, morire con colpo d’amica mano. E accorgendosi finalmente, che egli non poteva persuadere ad alcun di noi, che spontaneamente commettesse così fatto [p. 82 modifica]omicidio, preso con quell’altra mano, che gli era restata, il suo coltello, e baciatolo più volte, con grandissimo impeto se lo ficcò pel mezzo del petto. Allora lodando noi e onorando lo egregio fatto e il valoroso animo del nostro capitano, raccogliemmo il restante del corpo suo; e ricoltolo assai diligentemente in una veste di panno lino, il gittammo in mare, a cagione che egli non fusse per alcun tempo conosciuto: e così ha ora il nostro capitano per suo sepolcro uno de’ quattro elementi tutto intero, avendo dato fine alla sua vita con quell’animo che meritavano le virtù sue. Che diremo noi di Truffaldino, il quale altresì non poteo rimuovere i crudeli cenni della Fortuna dalle vigilantissime imprese? perciocchè, avendo rotto la porta d’una casetta d’una addormentata vecchierella, ed essendo già salito nella camera, ed allora allora dovendola strangolare, prima volse gittare d’una finestra tutte le sue bazzicature, a cagione che noi via ne le portassimo, e avendo già ogni cosa strenuamente rassettato, per non perdonare eziandio al letto della dormente vecchia, presa una coltre colla quale ella si ricopriva, appunto su quel ch’egli la volea gittare donde erano quell’altre robe, la mala vecchia saltata giù del letto, e postosigli a’ piedi ginocchioni, disse: Deh dimmi, figliuol mio, per tua fe’, qual cagione t’indusse a scagliar queste mie miserie nella casa di questi vicini, dove riesce cotesta finestra? conciossiacosachè eglino sieno pur troppo ricchi da per loro. Dalle cui sagaci parole ingannato Menichido, e vere credendole, dubitando che quelle altre cose ch’egli vi avea gittate, non a’ compagni suoi ma nelle altrui case fussero pervenute, egli si fece a quella finestra, e spenzolandosi molto bene in fuori, per voler con diligenza considerare come stesse quella casa; avendo detto la mala vecchia ch’ell’era di uomini ricchi, e che robe vi potessero esser dentro; quel tristo fascio d’ossa, veggendolo spenzoloni ed immoto, ancorchè con picciola ma con repentina e inaspettata spinta ella il fece tombolare a capo di sotto: [p. 83 modifica]donde il miserello, oltre al cadere da alto, percuotendo sopra d’un sasso, che era appunto sotto alla finestra, rotte e fracassate tutte le costole, spargendo un fiume di sangue, avendoci racconto imprima il fiero caso, senza molto stentare passò di questo mondo: e noi datolo per compagno al primo, il sotterrammo in un medesimo sepolcro. Sicchè, privati, e percossi da doppia piaga, parendoci oramai tempo di lasciar l’imprese maritime, ce ne andammo in Ricanati, città assai vicina di Ancona; e quivi intendemmo che un gentiluomo di gran nominanza per que’ paesi, chiamato Democrate, doveva fare una caccia di molti e più silvestri animali. Era costui de’ primi della terra, ricco maravigliosamente, ma più liberal che ricco, e ordinava pubbliche pompe condecenti allo splendor della sua dignità. Chi avrebbe mai tanto ingegno, chi tanta facondia, il qual potesse con sufficienti parole esprimere il magnifico apparato di quelle feste? Quivi erano per combattere le prime spade della Marca, i più leggier cacciatori e i miglior corridori di quelle contrade; uomini usi a cavalcar tori, e combatter con simili fiere; castelli di legname, in guisa di queste casette che si portano in qua e là, con dipinture da maestra mano colorite, bellissimi ricettacoli della futura caccia. Quale, dopo tutte queste cose, era il numero delle fiere, e come terribili! E per esser quel Democrate caro a tutti questi paesi, e dilettarsi di pascere il popolo di questi spettacoli; e oltre a tutti gli altri sontuosissimi apparecchi di quella festa, non perdonando a spesa alcuna, egli aveva ragunato un numero incredibile di orse, e delle maggiori che fusser viste giammai: imperocchè, senza quelle che egli stesso si aveva prese in caccia, e quelle ch’egli avea comperate con ingordissimi pregi, glien’era state donate dagli amici suoi non piccolo numero; le quali egli tutte con larghissima spesa e con diligente cura nutricava. Nè potette imperciò un così leggiadro, un così ricco spettacolo, ordinato per pubblico piacere, fuggire i nocevoli occhi della perversa e mordace invidia: imperocchè quelle [p. 84 modifica]fiere orse, marcite per lo star tanto tempo rinchiuse, e per lo gran caldo della state consumate, e per lo lungo giacere pervenute languide, assalite da una repentina pestilenzia, si ridussero quasi a niente, nè si vedeva altro per le piazze, che qualcuna di loro giacersi là oltre mezza morta: e la meschina gente, la quale, senza guardare quel che si sia, è costretta dalla inculta povertà e dal vuoto ventre cercare quelle vivande che non costan cosa del mondo, prendendolesi, se le mangiava. Laonde, occorsoci un buon consiglio, io e il mio Berbulo quivi pensammo questa trappola. Noi pigliammo una di quelle orse, la quale ci pareva più grande, e infingendo di volercela mangiare, ne la portammo al nostro alloggiamento; e scorticatala destramente, lasciando imperciò l’unghie, e il capo sino in sulle spalle bello e’ ntero, e netto la pelle da ogni carne, e rasola molto bene, ci spargemmo su della cenere, e poscia la mettemmo al sole a rasciugare; e mentre che le fiamme del celeste vapore ne la purgavano, noi ci mangiammo le sue polpe valentemente; e convenimmo fra noi con giuramento, che uno, non quello che di corpo solamente, ma di animo, superasse tutti gli altri, coprendosi con quella pelle, e mostrando di essere una di quelle orse, se ne entrasse in casa di Democrate, e così per l’opportuno silenzio della notte desse la via di entrarvi ancora a noi. Nè fur pochi quelli del nostro valorosissimo collegio, i quali s’offerissero a così magnifica impresa; tra i quali fu eletto Trasilione, come uomo da far faccende: il quale, espostosi al giuoco della futura macchina, con serena fronte entro a quella pelle, già fatta molle e trattabile, si nascose, posciachè noi con sottile ago ve lo avemmo cucito, e colle folte setole ricoperte le costure, ch’elle non si potevan vedere in modo alcuno; e al confino, dove era stata tagliata la gola dell’orsa, avevamo fatto entrare il capo del forte compagno, e datogli luogo donde e’ potesse spirare e vedere; e fattolo parere una bella bestia, comperammo con picciol pregio una buona gabbia, e [p. 85 modifica]dentro vi mettemmo il nostro fortissimo Trasilione, e posciachè noi avemmo condotto la cosa sino a questo termine, in questa guisa demmo compimento all’avanzo del nostro inganno. Domandato dell’essere d’un certo Nicanore Albanese, il quale si diceva tenere grande amistà con quel Democrate, noi fingemmo certe lettere, che gli mostravano che il buon amico lo facesse, per cagione della bella festa, partecipe delle primizie della sua caccia: ed essendo già venuta la notte, ricopertici col mantello delle sue tenebre, noi presentammo insieme con quelle lettere adulterine la gabbia del nostro Trasilione; il quale, lodato la grandezza della bestia, e rallegratosi dell’opportuna liberalità dell’amico, comandò che a noi arrecatori de’ suoi piaceri fussero incontanente annoverati dieci ducati. Allora, come accade delle cose nuove, che sempre traggono a sè la moltitudine a rimirarle, infiniti uomini tutti pieni di maraviglia corsero a vedere questa bestia: i troppo curiosi sguardi d’alcun de’ quali se non che con minaccevole empito vietava il nostro Trasilione, egli era pericolo ch’e’ non ci facessero danno. Ora Democrate era tenuto per voce d’ognuno assai felice e beato, posciachè dopo la morte di tante bestie, comprandone di nuovo, egli resisteva a’ colpi della Fortuna. Il quale, come gliele parve aver veduta a suo piacere, e lasciatola vedere ad altri, e’ comandò ch’ella fusse menata fuori dove le altre, imponendo ch’e’ la portassero con grandissima diligenza. Allora io gli dissi: Guarda, signore, che essendo ella e per le gran vampe del sole e per la lunghezza del cammino assai bene stracca, che tu non la metta tra la moltitudine dell’altre, le quali anche, secondochè io ho inteso, non son molto sane. Che non la metti tu piuttosto in casa tua, in qualche luogo aperto, dove spiri un poco di fresco, e vi sia presso qualche poco d’acqua? Or non sai tu, che questa sorte di bestie dimorano sempre tra folti boschi, tra rozze spelonche, e freschi colli e ameni fonti? Impaurito Democrate per queste mie parole, e pensando [p. 86 modifica]seco al numero grande che egli ne aveva perdute, senza difficultà acconsentì alle mie ragioni, e agevolmente ci concedette che noi mettessimo quella gabbia ove meglio ci pareva. Noi, diss’io allora, siamo apparecchiati, quando bisogni, starci la notte appresso di lei; i quali sappiendo la natura sua, potremo, or che ella è stracca e affaticata, porgerle il cibo quando ne paresse il tempo opportuno. Non ci è mestier della vostra fatica, rispose Democrate allora; imperocchè quasi tutta la nostra famiglia, per la lunga consuetudine del governare, sa oggimai molto bene quel che faccia lor di bisogno. Nè guari andò dopo queste parole, che noi avendo detto addio, prendemmo commiato da lui: e usciticene un poco fuori della città, e’ ci venne veduto un luogo riposto così un poco fuor di strada, e appresso una chiesuola una sepoltura: perchè noi levatole il coperchio, che per la lunghezza del tempo era tutto guasto, e trovato che l’ossa de’ morti erano divenute tutte in polvere, facemmo pensiero che quello fusse assai opportuno luogo da nascondervi entro la futura preda: e per buona regola della nostra scuola, appostato il più tenebroso tempo della notte, quello, cioè, nel quale il sonno col primo impeto s’insignorisce de’ mortali, appresentammo la squadra nostra tutta armata, come buon mallevadori della promessa ruberia, innanzi alla casa di Democrate. Nè minor diligenza di noi aveva usata in quel mentre il nostro Trasilione; anzi, scelto appunto il tempo accomodato a far faccende, se n’era uscito della gabbia, e con un suo coltello aveva ammazzate tutte le guardie, insino al portinaio; e venutosene all’uscio, e volta la chiave, subito ce lo aperse. Perchè noi, senza indugio saltati dentro, fummo menati da lui a una guardaroba, dove egli, secondochè ci disse, aveva la sera dinanzi veduto ripor di molto argento: e come più tosto noi avemmo fracassato l’uscio, io ordinai che entrati tutti dentro ne portassimo fuori quello più che si poteva d’oro e d’ariento, e nascondendolo là oltre nelle case di quei fidelissimi morti, di nuovo con veloci passi [p. 87 modifica]ritornassimo per l’altra soma, ed io in quel mentre (la qual cosa era molto necessaria) resterei, finchè ritornassero, sulla porta della casa, per ispiare se alcuno movimento nascesse; immaginandomi infra me, che la figura di quell’orsa sarebbe stata troppo buona a tenere in tremore, se alcuno della famiglia di casa per avventura si fusse desta. Chi sarebbe mai stato quello, sia pure audace quanto vuole e senza paura, che per lo sozzo aspetto di sì gran bestia, e di notte massimamente, che non si fusse messo a fuggire, e stangato ben l’uscio, tremando e spiritando di paura, non si fosse rinvolto entro alla coltrice ben volentieri? Avendo noi con prudente consiglio ordinato tutte queste cose, egli ci accadde un fine assai lontano da quel che noi pensavamo: imperocchè, in mentre che io così sospeso aspettava i compagni che ritornassero, un fante di casa, il quale, per lo strepito ch’egli aveva udito, s’era desto, se ne venne pian piano a dove noi eravamo, per vedere che questo dir volesse: e veduto quella bestia andar per casa a suo piacere, e aver fatto sì grandissimo danno, cheto cheto diede volta addietro, e andossene a raccontare agli altri tutto quello ch’egli aveva veduto. Ne vi andò guari, che la casa s’empiè tutta di uomini, di torchj, di fiaccole, e di lucerne, sicchè le tenebre spariron via: nè vi fu alcuno fra tanta gente, che venisse senza arme, ma chi con istanghe, altri con lance, molti con ispade ignude; e in un tratto presero tutti i passi. Nè bastò lor questo, che fatti venire alcuni di quei cani da caccia con grandissimi orecchi e arricciati gli peli, gli aizzavano contro a quella bestia. Allora io mentre che ancor bolliva quel primo tumulto, preso così pian piano la via dell’uscio, me ne uscii di casa; e nascondendomivi dopo, vidi Trasilione resistere così valentemente a quei cani, che ancorachè egli si vedesse esser giunto allo estremo della sua vita, e’ non si dimenticava del comune nè del particolare onore, nè della pristina forza. Ed essendo già nelle fauci di Cerbero, faceva cose da non le credere; e ritenendo quella [p. 88 modifica]maschera ch’egli spontaneamente s’avea vestita, insieme colla vita, or fuggendo, or saltando, or difendendosi con vari gesti e con diversi modi, e’ fece tanto ch’e’ s’uscì di casa: ma non potè per questo schivar l’ultimo colpo della Fortuna; concioffussecosachè uno stuolo di cani assai fieri, ch’era in un portico ivi vicino, congiuntisi con quei di casa, che tuttavia lo seguitavano, in un tratto gli furono intorno. Io vidi il nostro Trasilione assediato da quella moltitudine di quei rabbiosi cani, stracciato e pertugiato da una infinità di morsi. Nè bastandomi l’animo a sofferire tanti dolori, messomi fra una schiera di quelle brigate ch’eran corse fuori, e cercando, con quello solo ch’io poteva, porgere aiuto al mio buon commilitone, dicea a’ caporali di quella caccia: Egli è pure un gran peccato lasciare ammazzar questo animale: noi perdiamo veramente una grande e una preziosa bestia. Ma poco aiuto porsero l’astuzie del mio parlare al misero giovane: imperocchè, uscendo non so chi di casa, grande e ben compresso, e messo mano per un lancione, gliene cacciò per mezzo delle budella; e un altro dopo lui, il [p. 89 modifica]somigliante facendo, fe’ che gli altri, posto giù la paura, facevano a gara chi le potesse dar delle coltellate. E Trasilione, veramente il perno di tutti noi, sentendo espugnare finalmente quello spirito ch’era degno della immortalità; non so se io mi debba dire più valentemente, che con una incredibile pazienza, sopportando, non colle grida, non coll’urla, nè con altro segno ruppe mai la fede del comune nostro saramento; tutto strambellato da’ morsi, sforacchiato dalle ferite, con infinite mugghia e ferino fremito, generosamente la presente fortuna sopportando; a sè riservò la gloria, e alla necessità de’ fati restituì la vita. Egli aveva, difendendosi nondimeno, messo tanta paura addosso a tutta quella moltitudine, che per infino all’alba, anzi levato il sole d’un buon pezzo, egli non vi fu alcuno tanto ardito, che pur con un dito toccasse la giacente bestia: se non che pure alla fine un certo beccaio, un poco più animoso che gli altri, assai pigramente accostatolesi, la sparò; e così tolse alla pelle dell’orsa il magnifico e generoso ladrone. E in questa guisa ne fu rapito il nostro Trasillone; ma a lui non puote già essere involato il pregio della sua florida gloria. Essendoci adunque intervenuto sì fiero accidente, noi altri senza dimora prese quelle poche robe che ne avevan conservate quei fedelissimi morti, con frettolosi passi abbandonammo il paese della Marca: e pensavamo per la via così fra noi, che egli si puote dire meritamente, che la fede non si truova tra noi viventi, ma che per odio della nostra perfidia se ne sia scesa allo Inferno, ed ivi stia dimorandosi co’ morti. E in questo modo, maceri per la gravezza delle robe, che noi avevamo portate addosso, e per l’asprezza della via stracchi e rovinati, morti tre de’ nostri compagni, avemo portata a casa questa preda che voi vedete. Dopo il quale ragionamento, coppe d’oro piene di vin puro in onore de’ morti compagni bevendo, all’usanza gentile fecero lor sacrificio, e poscia cantate non so che lor canzoni, si quietarono alquanto. [p. 90 modifica]

Mentre che coloro facevano fra loro così lungo ragionamento, la buona vecchia ci arrecò dell’orzo, e diedecelo con sì buona misura, che io mi penso che quel mio cavallo veggendone tanta copia, e tutto per lui, gli paresse essere ad una di quelle cene che facevano al tempo de’ Romani i sacri sacerdoti: ma ancorchè altra volta abbia mangiato sempre molto volentieri l’orzo ben pesto, e nella minestra bene acconcio; nientedimeno veduto un cantone dove erano stati messi tutti i pezzi del pane ch’eran loro avanzati alla cena, là me n’andai, e quivi esercitai le mascella, per lunga fame mal condotte e pien di fila, par un tratto come io volli. Venuta la mezza ora, i ladroni, levatisi del letto, mossero il campo, e misersi a ordine in più partito: una parte di loro con armata mano se n’andò alla espugnazion dell’altrui: un’altra, trasformatasi in ispiriti, con velocissimi passi se ne uscì fuor di casa ad ingannar questo e quello. Ma me non potè già impedir un grandissimo sonno che io aveva, ch’io biasciassi tutta quella notte: e ancorchè prima, quando io era Agnolo, come io aveva mangiato un pane, o al [p. 91 modifica]più due, io mi levassi da tavola; allora, avendo da empiere così gran ventre, io maciullai sino al terzo canestro; e stetti, per abbreviare, invasato tanto intorno a quell’opera, che il giorno mi assaltò. Pure allora, trafitto da una certa vergogna asinina, partendomi nondimanco malvolentieri, me ne andai ad un orto quivi vicino, e mi vi trassi la sete a mio diletto. Nè vi andò guari, che i ladroni tutti affamati e stanchi se ne tornarono a casa senza fardello alcuno e senza pure una vesticciuola aver seco; e con tante arme, quante egli avevano, e con ogni loro sforzo, e’ ne menarono una sola verginella: la quale piangendo a caldi occhi, e stracciandosi le ricche veste e i biondi capelli, col leggiadro volto, co’ modesti lineamenti, col nobile aspetto e una certa degnità matronale, dava indizio d’esser una delle prime fanciulle di quelle contrade. Ell’era finalmente così bella, che a me, così asino come io era, piacque ella maravigliosamente. Alla quale, messa che l’ebbero in quella caverna, poco conto facendo de’ suoi rammarichi, parlarono in questa guisa: Sii certa e sicura e della vita e dell’onore: ma però dona un poco di pacienza al nostro guadagno, acciocchè i tuoi genitori, facendoci parte della moltitudine delle loro tante ricchezze, ancorchè e’ ne sieno soverchio ingannati, soccorrano, col riscuoterti con pregio alla nobiltà del sangue tuo conveniente, a quegli i quali la necessità della povertà ha ridotti a fare quest’arte. E avendole cincischiate così là queste parole, indarno cercarono di consolare la poveretta, imperocchè ella allora, messosi il capo fra le ginocchia, piangeva più dirottamente che prima. Perchè essi, chiamata quella lor vecchierella, le comandarono ch’ella se le mettesse a sedere accanto, e con quel miglior modo ch’ella sapeva si sforzasse di confortarla. E così dicendo, uscitisene fuori, se ne ritornarono alle loro ordinarie faccende. Nè potè già la meschina giovane, per alcuni conforti che le desse la vecchia, lasciare ovver diminuire il grave dolore; anzi alzando più la voce, e tuttavolta rinforzando il pianto, [p. 92 modifica]e battendosi i fianchi, e percotendosi le tenere guance, m’empiè si di compassione, ch’ella fe’ grondare le lagrime ancora a me. E diceva la povera fanciulla: Dunque io misera, nata così altamente, uscita di sì ricca casa, toltami sì bella famiglia, abbandonata da tanti sergenti, involata del grembo de’ miei sommi genitori, fatta preda di così infelice rapina, divenuta di padrona di molti schiava d’assai, rinchiusa, come s’io fossi una vil fanticella, in così sozza prigione, privata di quelle delizie nelle quali io son nata e allevata, senza sapere quello che s’abbia a esser del fatto mio, avendo sempre avanti agli occhi questa crudel beccheria, trovandomi in compagnia di scelleratissimi ladroni, fra sì orrenda moltitudine di assassini, potrò io dar luogo al pianto? potrò pensar, vivendo, d’avere a sopportar tante e così fatte miserie? Lamentandosi adunque la povera meschina in questa guisa, ed essendo, per lo profondo dolor dell’animo suo, per le grida grandi che le avevano tutta riarsa la gola, per la stanchezza del corpo, tutta affannata, ella concesse gli umidi occhi ad un breve sonno. E a fatica aveva velato l’occhio, ch’ella si risentì; e cominciandosi affliggersi più che mai, come una cosa perduta, si percoteva il dilicato petto, e battevasi la splendida faccia. E perchè quella vecchiaccia con grande studio ricercava della cagion di questo nuovo dolore, ed ella più altamente sospirando le disse: Trista a me, ora certamente, ora senza dubbio alcuno sono io spacciata affatto: ora rinunzio io ad ogni speranza che io potessi aver della mia salute: o il capestro, o il coltello, o qualche gran precipizio bisogna che dieno fine alle mie angosce. Le quali parole udendo la mala vecchia, piuttosto turbatetta che no, le comandò ch’ella le dicesse che cosa la premeva di nuovo, e perchè dopo quel poco di sonno così repentinamente rinfrescasse il suo dolore. E che? Vorremmo noi, diceva, privar questi miei giovani della grande speranza ch’egli hanno del guadagno del tuo riscattamento? seguita pure di piagnere: che sì ch’io troverò [p. 93 modifica]modo che coteste lagrime ti gioveranno poco! Io so pure che questi miei ladroni ne sogliono far poca stima: in buona fe’, che se tu non muti verso, io ti farò bruciar viva viva. Impaurita adunque la tapinella per così fatte parole, voltossi a quella vecchia, e baciandole le mani, disse: Perdonami, la mia madre, e ricordevole della natia pietà degli uomini, soccorri alla mia perversa fortuna: io non mi persuado però, che per la lunghezza del tempo il fonte della misericordia sia però al tutto risecco in cotesta veneranda vecchiezza: misura adunque la tela della mia calamità, e porgi benigne orecchie alla cagione del mio nuovo dolore. Un bellissimo giovane, e fra tutti i suoi cittadini uno de’ principali, adottato da tutta la città come pubblico figliuolo, allevato e cresciuto sempre meco in una medesima casa, anzi in una medesima camera, e in un medesimo letto; il quale, avendo più di me tre anni, e con santo e perfetto amore amandomi, ed io lui, con consentimento de’ nostri padri mi prese per sua consorte: ed era già in sul celebrar delle nozze, accompagnato da infiniti cittadini e parenti comuni nelle pubbliche chiese, per udir meco insieme il santo verbo d’Iddio; e offerto il maraviglioso sacrificio, la casa mia era tutta coperta d’alloro, piena di fiaccole, nè vi si sentiva altro che festa: ed allora, quando la mia infelice madre, avendomi in grembo, mi adornava cogli ornamenti nuziali, e baciandomi spesso con una materna tenerezza, già si rallegrava de’ futuri nipoti; questi empi ladroni, in guisa di nimici soldati, incrudelendo coll’arme in mano lucide e rilucenti, non ad ammazzare uomini, non a rubar roba porser le mani, ma stretti in un tratto assaltarono la camera dove io era: nè resistendo loro alcuno della nostra famiglia, io misera, e quasi morta, rapita del grembo della mia madre, fui loro troppo onorata preda; e furono disturbate le nostre nozze, come fur già quelle, secondochè si dice, di Piritoo e d’Ippodamia. Ma ora si rinforza, anzi si raddoppia la malignità dello infortunio mio: oimè che ora mi pareva [p. 94 modifica]essere tratta per forza della mia casa, della camera, del letto finalmente, e per luoghi strani e inaccessibili chiamare il nome del mio sfortunatissimo consorte! Ed egli, come più tosto si vedeva privato de’ miei abbracciamenti, ancor tutto pieno d’odori e di profumi e di ghirlande di fiori, volendo seguitare chi con altrui piedi contra sua voglia velocemente lo fuggiva; e mentre che egli tutto infuriato per gridare come gli era stata rapita la moglie, chiama l’aiuto del popolo; uno de’ ladroni, commosso dalla indignazione della importuna persecuzione, preso un gran sasso che gli giaceva a’ piedi, e datogliele in sul capo, l’ammazzò. Io adunque, impaurita da così paurosa e orrenda visione, tutta tremante dal funesto sonno mi risvegliai. Allora la vecchia, mossa a compassion della sua disgrazia, sospirando anch’ella, le disse: Deh per mia fe’, sta di buona voglia, la mia fanciulla, nè ti spaventare per le vane figure del tuo sognare; imperocchè, oltre a che tu dèi sapere che le imagini de’ sogni del giorno son vane, eziandio quelle della notte riescono al contrario il più delle volte: il piangere, l’essere battuta, strangolata, alcuna volta significano presto e buon guadagno; e per lo contrario, il ridere, empiere il ventre di saporitissime vivande, prendersi delle dolcezze di Venere, riescono bene spesso con danno e vergogna di chi le sogna. Ma io con una mia bella novella, così vecchia come Io sono, mi voglio sforzare di levarti dal cuore tanta maninconia: e cominciò.


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Fu una volta un re in una certa città, e una reina, al tempo degl’Iddii, i quali avevano tre figliuole tutte e tre bellissime; ma le dua di più tempo, ancorchè, come io ti ho detto, fossero di singolar bellezza, potevan pure essere annoverate fra le donne umane: ma quella minore era adornata di sì maravigliosa e divina bellezza, ch’egli non sarebbe possibile esprimerla con [p. 95 modifica]umane parole. Finalmente, molti cittadini e forestieri, i quali venivano a rimirare così stupendo miracolo, attoniti per la indicibile leggiadria, mettendosi la man destra, col dito grosso sotto a quelli due che gli surgono accanto, in guisa di color che adorano, alla bocca, come se essa fosse stata Venere, religiosamente l’adoravano. E già era scorsa la fama per le città e per li paesi ivi vicini, e dicevasi che quella Dea, la quale il ceruleo mare partorì e la schiuma delle sue onde allevò, data pubblica copia della sua divinità, conversava nel mezzo della moltitudine degli uomini; o veramente, che per nuova disposizion delle stelle, non nel mare come l’altra volta, ma in terra una nuova Venere con virginali bellezze era piovuta. E più l’un dì che l’altro s’andava ampliando questa cotale openione, ed erane già sparsa la fama non solamente per tutte le città prossime, ma per le lontane provincie; e infinite schiere di mortali, molti mari solcando, lunghissimi viaggi facendo, concorrevano per vedere il miracolo di quella età. Nessuno a Pafo, nessuno a Gnido, niuno più a Citera per veder Venere navigava. I suoi sacrificj ei [p. 96 modifica]rimanevano da canto, i tempj rovinavano, i letti andavano male, le cerimonie erano abbandonate, i simulacri erano restati senza corona, e gli altari, divenuti vedovi, con fredde ceneri tutti macchiati ad ognuno si lasciavano vedere. Alla fanciulla si supplicava, la fanciulla si onorava, e nel volto umano si placava la Deità di Venere, e nel mattutino camminare della verginella con vittime e vivande si faceva propizio il nome di Venere. E già insino a’ popoli, mentre ella passava per le piazze, con fiori spicciolati e con ghirlande umilmente l’adoravano. Laonde la vera Venere, accorgendosi che le celesti cerimonie erano fuor di modo trasferite al culto d’una fanciulla mortale, grandemente si accese nell’animo suo; nè potendo aver più pazienza, piena d’indignazione, scotendo il capo altamente e fremendo, così diceva seco medesima: Ecco prima madre delle cose della natura, ecco principale origine degli elementi, ecco Venere nutrice di tutto ’l mondo, che ha compartito l’onore della sua maestà con una mortal giovinetta: ecco il nome mio nascosto nelle delizie de’ cieli, e fattosi palese fra le immondizie della terra. Gran fatto sarà per certo, se io con comune sacrificio dubiterò della scambiata mia venerazione, e adombrerà la immagine mia il volto d’una fanciulla, che dee morire! Indarno adunque quel pastore, la giustizia e la fede del quale approvò quel sommo Giove, per la mia eccessiva beltade mi prepose a tante Dee. Ma costei, chiunque ella sia, non si usurperà così allegra i miei onori: io farò ben io, ch’ella si pentirà di questa sua non lecita bellezza. E avuto a se quel suo figliuolo, quello alato e temerario, il quale co’ suoi perversi costumi disprezzando la pubblica disciplina, armato di fuoco e di saette, e discorrendo la notte per l’altrui case, e disturbando gli altrui matrimonj, commette senza tema e senza danno scelleratezze, e non fa mai altro che male; il quale, avvengachè per sua natia licenza e’ sia pur troppo rubesto, preso avendolo colle adirate parole, il menò a quella città; e mostratagli Psiche, che così era il [p. 97 modifica]nome della giovane, assai dappresso, e raccontogli come le cose eran passate, e dettogli della emulazione della bellezza, piangendo, e per la indignazione non potendo capir nella pelle, gli disse: Io ti prego, figliuolo, per lo legame della materna carità, per le dolci ferite delle tue saette, per le melate arsure di coteste tue fiamme, fa vendetta, ma altamente, della tua genitrice; e nella rubella beltà incrudelisci severamente, e fa che questa vergine arda veementissimamente dell’amor d’un uomo vilissimo, il quale abbia la Fortuna privato dell’onore, delle ricchezze, e d’ogni suo bene; e tale sia finalmente la sua miseria, ch’ella non trovi paragone per tutto il mondo. Ed insieme con queste parole abbracciandolo e baciandolo con quella più tenerezza ch’ella poteva, andatasene vicino al lito del mare, colle rosate piante calpestando la sommità delle risplendenti onde marine, non vi andò guari, ch’ella si ritrovò nel profondo; dove quello che appena ancora le ’ngombrava il desio, come se già l’avesse comandato, la ubbidienza dei marini Dei le ne procacciava incontanente. Eranvi le figliuole di Nereo, e dolcemente menando un ballo, con belle note vi cantavano una canzone: eravi Portunno colla schiumosa barba: eravi col seno pieno di pesci la Tara Salazia: eranvi i delfini carradori del giovane Palemone, solcando il mare da ogni canto; e le squadre de’ trombetti di Nettuno non si facevan desiderare. Questi colla sonora tromba faceva soavemente l’acque rimbombare; quelli con tenda di seta discacciava le vampe del nimico sole; quell’altro postosi innanzi a Venere ginocchioni, entro ad uno specchio le mostrava il suo grazioso volto; e molti sotto il suo carro destramente notando, co’ lor nuovi giuochi la empievano di diletto. E in cotal guisa accompagnava la piacevole moltitudine la madre dello Amore che s’era inviata verso l’oceano.

Stavasi in questo mezzo la giovinella Psiche senza prendersi alcun frutto della sua bellezza: era guardata da tutti, lodata da tutti; ma nessuno, non re, non signore, non gentiluomo, o della minuta plebe almanco, veniva a [p. 98 modifica]richiedere le sue nozze: guardavano con maraviglia il divin volto, ma come se e’ vedessero una statua di egregio artefice perfettamente condotta, niente altro di lei che vederla chiedevano. Dove che le altre due maggiori sorelle, la temperata bellezza delle quali non era divulgata così per tutto, essendo da due re loro amanti state chieste per ispose, già più tempo fa felicemente godevano la loro giovinezza. La povera verginella, restatasi in casa, inferma del corpo, malcontenta dell’animo, si piangeva la sua vedovanza; e quello ch’era grato ad ognuno, ella odiava in se medesima, la disordinata bellezza. E il misero padre, dubitando dell’odio de’ celesti Dei, non sappiendo altro che farsi, se n’andò dall’antico oracolo del milesio Apollo; e con ricchi doni, grassi sacrificj, e umili preci, adorando così grande Iddio, addomandò marito per la non richiesta giovane. Ma Apollo, ancorchè Greco e Ionico, e lo fondatore di Milesia, con toscana voce così risposi


Ferma questa fanciulla sopra un monte,
Con ornamenti di funebri nozze;
Nè genero sperare uomo mortale,
Ma fiero e crudo, e ripien di veleno:
Un che, volando, ognun stracca e fatica,
E col ferro e col fuoco strugge il tutto:
Del quale ha Giove tema e gli altri Dei.
Tremònne fiumi e le tenebre inferne.


Il già felice re, avendo udito le parole della terribile profezia, pigro e malcontento se ne ritorna a casa, e alla sua mogliera manifesta il comandamento del tremendo oracolo. Piangono, dolgonsi, lamentansi molti giorni; e già si appropinqua il tempo dell’atroce risposta: già si ordina l’apparato delle crude nozze; mutansi le allegre fiaccole in maninconosi torchj; cangiasi il suono de’ soavi flauti in urla querule e lamentevoli; e il lieto canto d’Imeneo si termina con mortifere strida: la nuova sposa col velo nuziale le copiose lagrime si rasciuga: e la città tutta malcontenta dello infortunio della dolorosa casa, mostra pubblico cordoglio; e [p. 99 modifica]per maggior dimostrazione del suo dolore, vieta con pene universali l’amministrazione della ragione. E venuto il giorno che la necessità della ubbidienza de’ celesti ammonimenti addomandava la miserella alla destinata pena, finite le crudeli cerimonie, fu tratto finalmente di casa il vivo mortorio, accompagnato con largo pianto da tutta la città; ed ella altresì tutta piena di lagrime accompagna non le nozze, ma l’esequie sue. E mentre che i maninconosi genitori, combattuti da tanto travaglio, indugiano di dare effetto alla crudele opera, la figliuola medesima con tali parole gli confortava: Perchè cruciate voi l’infelice vecchiezza con sì lungo pianto? perchè affaticate voi con così spessi gridi quello spirito, il quale più si dee chiamar mio che vostro? perchè con non profittevoli lagrime imbrattate voi quelle guance, che dovrebbono esser da me mai sempre onorate? perchè lacerate voi negli occhi vostri le luci mie? perchè stracciate ne’ canuti crini i miei biondi capelli? perchè il venerando petto, perchè le sante mammelle percotendovi, mi percotete le mie? Questo dunque vi sarà ricco premio della mia non mai simile veduta bellezza, procacciatovi con piaga mortale dalla inquietissima invidia? Tardi oramai, tardi vi accorgete del vostro male. Quando la moltitudine della gente mi celebravano con divini onori, quando per comune voce mi appellavano una nuova Venere, allora vi dovevate dolere; allora ve ne doveva rincrescere; allora mi dovevate piangere come morta. Già conosco io, già mi accorgo che io perisco solamente per lo nome di Venere. Menatemi adunque, e, dove la sorte mi ha giudicato, fermatemi a quello scoglio. Io bramo goder con prestezza queste future nozze: io desidero vedere quel mio generoso marito. Perchè differisco io? Perchè fuggo io, facendomisi innanzi colui ch’è nato per la rovina di tutto ’l mondo? E avendo detto loro la verginella queste e altre così fatte parole, con veloci passi mossasi nel mezzo della pompa del popolo che la seguitava, arrivarono al disegnato luogo. E poscia [p. 100 modifica]ch'egli ebber condotta la fanciulla nella sommità dello scoglio, abbandonate e lasciate quivi le fiaccole, le quali colle infinite lagrime avevan già spente, a capo basso tutti a casa se ne tornarono. E i miserandi genitori per l’angoscia di tanto travaglio, divenuti schifi della luce, serratisi in casa, si diedero alle tenebre d’una perpetua notte. Restata adunque la ubbidiente Psiche sulla cima di quello scoglio, tutta tremante e piangendo sempre si stette, insino a tanto che Zefiro colla sua piacevole aura dolcemente percotendola, col suo tranquillo fiato le fece seno della sua veste e dall’un fianco e dall’altro: il quale per la scesa d’una gran valle, che lì appiè si giacea, leggiermente portandola, posò nel fiorito grembo de’ suoi rugiadosi cespugli.


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