L'Utopia (1863)/Libro secondo/Pellegrinaggi degli Utopiensi
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Pellegrinaggi degli Utopiensi.
Se alcuno brama di vedere qualche suo amico che stia in altra città, oppure la città stessa, ottiene facilmente licenza di andarvi dai suoi Sifogranti e Tranibori: purchè non sia qualche bisogno dell’opera sua. Mandasi alcun nunzio con un’epistola, che significa aver egli licenza di andarvi, e gli assegnano il giorno pel ritornare. Se gli dà un carro con un servo pubblico, che guidi e governi i buoi. Se non ha femmine in compagnia, rimanda il carro, per non aver seco tale impedimento. Quantunque nulla porti con sè, alcuna cosa, tuttavia non gli manca per viaggio, perchè ovunque si trova, è in casa sua. Stando in un luogo più che un dì, ciascuno ivi esercita l’arte sua, ed è trattato umanamente dagli artefici a lui simili. Se alcuno da sè stesso, senza licenza in iscritto del principe, è trovato andare fuori dei suoi confini, e viene pigliato, è come fuggitivo ridotto nella città, ove si vede gravemente punire. Se di nuovo commette tale errore, è punito con servitù. Nondimeno ognuno può andar diportandosi per i campi della sua regione, avendone licenza dal padre, e consentendolo la moglie. Ma in qualunque villa perviene, non gli è dato mangiare, se prima non fa quant’opera è tenuto innanzi desinare o innanzi cena. Con questa legge può ciascuno andare per i campi tra i suoi confini; perciocchè tanto gioverà alla città, quanto se fosse in quella. Vedete già quanto sia loro vietato lo stare in ozio, senza niun colore di darsi alla dappocaggine. Non hanno magazzini da vini nè di cervogia, nè luogo pubblico da meretrici, niun luogo da nascondersi, niun ridotto di vizj; anzi la presenza di tanti occhi fa la fatica onesta parer necessaria. Al costume di questo popolo segue di necessità l’abbondanza, la quale tra tutti si divide, e così non può essere tra loro alcun bisogno. Nel senato amaurotico ove, come dicemmo, ogni anno concorrono tre di ogni città, essendo manifesto che una città abbia copia di qualche rendita, della quale un’altra sia bisognosa, si provvede che la copia di una supplisca alla povertà dell’altra senza prezzo alcuno. Anzi la città che dalla sua copia avrà aiutato l’altra, senza pigliar da quella cosa alcuna, ricorre ad una terza per qualche oggetto, di che ella ha bisogno: quantunque non le abbia dato il minimo che. Così tutta l’isola è come una sola grande famiglia. Poichè è provveduto agli interni bisogni, il che non giudicano aver fatto, se non si assicurano per due anni, essendo incerta la raccolta del seguente, quanto avanza, cioè gran copia di frumento, miele, lana, lino, zafferano, porpore, veli, cera, sevo e cuoio, ed anco animali, portano ad altre regioni, alle quali donano del tutto la settima parte, in pro degli indigenti, ed il rimanente vendono per mediocre prezzo. Di questo commercio riportano a casa non solamente le merci, delle quali hanno bisogno nell’isola, che è per lo più il ferro, ma eziandio buona somma d’argento o di oro. E da tale continua consuetudine sono di tali cose mirabilmente copiosi. Perciò non hanno differenza dal dare in credenza a toccare il danaro, anzi fanno il più in crediti. Benchè fanno pubblici istromenti, e vogliono che vi concorra l’autorità dei luoghi, ove danno in credenza, e questa riscotendo a tempo i danari dei debitori, li mette nell’erario e ne cava la usura fin a che gli Utopiensi li dimandano; i quali non mai riscuotono di quelli la maggior parte, non parendo loro cosa giusta pigliare dagli altri quello, di che essi non si accomodano, e i debitori pigliano frutto. Quando avviene che vogliano prestare ad altra città danari, li pigliano da quella che è loro debitrice; ciò pur fanno accadendo guerreggiare, al che riservano tutto quel tesoro, che tengono nell’erario per servirsene negli estremi pericoli e subiti casi (specialmente quando soldano con grossi stipendj soldati esterni, i quali più volentieri mettono in pericolo che i loro cittadini) perchè sanno di certo che gl’inimici ancora si sogliono comperare con danari. A quest’effetto conservano un tesoro inestimabile, non già come tesoro; ma mi vergogno narrare in che modo lo tengono, temendo che non mi sia creduto, specialmente che io non lo crederei a me stesso, se cogli occhi propri non l’avessi veduto. Ed è necessario che ogni cosa sia meno credibile, quanto ella è dai costumi di chi la sta ad udire lontana; benchè l’uomo prudente forse meno si meraviglierà, vedendo i loro istituii tanto dai nostri dissimili, se ancora l’uso dell’oro e dell’argento più si accomoda ai loro costumi che ai nostri. Certamente non usando essi il danaro, ma tenendolo per quei casi che forse non avvengono mai, l’oro e l’argento non è più stimato di quanto merita per sua natura, cioè a giudizio di tutti è inferiore del ferro, il quale a noi è tanto necessario, quanto il fuoco o l’acqua. E già veggiamo l’oro e l’argento non aver dalla natura virtù alcuna, della quale non possiamo mancare; se non che la sciocchezza umana l’ha tenuto in prezzo, perchè si trova di raro. Anzi la natura come pia madre ha posto negli occhi di tutti quelle cose, che sono ottime, come l’aria, l’acqua e la terra, ed ha nascosto quelle che poco giovano. Se essi rinchiudessero questi metalli in una torre, potrebbe il popolo sospettare che il principe od il senato ne pigliasse qualche comodo, ingannando in qualche guisa il popolo. Se poi ne facessero vasi, quando venisse occasione di volerne far moneta per pagare i soldati, forse spiacerebbe a molti privarsi di quei vasi che usato avessero ai loro comodi. Essi per provvedere a tali cose, hanno siccome nelle altre cose, trovato una via molto simile ai loro istituti, e dai nostri dissimile, la quale non sarà facilmente creduta, se non dagli uomini esperti. Essi bevono in vasi di terra e di vetro bellissimi, e fanno vasi da immondizie e da orinare d’oro e d’argento, ed anche catene e ceppi. A quelli che sono infami pongono in dito, e attaccano alle orecchie, anelli, o catene d’oro al collo, e con oro cingono ad essi il capo. Così pongono ogni loro studio che l’oro e l’argento appo i loro popoli sia vilipeso. Così avviene che questi metalli tanto grati alle altre nazioni, sono tanto vili appigli Utopiensi, che perdendoli tutti, non parrebbe loro di aver perduto un danaro. Raccolgono nei lidi perle, e nelle rupi diamanti e piropi, i quali non vanno cercando, ma avendoli trovati, li puliscono. Con questi ornano i fanciulli, i quali si gloriano di tali ornamenti, e ne divengono arroganti; ma poichè sono cresciuti, e veggono che solamente i fanciulli usano di simili inezie, senza essere dai padri ammoniti, per vergogna le lasciano, siccome i nostri, poichè sono grandicelli, gittano le noci, i giocherelli e simili inezie. Quanti diversi effetti partoriscono negli uomini questi diversi istituti, non mai mi è paruto vedere tanto manifestamente, quanto negli ambasciatori degli Anemolj1. Questi erano giunti ad Amauroto, mentre ch’io mi vi trovava: e perchè venivano a trattare di gran cose, tre cittadini di ogni città aveano precorso il loro arrivo; e parimente gli ambasciatori delle genti vicine, venuti prima. I quali sapendo i costumi degli Utopiensi, che non onorano gli abiti sontuosi, e poco apprezzano l’oro, anzi è tra loro biasimato, usavano presentarsi in vesti quanto meno potevano sontuose. Ma gli Anemolj, ch’erano poco lontani, e aveano poco commercio cogli Utopiensi, intendendo come tutti vestivano rozzamente, si diedero a credere, che facessero questo per povertà, onde più arroganti che savi determinarono di mostrarsi come Dei cogli abiti ornati, e muovere i miseri Utopiensi a meraviglia. Così entrarono nella città tre ambasciatori con cento in compagnia vestiti a vari colori, e molti di seta. Gli ambasciatori, che erano nobili nel paese loro, aveano manti e collane d’oro, anelli d’oro pendenti dalle orecchie, ed altre collane pendenti dai capelli, con gioie e perle lampeggianti: ed in somma erano ornati di quelle cose, che sono appo gli Utopiensi o supplicj de’ servi, o biasimi d’uomini infami, ovvero inezie di fanciulli. Era un giuoco mirare come si mostravano arroganti, quando faceano comparazione dal loro ornamento al vestire degli Utopiensi, perchè tutto il popolo si era ridotto in piazza. Considerate ora quanto si trovarono ingannati della loro speranza, e lontani da quello che immaginavano di ottenere. Questo loro ornamento fu giudicato cosa vergognosa dagli Utopiensi, eccetto da pochi, i quali per giuste cause erano stati a vedere altre nazioni; per il che salutando per signori ogni minimo servo di quelli, pensarono che gli ambasciatori fossero servi e non gli onorarono punto. Avresti veduto i fanciulli che avevano gettato le perle e le gioie, quando le videro pendere dai capelli degli ambasciatori, mostrargli alle madri dicendo: Eccoti o madre quello sciocco, che usa perle e gioie come se fosse un bambino. La madre da dovero diceva: taci figliuolo, perchè forse colui è un buffone degli ambasciatori. Altri biasimavano quelle catene d’oro con dire che erano tanto sottili, che un servo le potrebbe rompere, e tanto larghe, che se le potrebbe levare dal collo e fuggire. Gli ambasciatori stati ivi due giorni, e vedendo quanto a vile vi era tenuto l’oro, anzi più biasimato appo gli Utopiensi, che non era appo loro in prezzo: e mirando le catene e i ceppi di un servo fuggitivo, nei quali era più oro ed argento, che non valeva ogni ornamento di tutti tre, deposero ogni lor vago portamento, del quale prima andavano arroganti. Poichè parlarono cogli Utopiensi, compresero come si maravigliavano che un uomo potesse mirare una gioia lampeggiante, al quale fosse lecito di mirare le stelle e il sole: e che alcuno si riputasse più nobile per il filo di lana più sottile, quando che quello pure è stato portato da una pecora, la quale perciò non è più che pecora. Si meravigliano ancora che l’oro di sua natura così inutile tanto venga stimato dalle altre genti, che l’uomo, per causa del quale l’oro è in pregio, sia meno stimato che l’oro, in tanto che alcuno rozzo e stupido tenga in servitù molti uomini dabbene e savi, solamente perchè possede molti danari. I quali se per fortuna o per qualche sottilità delle leggi fossero condotti in mano del peggior servo di quello, sarà egli astretto farsi servo del suo servo, solamente per questo mutamento di posseder danari. Mi maraviglio ed abbomino quelli che danno ai ricchi quasi gli onori divini, non perchè loro siano obbligati, nè debitori, ma solamente perchè sono ricchi, benchè non sperino, vivendo quelli, aver pur un danaro de tanti che possedono, conoscendoli miseri ed avari. Queste e simili opinioni hanno bevuto gli Utopiensi parte col latte nella fanciullezza, parti negli istituti della repubblica, i quali da ogni inezia sono molto alieni, e parte dalla dottrina. E benchè non molti sono in ciascuna città esenti dalle fatiche ed applicati alle lettere, cioè quelli soli che dalla fanciullezza mostrano acuto ingegno, e l’animo inchinato alle buone arti, tuttavia tutti i fanciulli vengono ammaestrati nelle lettere e buona parte del popolo, maschi e femmine, occupano in istudj quelle ore che avanzano loro da lavorare. Imparano le scienze nella loro favella, la quale è copiosa di parole, soave ad udire e innanzi ogni altra fedelissima interprete dell’animo. Questa istessa, benchè in molti luoghi corrotta e diversa, in ogni parte di quel clima è in uso. Prima che vi andassi, non avevano pur udito il nome di quei filosofi, che sono di qua illustri; nondimeno essi hanno trovato in musica, logica, aritmetica e matematica quasi le istesse cose, che trovarono i nostri antichi. Ma siccome ragguagliano quasi in ogni cosa gli antichi, così colle nuove invenzioni di logica sono molto inferiori: perchè non hanno niuna regola delle restrizioni, amplificazioni e supposizioni trovate acutamente nella logica, che tra noi da fanciulli s’impara. Le seconde intenzioni tanto sono dal loro discorso lontane, che non possono comprendere l’uomo in comune ed universale, quantunque noi l’abbiamo fatto grande come un gigante e quasi lo mostriamo a dito. Ma nel corso delle stelle e movimento dei cieli sono peritissimi; ed hanno trovato stromenti di figure diverse, colle quali comprendono a pieno i movimenti del sole, della luna e delle stelle, che sono nel loro orizzonte. Non sanno cosa alcuna dell’amicizia ed inimicizia delle stelle, nè dell’astrologia indovinatrice, anzi ingannatrice. Conoscono molto avanti le piogge, i venti e le tempeste per certi lor segni. Ma circa le cause di tutte le cose, del corso e salso del mare, ed in somma dell’origine e natura del cielo e del mondo, dicono parte come i nostri filosofi; parte son come quelli di vario parere. Circa la filosofia morale, disputano delle stesse cose come noi. Ragionano dei beni dell’anima, del corpo e degli esterni; se tutti si possono chiamar beni, o solamente quelli dell’animo. Disputano della virtù e della voluttà, ma la principale controversia tra di loro è in qual cosa consista la vera felicità dell’uomo, ovvero se consista in più cose. Ma inchinano più del giusto a credere che nella voluttà consista il viver felice. E si servono a questo della religione, la quale però appresso di loro è grave e severa: nè mai disputano della felicità, che non uniscano insieme alcuni principj tolti dalla religione e dalla filosofia. Senza i quali pensano che la ragione umana sia tronca e debole ad investigare la vera felicità. Quei principj sono tali; che l’anima e immortale, nata per benignità di Dio alla felicità; che alle virtù e buone opere nostre sono assegnati i premi, ed alle scelleraggini i supplicj. Benchè tali principj vengano dalla religione, tuttavia pensano che siano con ragioni e fondamenti umani condotti a crederli, ed a concederli, e levali via questi, confermano arditamente, che ciascuno quantunque stupido è astretto di cercare la voluttà a dritto e a torto: e solamente ha da mirare che un minor diletto non impedisca il maggiore, onde ne segua qualche affanno, che annulli l’avuto sollazzo. Perchè il seguire la virtù, così aspra e malagevole, e non solamente cacciar da sè il vivere soave, ma sofferire ancora spontaneamente i dolori, non porta frutto alcuno, se dopo morte non ne segue alcun premio, avendo passato la vita miseramente: e questo giudicano estrema pazzia. Tuttavia non pongono la felicità in ogni voluttà, ma solamente nell’onestà, perchè la natura è tratta a quella, come ad un sommo bene dalla virtù, nella quale sola la parte avversa mette la felicità. Questi dicono che la virtù è un viver secondo la natura, e che siamo creati a questo disposti. E che segue la Natura, colui il quale nel bramare e fuggire le cose ubbidisce alla ragione, la quale primieramente muove gli animi umani ad onorare la divina maestà, alla quale siamo tenuti dell’essere, e per cui siamo capaci della felicità; secondariamente ci ammonisce e desta, che cerchiamo di vivere lietamente con minore ansietà che si può, e che aiutiamo gli altri ad ottenere questo bene, per la naturale compagnia che è tra noi. Niuno mai ha seguito tanto rigidamente la virtù, nè dato si è tanto ostinatamente alle fatiche e vigilie, ch’egli non sia stato pronto ad alleggerire le altrui miserie, ed a commendare per cosa umana che l’uomo studi a giovare all’uomo e mitigando i travagli di quello, ricondurlo dalle miserie a vita tranquilla e sollazzevole. E perchè non debbe la satura istigarci che facciamo lo stesso ufficio verso noi stessi? Perciocchè o la vita sollazzevole e gioconda è cattiva, e non solamente non devi porgere aiuto ad alcuno di ottenerla, anzi quanto puoi devi privarne ciascuno, come di cosa perniciosa e mortifera: o è buona, e tanto più devi procurarla a te stesso, a cui non meno sei tenuto di provvedere che agli altri. Dicono adunque: la natura ci assegna la vita gioconda, cioè la voluttà, come un fine di tutte le opere nostre; e vogliono che il viver secondo la natura sia il vivere virtuoso. Ma invitandoci la natura ad aiutarci l’un l’altro (il che fa ella meritamente, quando che niuno è di tanta dignità, che la natura si pigli cura di lui solo, perchè essa porge il seno a tutti quelli, ai quali ha dato una forma comune) essa stessa veramente ti ammonisce, che non procuri i tuoi comodi con l’altrui incomodo. Vogliono adunque che si osservino le convenzioni fatte tra privati uomini, ed anche le pubblici leggi fatte da buon principe, o da un popolo che non sia oppresso da tirannia, le quali assegnano il modo a comunicare i comodi e godere le voluttà. Gli è poi gran prudenza se, non offendendo queste leggi, si cerca il proprio comodo, ed è singolare pietà studiare al comodo universale. Ma egli è strana e spiacevole ingiuria volersi pigliare sollazzo con altrui dispiacere: ed è singolare benignità spogliare sè medesimo di qualche sollazzo per accomodarne altri; il che tuttavia riporta comodo uguale al danno che se ne sente; perchè viene con beneficj ricompensato; e la coscienza dell’opera buona, con la memoria della carità e benevolenza di coloro ai quali hai fatto beneficio, porta all'animo più diletto che non avrebbe dato quella voluttà corporale, dalla quale ti sei astenuto. Finalmente (come la religione persuade all'animo umano) Iddio con perpetua allegrezza ricompensa una breve voluttà. Così vogliono che si considerino le operazioni nostre e tra queste le virtù, mirando finalmente alle voluttà che sono dalla felicità il fine. Chiamano essi voluttà ogni movimento o fermezza di animo o di corpo, nel quale l'uomo della natura guidato si diletta trovarsi. Nè senza causa vi aggiungono l’appetito della natura. Perchè siccome non solamente il sentimento, ma la dritta ragione segue ogni cosa, che è per natura gioconda, alla quale non si vada con ingiuria altrui, né perdendo maggior sollazzo, o incontrando fatica; così quelle cose reputano inutili alla felicità, che sono dagli uomini contra l’ordine di natura reputate dolci: anzi le tengono per nocive, quando che avendo una fiata occupato l’uomo, tanto lo adescano con falso diletto, che non lo lasciano pigliar piacere dei veri sollazzi. Sono veramente assai cose, che di loro natura non hanno alcuna soavità, anzi non poca amaritudine; ma per il diletto dei tristi piaceri non solamente sono annoverate tra le più gioconde voluttà, ma eziandio tra le principali cause della vita nostra. Tra queste sorta di falsa voluttà annoverano la soddisfazion di coloro, i quali per esser meglio vestiti, si reputano migliori; nel che pigliano doppio errore, riputando migliore la loro veste, che l’altrui, e sè medesimi degli altri più degni. Qual maggior dignità ha il filo di lana più sottile che il grosso, considerando l’uso della veste? Tuttavia molti si tengono da più, per esser più pomposamente vestiti, e si sdegnano, quando non si veggono stimare più che gli altri, il che è una sciocchezza considerando quanto sia vano l’onore dagli abiti causato. Che natural diletto porge, che alcuno si cavi la berretta o pieghi le ginocchia ad onorarti? Ti gioverà bene questo a levarti il dolore del capo o dei ginocchi? Quanto soavemente impazziscono in questa falsa immagine di voluttà coloro, che si tengon nobili, per esser nati da progenie, la quale per molte età sia stata ricca, quando che non conoscono altra nobiltà: benchè non si tengono men nobili, quantunque non sia lasciata loro da’ maggiori alcuna facoltà, ovvero essi l’abbiano consumata. A questi si aggiungono coloro che si dilettano di gioie, e si reputano Dei, quando avviene che ne abbiano qualcuna di gran prezzo, e molto stimata a sua età. Non la comprano legata in oro, anzi la vogliono nuda, e con sicurtà che sia buona, tanto temono di essere ingannati. Nondimeno all’occhio umano tanto diletta una gioia fina quanto una finta, non discernendo una dall’altra. Dovrebbe tanto valere la gioia fina come la finta appresso di te, che non sei in questo giudizio differente da un cieco. Che diremo noi di coloro che conservano soverchie ricchezze solamente per mirarle a lor sollazzo? Godono essi la vera felicità, oppure si trovano ingannati da falsi diletti? Ma quei che nascondono il tesoro, il quale forse non più vedranno, stando in pensiero di non perderlo, lo perdono. Mettendolo sotterra, ove nè a te ne agli altri può servire, nondimeno tu li rallegri poichè hai nascosto il tesoro: e stai con l’animo sicuro. Se alcuno però te lo rubasse dieci anni prima che tu morissi, ove tu ignori un tal furto, che nocerebbe esso per tutto questo spazio alla tua felicità? Fra gli amatori di vane allegrezze annoverano gli Utopiensi i giocatori di dadi o di carte, i quai giuochi solamente per nome conoscono, e parimenti i cacciatori e gli uccellatori, e dicono: Che sollazzo è gettare i dadi, poichè gettandoli spesso l’uomo dovrebbe saziarsi? non è piuttosto un fastidio udir abbaiare i cani? che maggior diletto è veder un cane seguire la lepre, che un cane l’altro cane? perchè veramente si vede la velocità del correre a questo ed a quel modo. Se ti diletta veder straziare ed uccidere quell’animaletto, dovresti piuttosto muoverti a pietà mirando la lepre impotente, fuggitiva, timida ed innocente esser stracciata dal cane gagliardo, feroce e crudele. Così gli Utopiensi hanno rifiutato al tutto quest’esercizio del cacciare; come arte conveniente ai beccaj, la quale hanno commessa ai servi. Anzi giudicano che il cacciare sia di quella la più infima parte, stimando le altre più utili ed oneste, quando si ammazzano gli animali per la necessità del vivere umano, laddove il cacciatore solamente si piglia piacere della morte del misero animale. Il qual desiderio pensano essi che nasca da un animo alla crudeltà disposto. Queste ed altre cose innumerabili, delle quali gli uomini altrove pigliano diletto, sono appo gli Utopiensi sprezzate, come di niuna soavità; e benchè piacciano al volgo, il quale pervertendo la natura, reputa dolci le cose amare: siccome le femmine gravide, le quali tengono la pece ed il sevo per più dolce che il miele, perchè hanno corrotto il gusto; il quale però non può mutare la natura di niuna cosa, e specialmente della voluttà. Fanno diverse specie di voluttà; alcune assegnano al corpo, alcune all’anima. All’anima danno l’intelletto e quella dolcezza che nasce dal contemplare la verità. Vi si aggiunge la gioconda memoria di aver vissuto bene. La voluttà del corpo dividono in due forme, e la prima secondo essi, è quella che diletta il sentimento e ristora le parti che sono in noi da calor naturale consumate, il che si fa col cibo e col bere: perchè evacuandosi il corpo nel mandar fuori le cose soverchie scaricando il ventre, o generando, o levando il prurito in qualche parte è di mestieri che sia riempiuto. Evvi un’altra voluttà, che non dona ai sentimenti nostri cosa alcuna da loro bramata, nè di alcuna li priva, ma solamente con occulta forza porge loro diletto: come è la musica. Mettono un’altra forma di corporal voluttà, la quale consiste nel quieto e tranquillo stato del corpo: e nomasi da tutti sanità. Questa, non essendo da qualche dolore afflitta per sè stessa, diletta senz’altro sollazzo esteriore. E quantunque essa non si mostri così manifestamente ai sentimenti, come la voluttà del mangiare e del bere, tuttavia tutti t’hanno per grandissima voluttà, e gli Utopiensi la tengono per fondamento di ogni sollazzo, senza il quale ogni voluttà e nulla. Perchè mancare di dolore senza sanità, è piuttosto uno stupore che un sollazzo. Quella opinione che dice la sanità non essere voluttà, perchè non si sente, se non con qualche esterno movimento, e da loro al tutto rifiutata. Anzi tutti concordevolmente affermano la sanità essere una speciale e primaria dilettazione. E dicono: se nella infermità è il dolore, mortal nemico della voluttà, perchè non sarà nella quiete della sanità una giocondezza singolare? Non fanno differenza che si dica l’infermità istessa esser dolore, ovvero il dolore esser l’infermità, perchè ne riesce la medesima sentenza. Ma se la sanità è la voluttà istessa, ovvero necessariamente partorisce voluttà, come il fuoco produce caldo, veramente ad ogni modo segue, che la ferma sanità riesca una vita gioconda. Oltre di questo dicono, quando mangiano ristorarsi col cibo la sanità, la quale per la fame cominciava ad indebolirsi; e quando è tornata al solito vigore, sentiamo la giocondità del mangiare, tanto maggiormente, quanto la sanità è più robusta. Così appare esser falso quello che taluni asseriscono, che la sanità non si sente. Il che non può avvenire in uomo che non sia stupido, e per conseguente non sano. Abbracciano adunque primieramante quelle voluttà dell’animo (che sono appo loro le principali) le quali sanno che nascono da virtù e dalla buona coscienza. Ma pongon la sanità innanzi ad ogni altro corporeo diletto. Nè vogliono che si brami il mangiare ed il bere o altra voluttà, se non per conservare la sanità. Perchè non sono tali cose da loro istesse gioconde, una in quanto mantengono la sanità. Però debbe il savio piuttosto cercare di non essere occupato dall’infermità, che bramare la medicina; di tener lungi i dolori, che d’aver bisogno di voluttà, le quali si conviene temperare. Se alcuno per esse si tiene beato, egli è astretto di confessare che allora sarà felicissimo, quando da fame, sete, pizzicore sarà travagliato, le quali cose veggiamo manifestamente esser sozze e misere. Queste adunque sono le meno sincere voluttà, le quali ci avvengono solamente per medicare ai contrari dolori; perchè col diletto di mangiare si accompagna la fame, e con legge non uguale. Perchè il dolore tanto è più lungo, quanto è maggiore; e nascendo innanzi al piacere, non si estingue se non insieme col piacere. Stimano essi poco queste voluttà, se non quando la necessità li stringe di usarle. Nondimeno godono queste ancora, e ne ringraziano la natura madre, la quale adesca con soavità i suoi figliuoli a quello che era necessità che si facesse. Con quanto fastidio vivremmo, se avessimo a cacciar la fame e la sete con pozioni e veleni, siccome cacciamo le altre infermità? Ma abbracciano lietamente la bellezza, le forze e la destrezza, come doni giocondi e propri della natura. Gli altri sollazzi che per le orecchie, per gli occhi e per le nari passano all’anima, i quali sono propri dell’uomo (perchè niuno animale considera la bellezza del mondo, nè sente gli odori, se non quanto fa mestieri per discernere il cibo, nè si diletta della varietà dei suoni) questi dico volentieri accettano. In tutti però tengono tale misura che il maggior sollazzo non sia dal minore impedito. Ma sprezzare la bellezza, diminuire le forze, mutare la destrezza in pigrizia, estenuare con digiuni il corpo, fare ingiuria alla sanità, e rifiutare gli altri sollazzi dalla natura a noi concessi, se non fosse per giovare alla repubblica, reputano una sciocchezza, e che questo nasca da un animo crudele e ingrato alla natura, i cui beneficj rifiuta, come sdegnandosi di essergliene debitore, e specialmente facendosi questo per una vana ombra di virtù, ovvero per sopportare con minor dispiacere le avversità, le quali forse non mai verranno. Questo è il loro parere circa la virtù e la voluttà; e se Dio non ne inspira ad essi un migliore, credono che non se ne trovi altro più saggio. Non mi occuperò a disputare della verità della loro opinione, perchè non lo concede il tempo; ed io mi sono posto a narrare gl’istituti degli Utopiensi, non a difenderli. E siano questi decreti quali si vogliano, io tengo di certo che non si trovi più degno popolo, nè repubblica più felice. Sono di corpo agile e vigoroso, e di maggior forze che non promette la loro statura, la quale però non è picciola. E quantunque il loro terreno sia mal fertile, e l’aria poco sana, tuttavia con temperato vivere si mantengono contro l’aria, e con l’industria vincono la terra di maniera, che in niun luogo vengono più copiosi ricolti, nè animali meglio nodriti, ed i corpi umani più vivaci e meno alle infermità soggetti. Perciò non vedrai solamente fare da loro quelle opere, che fanno i lavoratori altrove per vincere la malignità del terreno. Anzi ivi si vede una selva cavata dalle radici ed un’altra piantata altrove; nel che non si è considerata la fertilità del terreno, ma il comodo di condurre i frutti, le legne o altre cose al mare o al fiume, ovvero alle città. Sono gli Utopiensi gente benigna e piacevole, che ama il riposo: e, quando fa mestieri, paziente della fatica, specialmente negli studj che ornano l’animo. Essi avendo da me inteso delle lettere e dottrina de’ Greci, perchè delle cose latine altro non commendano, che le storie ed i poeti, si mostrarono molto bramosi ch’io di quelle lettere gli ammaestrassi. Così io cominciai a legger loro, piuttosto, acciò non credessero ch’io schivassi la fatica, che io ne sperassi frutto alcuno. Ma avendo letto alquanti giorni, la loro diligenza mi diede ardire che non sarebbe vana la mia sollecitudine. Perchè cominciarono a scrivere le lettere, pronunciare le parole, e mandarle con tanta prestezza a memoria, che mi parve cosa miracolosa: e molti per ordine del senato furono destinati a questo studio, cioè quelli del numero degli studenti, che erano di più acuto ingegno e di matura età. Così in tre anni leggevano speditamente ogni autore greco, purchè non fosse corrotto il libro. Ed essi, per mio avviso, tanto agevolmente impararono quelle lettere, perch’io credo che derivassero dai Greci; quandochè nella loro favella, che è persiana, sono molto parole greche, specialmente nel nominare le città ed i magistrati. Io la quarta fiata che navigai alla volta loro, mi posi nella nave buon numero di libri in luogo di mercanzie; avendo meco disposto di non tornar mai, piuttosto che tornar presto. Così lasciai a quelli molte opere di Platone e di Aristotile, e Teofrasto delle piante, ma troncato in più luoghi. Perchè essendo tenuto con poca cura nella nave, una scimia nè cavò fuori alquante carte, e stracciatele giuocando, le avea sparse qua e là. Hanno in grammatica Costantino Lascari; non avea portato meco Teodoro Gaza, nè altro dizionario che Esichio e Dioscoride. Tengono carissimi i libretti di Plutarco, e si dilettano delle piacevolezze di Luciano. Dei poeti hanno Aristofane, Omero, Euripide e Sofocle in forma piccola di Aldo. Degli storici, Tucidide, Erodoto ed Erodiano. In medicina, Tricio Arpino mio compagno, avea portato alcune opere d’Ippocrate, e il Microtecne di Galeno, i quai libri tengono in gran pregio. E quantunque meno sono bisognosi della medicina che qualunque altra nazione, tuttavia è presso di loro onorata più che in altro paese, perchè l’annoverano tra le parti principali ed utilissime della filosofia: ed investigando le cose di natura con l’aiuto di questa, si danno a credere non solamente di prendere gran diletto, ma eziandio di aggradirsi sommamente all’autore e artefice di quella. Pensando ch’egli, come fanno gli altri artefici, abbia posto innanzi agli occhi dell’uomo, il qual solo ha fatto di tal cognizione capace questa macchina, acciocchè la consideri: e che più gli sia caro l’uomo, che considera con ammirazione le degnissime opere sue, che colui, il quale, come animale senza intelletto e stupido, non si cura di contemplare questo mirabile spettacolo. Così gl’indegni degli Utopiensi nelle lettere esercitati vagliono mirabilmente a trovare le arti utili ai comodi della vita. Ma sono a noi debitori di due, cioè d’imprimere libri o faro la carta bambagina; benchè in buona parte da loro stessi ne vennero a perfetta cognizione. Perchè mostrando loro le lettere di Aldo impresse in tale carta, e ragionando dello stampare libri, intesero assai più oltre di quello, che dicevamo, niuno di noi essendo molto esperto nè dell’una nè dell’altra. Essi di subito fecero congettura come si potessero fare cotali arti: e perchè scrivevano per addietro in pelli, in scorza ed in papiro, tentarono subito di fare la carta e stampare. Nè riuscendo bene a principio, fecero tante fiate l’esperienza, che appresero alfine ciò che desideravano; e se non mancassero loro copie, avrebbero già stampato assai libri greci. Ma non hanno altri libri che i sopraddetti, e di questi hanno stampato gran numero. Ognuno che sia di singolare ingegno, ovvero che abbia veduto buona parte del mondo, il quale pervenga a loro per mirarne gli istituti, è accolto benignamente, perchè odono volentieri ciò che si fa negli altri paesi. Pochi mercanti vi vanno. Che altro vi possono portare, che ferro? e che vorrebbero portar via altro che oro? Ma essi vogliono in persona condurre altrove le cose loro, per aver cognizione degli altri paesi, e non si scordare la perizia del navigare.
Note
- ↑ Può interpretarsi nazion vana, popolo frivolo.